Alessandro Tonelli è un giovane pianista jazz italiano che ha trasformato la musica in una forza salvifica, capace di riscatto e di espressione personale. Nato a San Severo, nella difficile realtà della Capitanata, Alessandro si è avvicinato alla musica a sei anni e, dopo aver studiato pianoforte classico, ha trovato nel jazz e nel blues la sua vera identità artistica. La sua esperienza, segnata da una storia familiare complessa e da un ambiente di provenienza problematico, è diventata la linfa del suo linguaggio musicale, un mezzo per comunicare e rivelare il proprio vissuto interiore. Oltre alla musica, Alessandro si è dedicato alla psicologia, all’esoterismo e all’alchimia, che arricchiscono il suo modo di suonare, e allo sport del pugilato, che gli ha dato disciplina e fiducia. In questa intervista, ci racconta il suo percorso e la sua visione profonda della musica e del jazz.

a cura di Salvatore Cucinotta


Benvenuto Alessandro, grazie per la tua disponibilità.
Iniziamo dalle tue origini musicali: qual è stato il momento in cui hai capito che la musica sarebbe stata una parte fondamentale della tua vita?
Il momento in cui arrivò a casa il pianoforte. Quel giorno e i giorni successivi passati a esplorare la tastiera non potrò mai dimenticarli, avevo circa 9 anni. Vivevo in una casa molto piccola e con un fratello più grande, gli spazi erano pochi. Bisognava dividere tutto e invece quello strumento che vedevo così grande era il mio vero e unico posto in quella casa. Da quel momento la musica, e il pianoforte sono diventati parte della mia vita, ma è probabile che lo siano stati già da prima; perché quando penso al “quando” non so davvero dare una risposta se non “da sempre”.

Hai iniziato a suonare il pianoforte con la musica classica e successivamente sei passato al jazz e al blues. Quali differenze trovi tra questi generi e cosa significa per te suonare jazz oggi?
C’è una persona che ha dedicato i suoi studi a questo: il M° Vincenzo Caporaletti, che ho potuto conoscere durante gli studi al Conservatorio Santa Cecilia, lui classifica il jazz come musica “audiotattile” (sinestetica, cinetica, corporea), cioè l’insieme fono-sferica di jazz, rock, pop e world e risolve dei paradigmi oppositivi come : popolare/colto, oralità/scrittura, improvvisazione/composizione, musica/società e altri assunti o idee comunemente condivise come : la musica jazz è una tradizione orale, lo swing e il problema della definizione dei suoi criteri, l’improvvisazione pensata come “rapid composition”, la non inclusione della estemporizzazione (diversa dall’improvvisazione) e di conseguenza la didattica dell’improvvisazione modellata su quella della composizione. Oltre a questo, definisce il concetto di “matrice visiva” che è una griglia per rappresentare la musica d’arte occidentale, in quanto è presente un nuovo strumento tecnologico: la notazione musicale e introduce di contro della CNA (codifica neo-auratica) cioè il criterio cognitivo della fono-fissazione derivata dall’analisi di pratiche, espressioni e prodotti culturali attribuibili alla fenomenologia oralistica.

Una cosa quindi fondamentale che differenzia questi generi è l’origine senso-motoria dello swing (come di altri fenomeni ad es. il balanço brasiliano) e la differenziazione sostanziale della musica come espressione dell’essere umano in: audiotattile e visiva. Il mezzo con cui vengono codificate e “mediate” le informazioni sonore nel primo caso è di tipo psico-corporeo nel secondo è più visivo- matematico, il che influenza già di per sé la musica stessa.

