Daniela Danese ha iniziato il suo viaggio musicale a soli dieci anni, quando il clarinetto, suonato in una gelida serata a Monopoli, ha acceso in lei una passione che ha segnato la sua vita. In questa intervista, Daniela ci racconta come quel ricordo, intriso di emozioni e di un desiderio di esprimersi, l’abbia condotta lungo un percorso formativo fatto di studi, sfide, fotografia, teatro e rinascita.
a cura di Noemi Aloisi
Benvenuta Daniela, hai molte passioni e una di queste è la musica, a dieci anni infatti, decidi di iniziare a suonare il clarinetto. Ricordi come ti sei avvicinata a questo strumento?
Ho ben in mente quel momento, come anche il freddo che si avvertiva quella sera. Eravamo a Monopoli, non ricordo quale ricorrenza fosse, ma mia nonna mi coprì di tutto punto e mi portò con lei ad una processione alla quale chiaramente partecipava anche la banda.
Posizionate sempre a fine corte e dopo la banda, probabilmente non avevo mai fatto caso agli strumenti presenti, davanti a me sempre grancassa e piatti che mi offuscavano la vista. Quel giorno invece il corteo si ferma in una delle piazzette del centro storico, mia nonna mi porta “in prima fila” e finalmente li vedo con più chiarezza una flotta di “bastoni neri”. Un suono brillante, pulito e inconfondibile. Vedevo le chiavi dello strumento brillare e le dita dei bandisti alternarsi e danzare nonostante il freddo congelasse anche i miei pensieri.
Resto letteralmente affascinata e chiedo a mia nonna di restare ancora un po’ ad ascoltare. I ritmi festosi della banda e quel suono brillante e anche deciso, fanno subito spazio al desiderio e bisogno che sentivo di poter anche io fare una cosa simile e produrre i “miei suoni”.
La richiesta fu diretta, come diretta fu mia nonna ad avvicinarsi a quello che sarebbe stato uno dei miei maestri in futuro, chiedendo informazioni. Timidamente osservavo, rispondevo sì e no con la testa. Dentro ero in fervore per questa nuova esperienza, ormai il coro della scuola non bastava, il coro domenicale e le recite fatte in chiesa sentivo che non bastavano. E così inizia il tutto, dalle scuole medie in poi il clarinetto è stato il mio fedele compagno di vita e notti insonni ripetendo posizioni e il nome delle chiavi.
In seguito, hai continuato a formarti dal punto di vista musicale e hai iniziato a suonare anche la tastiera, per arrivare al conservatorio; tuttavia, ad un certo punto hai smesso di suonare, posso chiederti cosa è successo?
I primi anni di studio dello strumento sono stati indimenticabili e fondamentali. Il Maestro Vito Gianpaolo, attualmente docente al conservatorio di Monopoli, ha diretto con maestria motivazione e passione guidandomi attraverso la scoperta di questo strumento. Le sue lezioni mi hanno fatto letteralmente innamorare anche delle difficoltà annesse all’apprendimento, dandomi la possibilità di sbagliare e divertirmi allo stesso tempo dell’errore stesso. Con gioia si condividevano i traguardi e con fermezza si analizzavano quelli che erano i punti da migliorare. Ho imparato così a vedere la musica come strumento di comunicazione, non solo per i più navigati, una risorsa da nutrire e portare fuori. In questi periodi ero alle medie, e fu proprio il maestro Gianpaolo a indirizzarmi verso l’iscrizione al conservatorio. Con lui sognavo una carriera da concertista e non solo.
Questo dono dei primi anni di studio alla media musicale, i primi saggi e concorsi, concerti e gemellaggi con altre orchestre hanno lasciato poi spazio a lezioni che hanno fatto spegnere dentro di me qualcosa.
Il mio arrivo al conservatorio, fatto di competizione e lezioni demotivanti, hanno fatto spegnere in me la curiosità iniziale e quella scaltrezza nell’affrontare lo studio di uno strumento a fiato, ostico e di nicchia.
Ho proseguito ugualmente lo studio privatamente, mosso i primi passi in banda cosa alla quale ambito, ma ad un certo punto dopo quei due anni qualcosa in me si era rotto.
