Antonio Marino, talento versatile del teatro e del cinema italiano

Antonio Marino, classe 2007, è un giovane artista campano che ha già collezionato una notevole serie di esperienze tra cinema, teatro, musical, podcast e regia. Con una passione coltivata sin da bambino e una formazione articolata, Antonio si distingue per la sua versatilità, determinazione e voglia di raccontare storie attraverso molteplici linguaggi espressivi. In questa intervista ci immer-giamo nel suo percorso e nelle sue visioni artistiche, scoprendo cosa lo spinge a vivere mille vite sul palco e dietro la macchina da presa.

a cura della redazione


Antonio, benvenuto su Che! Intervista e grazie per aver accettato di raccontarti ai nostri lettori: come ti senti oggi, mentre guardi a tutto ciò che hai costruito così giovane? 
Grazie a voi. Mi sento emozionato ed energico. A 18 anni spesso si è ancora alla ricerca di sé stessi, ma io ho avuto la fortuna di trovare una passione che mi ha dato una direzione fin da piccolo. Ritengo sia stata una salvezza, perché oggi molti miei coetanei non hanno avuto le mie stesse possibilità. Oggi provo gratitudine: per chi ha creduto in me, per ogni progetto iniziato, anche quelli difficili. So che è solo l’inizio, ma mi fa bene fermarmi un attimo e dire: “Ok, forse qualcosa, finora, sono riuscito a farla.” Ogni progetto è una sfida, ma ogni volta che ne intraprendo uno, sono sicuro di portarlo a termine dando tutto me stesso e pre-tendendo sempre il massimo. 

La tua carriera ha abbracciato teatro, cinema, regia, radio e podcast: in quale di que-ste forme artistiche ti senti più a casa, e perché? 
È come chiedere: “A chi vuoi più bene, a mamma o papà?” Sicuramente il teatro racchiude al meglio tutte queste forme d’arte: il pubblico, il live, le risate… Mi piace pensare che il pubblico sia una parte del nostro inconscio che non giudica, ma osserva attentamente. Anche perché il giudice più severo di me stesso, sono proprio io. Il palco è vita, emozione. Tutto quello che si può vivere nella vita, su quel palco viene amplificato. Tante sono state le espe-rienze a teatro, al cinema, e soprattutto in radio, dove posso dire di aver creato una vera fa-miglia con i ragazzi di Li.Fe. Radio, la web radio del Liceo Scientifico Enrico Fermi di Aversa. Un progetto nato grazie all’animo visionario della dirigente Adriana Mincione, che ci ha permesso di costruire qualcosa di concreto insieme a grandi professionisti come Ro-berto Barone e Fiore Confuorto. Oggi è una delle radio scolastiche più riconosciute. 

Hai interpretato ruoli drammatici e comici, passando da spettacoli teatrali a musical come “Scugnizzi” e “Sognando Broadway”: cosa ti affascina del trasformarti continua-mente sul palco? 
Mi affascina il processo di scoperta ed evoluzione di ogni spettacolo. Ogni personaggio è un’occasione per tirare fuori parti di me che magari non conoscevo o che non uso nella vita reale. In Scugnizzi (2023), con la regia di Fausto Bellone, interpretare Don Saverio è stata una sfida profonda, perché portava in scena un uomo che si batte per salvare i giovani da un destino difficile. Invece, in Sognando Broadway (2024) con Serena Stella, ho potuto lavo-rare sull’energia, sul ritmo e sull’ironia, in un contesto corale con dei colleghi fantastici e consolidando sempre di più il mio rapporto sul palco con il giovane e talentuoso amico Sal-vatore Sorrentino. Cambiare ruolo mi permette di crescere, di studiare, di mettermi sempre alla prova. Ogni trasformazione sul palco è un’occasione per capire meglio me stesso e il mondo intorno a me. E ogni applauso, alla fine, mi ricorda perché lo faccio. 

Nella tua esperienza come regista, quali storie senti il bisogno urgente di raccontare oggi e come scegli i temi dei tuoi cortometraggi? 
Mi piace pensare che non sono io a scegliere le storie, ma che siano loro a travolgermi. 
Io non mi arrendo (2023) racconta la storia di Aurora Maria Pia Cannolicchio, una bam-bina la cui vita è stata portata via troppo presto da un glioma cerebrale. L’esigenza di rac-contare questa storia nasce da una chiacchierata con suo padre, Alessandro Cannolicchio. Ci sono storie che senti di dover raccontare, e in quei casi capisci che nessun intoppo potrà mai fermare quella missione. 