Per concludere, purtroppo questa domanda è allo stesso tempo banale ma davvero difficile in quanto anche il processo storico del jazz è stato molto complesso e ha inglobato varie influenze, tra cui quella occidentale e no; quindi, risulta ibrida sotto diversi aspetti. Per me suonare jazz oggi comporta comunque diverse sfide, in quanto è necessario uscire dagli schemi di studio, di imitazione ed entrare in un processo di costruzione di un linguaggio proprio che può durare potenzialmente all’infinito ; il che è complesso perché comporta un processo di decostruzione e poi di scoperta e ricostruzione ma soprattutto tanto tanto studio e lavoro su se’ stessi per togliere i blocchi sulla creatività, sul giudizio e sulla competizione e sviluppare sempre di più un modo proprio di fare sintesi. Sono anche molto importanti i propri contesti (anche geografici), e le possibilità personali che ognuno ha, anche quelle molto basilari come tempo, salute, denaro, energia. Oggi secondo me si è chiamati ad essere sempre più se’ stessi utilizzando vari linguaggi, tra cui il jazz per creare qualcosa di unico e proprio provando a comunicarsi.

Il jazz è un genere che porta con sé temi di rivoluzione, riscatto sociale e denuncia. Quanto di questo spirito senti nel tuo modo di suonare e come ti rappresenta a livello personale?
La musica e il jazz danno la possibilità di individuarsi utilizzando diversi strumenti che cerco di trasformare in un mio linguaggio. Avere una propria idea, visione, mentalità e indipendenza, il proprio suono e stile; avere la possibilità di creare il proprio mondo e di diffondere la propria energia liberamente ampliando la propria consapevolezza incarnandola. Chi conosce bene la storia del jazz sa di cosa parlo, di generazioni di uomini che hanno riscattato la loro libertà personale grazie all’arte e alla spiritualità.

Essere liberi di fare tutto questo è un grandissimo atto rivoluzione perché si è esempi viventi che influenzano gli altri. Siamo sempre stati portati alla divisione e costretti a impiegare la maggior parte delle forze nella sopravvivenza mentre si viene distratti e sradicati in tutti i modi possibili.

Veni da una realtà difficile, quella della Capitanata, e hai attraversato situazioni complesse anche a livello familiare. Qual è stato il ruolo della musica in questi momenti e cosa ha significato per te avere un’ancora di salvezza come il pianoforte?
La musica mi ha protetto, in tanti modi. Ha creato una personalità che si esprimeva, che aveva una voce, uno strumento e un ruolo: “il Pianista”, in una realtà dove non c’era amore. D’altra parte, ha costituito una forma di contenimento, divenendo un nucleo narcisistico. Dopo anni, da quando sono riuscito a romperlo, ho dovuto lavorare su quello che c’era dentro, e quindi tanta sofferenza, emozioni negative, paure, giudizi, ricordi, esperienze, condizionamenti ecc.… tutto quello che non potevo sentire, la risposta di un bambino che in alternativa sarebbe impazzito. De-costruire questa immagine, mostrarsi nudi nonostante tutto è stata ed è una delle sfide più grandi e difficili della mia vita. Io sono Alessandro, e suono il pianoforte, ma non sono “il pianista”, cioè, non sono quello che faccio o almeno ci provo a non essere definito o a farmi definire da quello che faccio. Ancora oggi lavoro sul corpo e non smetterò mai di farlo, il posto in cui le memorie traumatiche sono conservate; l’ambiente di studio, infatti, era lo stesso ambiente disfunzionale in cui vivevo e questi due aspetti si sono formati insieme nutrendosi di due alimenti ben diversi e quindi dando vita a una dissociazione e a diverse parti. In questo mi ha aiutato studiare molto Alexander Lowen, Pierrakos, William Reich e Bessel van der Kolk. Negli anni diminuire la risposta del CPTSD quando suono è stata una lenta e difficile sfida.

Nella sfera pratica la musica mi ha permesso di vedere nuovi posti, conoscere nuove persone, esplorare l’animo umano e nutrire emozioni e pensieri. Mi ha permesso di scegliere un’alternativa al degrado, alla tossicità stessa del mondo esterno e affettivo, all’illegalità o ad altre strade poco sane dandomi valore e piano piano permettendomi di ri-conoscere.