La musica è sempre stata mia compagna e maestra di vita, un gioco bello da fare insieme agli altri, parlare tutti contemporaneamente imparando ad andare a ritmo. Una maestra dicevo, perché da essa coglievo insegnamenti, conforto e compagnia nei momenti di solitudine domestica, nei momenti in cui gli adulti intorno a me non erano capaci di dare sollievo ai miei perché, momenti in cui cercavo affetto e davvero lo trovavo nei suoni e nell’arrangiamento degli artisti che ascoltavo maggiormente.
Non ho trovato nulla in quegli anni che rispecchiasse la mia “idea” o “forma” che do non ad una semplice pratica, ma ad un vero e proprio sentimento che ad oggi non so ancora spiegare a me stessa.
Ho preferito fare da me, informandomi e formandomi parallelamente in maniera autonoma, approcciandomi ad ascolti sempre più vari e anche allo studio autonomo di altri strumenti, come l’ukulele e la tastiera.
Attualmente anche nel mio lavoro principale da educatore, cerco di trasmettere la stessa mia passione ai più piccoli approcciandoli alla musica come un vero e proprio linguaggio che non conosce diversità o distanze geografiche.
Di cosa ti occupavi al centro che accoglie disabili?
Assieme alla cara Viviana Altomari e un gruppo di “folli” ragazzi desiderosi di iniziare un progetto che ad oggi ritengo una delle esperienze più belle e che mi restituiscono valore e amore di anni indimenticabili, iniziamo questa avventura nel centro di accoglienza e aggregazione “Arcobaleno”.
Attraverso incontri guidati da Viviana e suo fratello, abbiamo iniziato a muovere i primi passi in un centro per disabili, non vi era inizialmente una mansione predefinita.
Ci si incontrava e si creava qualcosa assieme ai ragazzi, li si conosceva principalmente e ad entrare in contatto con nuove lenti che vivono la vita.
I primi balletti, canti e spettacoli, musical e tanto altro, musica e teatro, arte e immagini, un connubio perfetto per raccontare non delle semplici storie… ma vere e proprie emozioni.
Il tempo trascorso in quel luogo sono le più preziose, i ragazzi, le donne e gli uomini incontrati con i loro sorrisi e le loro storie mi hanno segnato profondamente e fatto maturare la consapevolezza che in un futuro, ormai non troppo lontano, avrei voluto intraprendere un lavoro di cura alla persona.
Con il teatro che genere di spettacoli proponevate? Fai ancora questa attività?
Assieme ai ragazzi del “Centro Arcobaleno” e quindi con l’attuale “TeatroVerso dell’Arcadia” si sono realizzati spettacoli di teatro integrato, svolgendo una formazione, dai temi più svariati e accompagnati da professionisti del settore che ci hanno aiutato ad esprimere la nostra essenza partendo dal corpo, partendo da ciò che siano liberandoci dai limiti e costrizioni imposte dalla società.
Tra i più belli al quale ho partecipato ne cito uno al quale sono particolarmente affezionata “C’é tempo”. È uno spettacolo che analizza le caratteristiche quotidiane del tempo vissute su due canali: razionale ed emozionale.
Purtroppo, a causa dello studio, e del lavoro trovato subito appena laureata, non ho potuto più partecipare a questo bellissimo progetto, poiché ormai lontana da Monopoli e dai suoi ritmi.
Allo stato attuale i contatti sono sempre aperti, tornare in quel luogo magico che è Palazzo San Martino a Monopoli mi riporta alla mente il mio percorso non da operatore di teatro, ma di essere me, una persona in questo fragile e duro mondo.
Tra le tue passioni, c’è la fotografia, cosa preferisci fotografare?
Non c’è un soggetto in particolare di cui il mio occhio è alla ricerca, ma se dovessi proprio scegliere sarebbero le scene di vita quotidiana, indipendentemente dal luogo in cui mi trovo, c’è sempre un attimo di equilibrio tra una mano tesa, la disposizione dei colori su uno scaffale, un’ombra proiettata su un palazzo. Semplicemente, lontana da tecnicismi e perfezionismo … sono alla ricerca non dello scatto magistrale, ma di emozioni e sensazioni personali capaci di poter arrivare al pubblico, anche senza l’utilizzo delle parole. Attraverso la fotografia, voglio raccontare la vita principalmente e allenare l’occhio ad essere sempre più sensibile verso tematiche sociali che richiedono attenzione.
Che cosa significa per te fotografare?