Hai collaborato con tanti professionisti, dai casting director ai registi di spicco come Sergio Rubini e Vincenzo Salemme: c’è un incontro che ti ha segnato particolarmente? 
Ho avuto il piacere di incontrare molti maestri, registi e casting director. Sicuramente porto nel cuore l’incontro con Vincenzo Salemme: avevo 14 anni, eravamo in piena pandemia, e lo incontrai pochi giorni prima di lavorare sul set del suo film Con tutto il cuore. Ricordo la gioia nel vederlo, i suoi modi da gran signore, la sua umiltà. Da lui ho imparato la gratitu-dine per questo lavoro, il rispetto, e la determinazione nel trasmettere leggerezza al pub-blico, ma con grande professionalità. Sergio Rubini, invece, mi ha insegnato il valore dell’attesa: la pazienza e il dare tutto quando si grida “Motore!” e poi “Azione!”, sicura-mente il ricordo di lui è più incisivo sotto il punto di vista di insegnamento di vita. 

Nel tuo podcast “Stelle in Ascolto” dai voce a personaggi noti e meno noti: cosa cerchi quando decidi di intervistare qualcuno? 
Quando scelgo un ospite per Stelle in Ascolto, non mi interessa solo il curriculum o la popolarità. Cerco l’anima, la storia dietro la persona. Voglio che chi ascolta il podcast senta qualcosa di autentico, che si emozioni, che rifletta, anche solo per un attimo. L’obiettivo non è fare domande scontate, ma aprire uno spazio intimo in cui chi parla possa mostrarsi per quello che è, con le sue fragilità, i suoi sogni, le sue battaglie. Abbiamo avuto ospiti noti come Beppe Vessicchio, Luca Abete, Serena Stella, Manù Squillante, ma anche persone meno conosciute che avevano qualcosa di grande da raccontare. Ogni storia, se ascoltata davvero, può diventare una stella e da qui nasce anche il titolo del podcast. Mi piace l’idea che, mentre intervisto qualcuno, in realtà sto ascoltando un pezzo di vita. E che chi è all’ascolto possa ritrovarsi, sentirsi meno solo, più ispirato. Per me Stelle in Ascolto non è solo un progetto, è un esercizio di empatia. E penso che oggi, più che mai, ne abbiamo bisogno. 

Sei anche un autore: ci racconti come è nato il libro “Il sorriso delle stelle” e cosa rap-presenta per te la scrittura rispetto alla recitazione? 
La scrittura, per me, è un rifugio e una forma di espressione ancora più intima rispetto alla recitazione. Quando reciti, sei il volto e la voce di qualcun altro. Quando scrivi, sei comple-tamente te stesse anche quando parli di altri. Il sorriso delle stelle è nato da un’urgenza: quella di fare ancora qualcosa per Aurora Maria Pia Cannolicchio, dopo il cortometraggio Io non mi arrendo. Sentivamo, io e Antonio Guida, che raccontare solo per immagini non bastava. Così abbiamo deciso di scrivere un libro per bambini, a quattro mani, che parlasse della forza, dell’intelligenza e della dolcezza di Aurora, rendendole giustizia con delica-tezza, rispetto e anche un pizzico di poesia. Volevamo che la parola “tumore” non fosse più un tabù, battaglia che Alessandro Cannolicchio porta avanti con coraggio da molti anni. Troppo spesso si nasconde dietro espressioni come “il brutto male”, come se pronunciarla potesse far male ancora di più. Scrivere questo libro è stato un atto d’amore, un modo per continuare a dare voce a chi non può più parlare, e per ricordare che anche i bambini pos-sono lasciare una luce fortissima dietro di sé. Per me, scrivere è questo: creare memoria, e trasformarla in qualcosa che può ancora fare bene a qualcuno. 