Hai accennato al tuo interesse per l’alchimia, l’esoterismo e la spiritualità. In che modo questi percorsi hanno influenzato il tuo stile musicale e come riesci a integrarli nella tua arte?
Grazie della domanda. La lettura è un elemento cardine del mio percorso. Unire questi mondi è un terreno di ricerca ancora aperto e inesplorato ma è sicuramente ciò a cui aspiro più di tutto. La musica è magia, alcuni lo sanno. È il linguaggio degli Dei, può essere usata e viene usata in una certa ritualistica ed essendo uno strumento come sempre l’esito negativo o positivo dipende da chi e come lo usa e ci ricorda più di tutto che siamo collegati e immersi nell’etere. Gli artisti o le opere che hanno riferimenti esoterici, alchemici e spirituali sono tantissimi e di vario tipo dagli Youruba a Battiato.

Inoltre, la maggior parte dei grandi jazzisti ha o ha avuto una propria spiritualità o religione, proprio perché “diventare canale” della musica o attraverso la musica può costituire o essere espressione di un rapporto con il Divino. Su questo argomento ci ho scritto la tesi di biennio. “Music is a spiritual thing”!

Conosciamo la potenza creativa del verbo, la capacità di richiamare da altri mondi certe energie o entità assieme a glifi, simboli e pratiche. La musica è quindi una forma superiore di linguaggio. Anche scientificamente si è scoperto che ogni vibrazione ha una forma geometrica corrispondente, e può influenzare determinati stati di coscienza, indurli, o deprimerli: le aree cerebrali possono essere attivate e influenzate attraverso le frequenze e conosciamo appunto gli effetti della musica sulle piante e sugli animali; ma anche su feti ed esseri umani sia positive che negative.
Infine attingere alla sorgente primaria del sapere è la vera chiave per diventare degli esseri Umani migliori.
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Nel tuo percorso musicale, ti sei sentito spesso un outsider, anche all’interno del mondo accademico. Come hai superato queste difficoltà e come riesci oggi a portare la tua unicità nella tua musica?
Fondamentalmente è il principio della risonanza. Ho appreso e stretto legami con chi aveva la mia frequenza sia per quanto riguarda i docenti sia con i colleghi e cercato canali alternativi che sentivo giusti per il mio percorso di crescita e di studio anche esterni. Così quando un insegnamento passa ed è vero, rimane. Ho provato in ogni modo a vivere la mia vita e a non separarla troppo dalla musica e dallo studio, inoltre durante il periodo accademico ero in balia di varie problematiche personali con cui stavo lottando e con tante sfide che ho dovuto affrontare quindi parecchie cose le ho perse.

Porto la mia unicità semplicemente essendo sincero ed aperto anche quando suono, assumendomi tutti i rischi di quello che comporta. Chi mi conosce bene lo sa. Ho anche notato che più si eliminano i blocchi creativi e meglio si suona anche senza studiare nel senso canonico del termine. La mia posizione a riguardo è quella di fare entrambe le cose, bisogna solo essere in grado di capire i momenti e i periodi.

Oltre alla musica, anche lo sport del pugilato ha avuto un ruolo importante nella tua vita. Come è nato questo interesse e cosa ti ha insegnato il pugilato sul piano personale e artistico?
Il pugilato tempra il carattere infonde sicurezza e insegna un nuovo modo di affrontare la vita. Questa passione è comparsa per la prima volta quando avevo 16/17 anni, ho iniziato a San Severo nella palestra di un pugile molto importante: Luigi Castiglione. Dopo 1 anno mi sono trasferito a Pescara e ho continuato per qualche altro anno a frequentare qualche palestra ma poi ho smesso di fare attività fisica per molti anni. Dall’anno scorso, dopo essermi liberato della nicotina ho inizialmente ripreso a fare attività fisica da solo e con alcuni amici e poi sono tornato in palestra dove attualmente mi alleno con regolarità a Pescara.