Amo della fotografia la sua capacità di comunicare, emozionare, sensibilizzare attraverso il silenzio. Dopo il suono dell’otturatore, silenzio e la vita intorno a me che scorre, che racconta, che soffre e gioisce. Non ci rendiamo conto di quanto in una foto si è capaci di catturare energia e condividerla con il mondo intero. Delle volte forse sottovalutiamo l’impatto che un’immagine possa avere su di noi, non siamo più abituati a chiederci nel profondo “cosa ho visto”, fermarci e chiederci se da cittadini possiamo fare qualcosa. La vita è diventata veloce, se pensate anche al modo in cui ormai percepiamo il gesto di fotografare qualcosa… penso abbia perso la sua bellezza. Vi ricordate no da bambini, le foto erano momenti solenni, da fare con cura, stampare e conservare in album con copertine colorate e un’etichetta bianca con la data dell’evento immortalato. Quanti di voi non hanno scatoloni pieni di foto?
Adesso invece scattiamo foto che probabilmente non vedremo più, almeno fino a quando Google foto non ci invierà una notifica. So anche di essere una profonda nostalgica e malinconica del “vecchio” che per conserva sempre la vera essenza delle idee iniziali, che col tempo prendono forma… il mio augurio è che non perdano il loro valore.
Ma veniamo al vero dunque …
Andando a lavoro attraversando a piedi due quartieri di Bari, mi chiedo più e più volte quante realtà e verità ingiuste ci siano a questo mondo. Proprio attraverso le mie passeggiate, e grazie all’occhio osservatore di un educatore, che nasce dentro di me la voglia di voler raccontare “nello schiaffo della strada” cosa sia effettivamente la città di Bari e nello specifico il quartiere Libertà.
La fotografia per me così assume una duplice valenza, la foto è emozione e memoria e allo stesso tempo informazione, azione e denuncia di un qualcosa che nella società non sta funzionando.
Attualmente sei un’educatrice, cosa ti piace del tuo lavoro?
Ogni giorno, varcando la soglia del centro diurno in cui lavoro, mi chiedo quale possa essere se non quello il posto giusto per imparare e osservare la vita nelle sue mille pieghe dolci e difficili.
Questa è una domanda che può cambiare il suo contenuto di anno in anno perché per il suo fare dinamico e mai statico, questo lavoro porta tanto nella vita di chi lo svolge.
Non è un lavoro semplice, di cura o di intrattenimento, come purtroppo in molti credono, ma come per la fotografia di strada, l’educatore è il vero braccio che accompagna la vita delle persone nel suo percorso lungo o breve che sia, sereno o tortuoso. Noi educatori del centro diurno “I ragazzi di Don Bosco” abbiamo creato una vera e propria famiglia, lo si respira nei sorrisi dei ragazzi e bambini, nei loro genitori che avvertono il nostro esserci come in un caldo abbraccio, mai soffocante. Il nostro fare educativo si muove su un piano preventivo lasciatoci da Don Bosco, non a caso portiamo appunto il suo nome, poiché la storia della coop “Il sogno di Don Bosco” nasce proprio all’interno dell’istituto Salesiano, quasi 20 anni fa.
Ci definiamo “professionisti senza camice” non del senso comune, ma di un’educazione morale a tutto tondo. Si va oltre il proprio, oltre la propria esperienza di vita e senza porre giudizio si guarda l’uomo, il bambino, l’anziano, donna o disabile nel suo mondo, nelle sue potenzialità … semplicemente si guarda l’essere umano nel suo massimo potenziale di vita e lo si accompagna verso la felicità.
Tutto questo assume, per me, il massimo del suo valore, rapportato a tutte quelle situazioni di fragilità umana in cui siamo chiamati ad accompagnare l’uomo verso le sue responsabilità. Lavorando nel quartiere Libertà, la sfida è sempre maggiore, le fragilità aumentano e noi colleghi non facciamo altro che osservare con attenzione i bisogni delle anime a noi affidate.
Questo mi piace del mio essere educatore, il guardare oltre, il sognare assieme all’utente il suo futuro corroborando il suo percorso di crescita di esperienze positive e affini allo sviluppo del suo personale progetto di vita. Il territorio con la sua rete di opportunità è fondamentale, la ricerca di progetti ed occasioni per i nostri utenti diventano modo anche per noi operatori, per conoscere nuove realtà e continuare a formare la nostra professionalità. Sogniamo dicevo ed educhiamo anche noi stessi, in ogni storia con la quale veniamo a contatto.