Tra palco e vita reale: come riesci a restare ancorato alla tua identità personale pur in-terpretando tante “vite diverse”? 
È una domanda che mi faccio spesso anche io. Perché, alla fine, ogni personaggio che interpreti ti lascia addosso qualcosa: un gesto, un pensiero, una fragilità. Ed è facile, a volte, perdere di vista chi sei davvero, soprattutto quando passi da un ruolo all’altro in poco tempo. Nel mio caso, la chiave è il silenzio. Ho bisogno di momenti in cui spengo tutto, mi isolo, ascolto me stesso. Nella vita privata sono molto riservato, mi proteggo da ciò che è troppo rumoroso o invadente. Cerco sempre un equilibrio tra il dentro e il fuori. Certo, il lavoro spesso me lo porto a casa è inevitabile, anzi sono fermamente convinto che la maggior parte del lavoro e dello studio venga realizzato proprio da soli in studio. Però ho imparato che la mia identità personale non va messa da parte, anzi, è il punto di partenza per interpretare ogni personaggio. Si parte sempre da sé, da ciò che si conosce, ma è solo il punto di partenza, la vera sfida è scoprire cose nuove e farle proprie. Osservare è fondamentale. Spesso mi definisco un sognatore silenzioso: uno che guarda il mondo mentre corre, ma resta fermo a studiarlo. E in quella lentezza trovo la mia verità, quella che mi aiuta a non perdermi, anche quando interpreto vite molto lontane dalla mia. 

Napoli è spesso al centro delle tue narrazioni e passioni: che ruolo ha la tua città nella tua crescita artistica? 
Napoli è molto più di una città per me: è una fonte inesauribile di ispirazione, è una voce che mi parla ogni giorno, anche quando non la cerco. Anche se vivo ad Aversa, città che vivo quotidianamente, sento che Napoli mi appartiene profondamente. È nei suoni, negli odori, nei colori, nella gestualità della sua gente. In tutto quello che scrivo, che racconto o metto in scena, c’è sempre un po’ di Napoli a volte esplicitamente altre volte come magica cornice. Questa città è una maestra severa e generosa allo stesso tempo. Ti mette alla prova, ti chiede di meritarla. Perché Napoli è una signora che si giudica da sola, come dico spesso: piena di contrasti, ma anche piena di verità. Il corto ’O curaggio ’e t’amà (2022) na-sce proprio da questo legame. È un omaggio sincero a una città che non si vergogna della sua complessità, che ama in modo viscerale, spesso scomodo, ma sempre autentico. Eduardo De Filippo diceva che “Napoli è sentimento”, ed è vero: qui ogni cosa si vive fino in fondo. Ed è anche per questo che sento il bisogno di raccontarla, di darle voce perché Na-poli non è solo bella, sa essere severa, giusta, ed io penso che non sarò mai in grado di com-prenderla completamente. Mi lascio andare, chiudo gli occhi e continuo ad ascoltare le pa-role e quei rumori che mi trafiggono il cuore di gioia. 

Qual è il sogno più ambizioso che stai inseguendo oggi, e quale messaggio vorresti lasciare attraverso la tua arte? 
Il mio sogno più ambizioso non è un traguardo materiale. Non è vincere un premio o girare un film da regista in un grande festival, certo, sarebbero emozioni straordinarie, ma non è quello il motivo per il quale mi sveglio al mattino. Il sogno vero è lasciare un segno, anche piccolo, ma autentico, nel cuore delle persone. Vorrei che chi vede un mio spettacolo, ascolta un mio podcast, legge una mia storia o guarda un mio corto, possa sentirsi toccato dentro. Anche solo per un istante. Vorrei stimolare pensieri, far nascere dubbi, regalare un sorriso o accarezzare una ferita ancora aperta. La verità, quella più semplice e profonda, non ha bisogno di nulla di speciale per essere raccontata. Ricordo con gioia i primi progetti realizzati con Michele Fabozzi mio caro amico e aiuto regista girati con un semplice cellulare, privi di strumenti ma pieni di voglia di dire la nostra. Basta una frase detta col cuore, uno sguardo sincero, un gesto sul palco che arriva dritto allo stomaco. Quella è la magia che inseguo ogni giorno. I miei miti sono Massimo Troisi e Totò, non solo per il talento immenso, ma per la loro umanità. Erano artisti capaci di far ridere e commuovere allo stesso tempo, senza mai allontanarsi da chi erano davvero. Ecco, se un giorno qualcuno potrà dire di me: “Antonio ha fatto arte restando fedele a se stesso”, allora forse avrò realizzato il mio sogno più grande. 

Grazie Antonio e complimenti per la tua carriera artistica!

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