Grazie a questo sport posso esprimere il corpo, canalizzare l’aggressività e la rabbia, con tecnica e disciplina assieme ad altre persone in un ambiente positivo. Non ho particolari aspirazioni, faccio qualche sparring in palestra per ora; in futuro si vedrà.

Dalla tua esperienza emerge un rapporto complesso con altri musicisti jazz e con il concetto stesso di jazz. Quali sono, secondo te, le difficoltà di relazione che possono sorgere tra artisti di questo ambiente?
La storia del jazz è molto ampia e ricca di momenti personalità e innovazioni. Ognuno sente proprio un “tipo” di jazz risalente a uno stile o a un periodo, o più di uno e quindi questo può favorire suonare assieme o sfavorirlo ma comunque avendo una radice comune di linguaggio, comunque, si riesce a comunicare.

Quello che ho capito nel tempo è che in una formazione ciò che conta davvero è l’alchimia che si crea tra tutti i membri. Se si sceglie di suonare con qualcuno solo perché è bravo, ha il nome, o i contatti secondo me il risultato non sarà positivo artisticamente parlando. Bisogna avere un certo tipo di rapporto e si deve creare un certo tipo di energia quando si suona insieme, così è possibile comunicare qualcosa al pubblico a prescindere da ciò che si sta suonando. Se invece nel gruppo sono presenti elementi di divisione come la competizione il disinteresse, o l’interesse economico/sociale senza il piacere di suonare e comunicare con l’altro magari può uscire anche buona musica ma di sicuro non si trasmetterà qualcosa di bello.

Le difficoltà di questo ambiente secondo me quindi sono alcune dinamiche che se portate troppo in là possono diventare tossiche, come appunto l’egocentrismo, la competizione, il do ut des ecc.… quando insomma ci sono problemi relazionali e poco equilibrio personale o vari interessi di altra natura. Infatti, in generale l’ambiente artistico è molto tossico. Ognuno di noi è molto sensibile ed ha diversi sistemi di difesa, bisogna imparare a stare attenti a non triggerarsi l’uno con l’altro e ad avere un atteggiamento di comprensione, ma senza esagerare; alla fine dopo un po’ si capisce come interagire. Con ognuno è diverso.

In più penso che la situazione in Italia generalmente sia abbastanza difficile per gli artisti che cercano di farne anche una fonte di sostentamento, ma non c’è bisogno che io ne parli perché è noto a tutti.

La questione dell’ego è spesso centrale per gli artisti. Come vivi questo aspetto nella tua carriera e come lavori per mantenere il giusto equilibrio?
L’ego è un argomento difficile per tutti, musicisti e non e in questo periodo storico è abbastanza importante. Personalmente lavoro sull’ego cercando di raggiungere la sua dissoluzione, sperando un giorno di riuscirci e diventare finalmente e realmente libero. Bisogna uscire da certe ottiche come quelle dualistiche e rivolgere il proprio sguardo verso qualcos’altro. Il talento non ci chiede di essere bravi ma di stare nell’amore. Purtroppo, anche se certe cose si capiscono, questo non basta a incarnarle; spero che un giorno anche io potrò sperimentarlo.

Quali sono i tuoi obiettivi come musicista jazz e quali messaggi speri di trasmettere con la tua musica?
Come musicista jazz ho l’obiettivo di riuscire a esprimermi sempre meglio e di studiare ancora, mi piacerebbe un giorno avere sempre più chiaro cosa volevano e cercavano i Maestri e magari scegliere di continuare o intraprendere il percorso di uno di loro.
Come artista invece, il messaggio generale che cerco di trasmettere sempre anche all’infuori della musica è quello di conoscersi e essere veri e sinceri in ogni caso e fino in fondo, far cadere le maschere e viversi in un rapporto sano sempre più profondo e come ho scritto prima anche di riuscire a unire nell’arte la mia ricerca personale.

Grazie Alessandro e complimenti per il tuo lavoro
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