“Chi ama, educa”
Don Bosco.
Al momento stai lavorando ad un progetto fotografico o credi che lo farai?
Il progetto fotografico che vorrei avviare, di cui ho accennato brevemente nelle risposte precedenti, è nato principalmente nei miei occhi e poi nel mio cuore. Mi definisco una persona altamente sensibile, il cui occhio e cuore ormai sono pregni di scene che meritano di essere portate alla luce e non restare sepolte in quartiere che, per un caso fortuito, si chiama Libertà. Non è solo una porzione, a mio avviso dimenticata della città, ma un vero e proprio melting pot di culture, colori, sapori, odori che puoi trovare sempre diversi a seconda delle strade che percorri.
C’è tanto da scoprire, dai negozi bengalesi alle moschee, ai centri culturali e alle macellerie halal presenti nel quartiere. Dai pakistani, agli albanesi ed ancora nigeriani, senegalesi, etiopi, georgiani … di quanto mondo dispone la nostra città?
Se chiudi gli occhi delle volte, ed ascolti, ti senti catapultato in una porzione di mondo distante da Via Nicolai, se annusi l’aria potrai sentire l’odore di spezie forti e pungenti.
Se apri il cuore ti rendi conto di quanta vita si è circondati e quanta paura si ha nell’avvicinarsi a nuove realtà.
C’è tanto da scoprire, ma anche denunciare … e si denunciare, perché la vita in quel quartiere non è mai stata semplice, e proprio attraverso la fotografia che vorrei portare al centro la rivalutazione di un quartiere che ha del potenziale incredibile.
In molti lo conoscono come un luogo buio e pericoloso, per me è un quartiere da valorizzare e restituire alla città e aprirlo a più giovani possibili, come scuola di vita e finestra sul mondo.
Hai mai pensato di fare della fotografia un secondo lavoro?
Praticamente lo penso ogni giorno, ogni volta che uno scatto ha sortito l’effetto desiderato, ogni volta in cui sono riuscita a raccontare in pochi scatti un’esperienza vissuta, una passeggiata o un semplice momento vissuto con i miei 11 bambini che trasudano energia e linfa per la mia vita stessa.
Il mio sogno sarebbe quello di educare attraverso il potere evocativo delle immagini, infatti nel mio lavoro di educatore lavoro molto con le immagini, con la produzione grafica-simbolica.
Mi piacerebbe non solo fare fotografia di strada, ma anche affacciarmi nel mondo dei matrimoni, o quello musicale, mantenendo sempre il mio stile libero e per nulla impostato.
La fotografia, come si ho raccontato è stata la mia cura da adulta, la mia personale cura per affrontare un momento difficile della mia vita e riabilitare cuore-mente-anima a guardare quanto la vita ha da offrirmi.
Attualmente vivi a Bari, il tuo posto è lì o ti piacerebbe spostarti?
Bari per me rappresenta l’inizio della mia vita, slegata dalle mie origini e dai problemi domestici, è stata scuola e divertimento, casa e famiglia, lavoro e tante esperienze. Bari sarà sempre il mio posto del cuore, la città che mi ha dato la possibilità di mettermi alla prova, e per questo le sarò sempre grata. È una città alla quale vorrei, e penso di farlo un po’ con le mie foto, e il mio lavoro da educatore, restituire un po’ di amore e poter lasciare un segno concreto che resti.
Vorrei con tutto il cuore potermi spostare e portare tutto ciò che ho imparato e che sono anche altrove, che sia con il cuore da educatore che con l’occhio da fotografo … sarebbe bello davvero poter abitare questo mondo e renderlo proprio con azioni concrete che creino ponti e non separazioni.
Grazie per il tuo tempo Daniela.
Grazie a voi, per la pazienza prima di tutto. Non vi nego che per me sia stata una “strana” occasione, perché al momento attuale sento che potrei dare molto di più, e che fin quando non avrò raggiunto determinate mete … non mi sentirò mai pienamente soddisfatta.
Mi sono detta di non essere nulla… ma è anche vero che, nel momento in cui uno si attiva… e porta fuori la sua essenza, diventa qualcuno… ed io sono ftdllmadonna.
Grazie di vero cuore per questa mia prima intervista.
Vi abbraccio.
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