Dario Piccioni: un viaggio tra jazz, improvvisazione e musica contemporanea

Dario Piccioni, contrabbassista e bassista nato a Roma, è un musicista che ha saputo distinguersi nel panorama musicale internazionale grazie alla sua capacità di spaziare tra jazz, world music, progressive rock e musica contemporanea. Con una solida formazione accademica e numerosi premi alle spalle, tra cui il prestigioso “Premio Jazz Isio Saba 2022”, Dario ha collaborato con artisti di fama mondiale e ha pubblicato diversi album da solista. In questa intervista, esploriamo il suo percorso artistico, le influenze musicali che lo ispirano e i suoi progetti futuri.

a cura di Antonio Capua


Benvenuto, Dario! La tua carriera ha toccato generi musicali molto diversi tra loro, dal jazz alla world music. Come riesci a bilanciare e integrare tutte queste influenze nella tua musica?
Sono generi musicali che mi appassionano. Non sono poi così lontani. Il jazz è linguaggio che ha permesso di esprimere la mia musicalità interiore, che altrimenti sarebbe rimasta inespressa. Alla cosiddetta world music mi sono avvicinato grazie agli studi di antropologia ed etnomusicologia all’università. Ma anche semplicemente viaggiando: trovo sia una delle cose più affascinanti per un musicista scoprire come l’esigenza umana di produrre suoni organizzati, si sia diffusa ed abbia preso forme diverse a seconda delle aree geografiche. Jazz e world saranno per sempre le mie due fonti di ispirazione che stimolano la mia sensibilità di musicista.

Il tuo ultimo album, Hortus Del Rio, ha ricevuto recensioni molto positive. Quali sono state le tue principali ispirazioni per questo progetto e come descriveresti il suono che hai creato?
Fonte d’ispirazione è il rapporto personale che ho con Roma, città in cui sono nato, vivo ed opero. “Hortus del Rio” nasce dall’idea di voler far confluire alcune esperienze di musica che appartengono al mio passato. Nei precedenti dischi ho preso ispirazione da generi musicali come il folk mediterraneo, mentre in quest’ultimo album ho raccolto delle suggestioni che provenivano da un certo filone che mi affascina della musica brasiliana e che ho avuto modo di suonare tempo fa, e le ho fatte confluire in una sorta di concept album che parla della città di Roma, nella mia visione personale. Racconto il fatto che sono rimasto a Roma dopo la pandemia, frequentando intensamente l’attività musicale legata al mondo jazz e introducendo questa suggestione e velata ispirazione che parte dalla cultura brasiliana.

Hai collaborato con grandi nomi come Ralph Towner, Perico Sambeat e Danilo Rea. Qual è stato il contributo più significativo che queste collaborazioni hanno apportato al tuo sviluppo musicale?
Ralph Towner che compare nel disco “Moresche ed altre invenzioni” registrato con Maria Pia De Vito e prodotto per la Parco Della Musica Records, è sempre stata una fonte di ispirazione, sia come membro fondatore degli Oregon, ma anche con i suoi dischi in solo prodotti per ECM. Perico Sambeat e Danilo Rea li considero tra i più grandi maestri che io abbia mai avuto. Hanno creduto in me e mi hanno concesso di condividere il palco con loro, palchi importanti ( nel caso di Rea l’allora teatro Eliseo di via Nazionale a Roma, con ospite Gino Paoli, che poi non venne perché malato) . Gli devo moltissimo.

Sei stato premiato come miglior contrabbassista al Be Jazz – European Contest 2017 e hai vinto numerosi altri riconoscimenti. Come hanno influenzato la tua carriera questi traguardi?
Al di là delle vittorie, considero i jazz contest un passaggio fondamentale per il musicista. Sono prima di tutto delle occasioni per incontrare musicisti selezionati da varie parti d’Europa, condividere il palco e il backstage con loro, dunque conoscere musiche nuove, e rispettarsi sempre anche se si è in competizione. Con molti di loro è nato un rapporto di amicizia e collaborazione come con il batterista Michele Santoleri conosciuto al concorso “Chicco Bettinardi” di Piacenza che è attualmente il batterista che fa parte del mio trio con cui ho registrato gli ultimi due dischi.

Oltre alla musica, hai studiato antropologia e hai scritto una tesi su Sun Ra. Come la tua formazione accademica ha influenzato il tuo approccio alla composizione e alla performance?
Gli anni universitari sono stati necessari alla formazione della mia identità musicale, soprattutto perché ho potuto costruire un curriculum di studi ad indirizzo etnomusicologico che (inevitabilmente) è andato a confluire sul jazz. Alcuni testi di antropologia conosciuti all’università sono stati di ispirazione ai miei dischi: “Antropologia della performance” di Victor Turner, “Riti di Passaggio” di Van Gennep, “Pietre di pane” di Vito Teti, per citarne alcuni sono stati la base su cui ho tratto ispirazione per il mio secondo disco “Carpet Stories”, mentre il concetto di “trans–culturalità” è alla base di “Hortus Del Rio”.

Il jazz è un genere che permette molta libertà creativa. Come vivi l’improvvisazione e quali sono gli elementi che cerchi di esplorare quando suoni dal vivo?
Vivo l’improvvisazione come ricerca e studio, per cercare di migliorarla e rendere il mio fraseggio più interessante, espressivo. Cercare un modo di emozionare il pubblico con uno strumento, per altro, non del tutto così predisposto al solismo, come il contrabbasso. Senza dubbio, l’elemento ritmico risulta per me fondamentale, ma per creare un bel momento improvvisativo bisogna saper bilanciare tutti i parametri: melodico, timbrico, performativo. Creare un equilibrio, un “flow”. E’ una ricerca continua.

Nel tuo percorso hai lavorato sia in progetti solisti che in ensemble. Come cambia il tuo modo di approcciarti alla musica in queste due situazioni diverse?
L’obiettivo è sempre quello di rimanere se stessi e conservare la propria identità. Chiaramente nei progetti in cui sono side–man conta molto comprendere e processare le indicazioni fornite dal compositore e/o band leader, ed attenersi a quanto scritto in partitura.

Sei stato coinvolto in diverse produzioni discografiche e teatrali, collaborando anche con nomi importanti del teatro italiano. Come è stata questa esperienza e in che modo il teatro ha arricchito la tua carriera musicale?
In famiglia mi hanno trasmesso la passione per il teatro, amo quindi il teatro e mi piacerebbe collaborarci più frequentemente. Ho avuto la fortuna di collaborare con dei grandi nomi come Sergio Rubini, Mariangela D’Abbraccio, Pino Quartullo e molti altri. Sono state esperienze che mi hanno insegnato molto in termini di professionalità e self–control. Ho capito che il jazz e le musiche improvvisate vanno d’accordo con il teatro, è un connubio vincente, che piace e che spero sia duraturo. Senza dubbio salire sui grandi palchi italiani con grandi attori e ad attrici insegna molto a noi musicisti.

Tra le tue pubblicazioni, Limesnauta e Carpet Stories sono progetti molto diversi. Come affronti la sfida di creare musica che sia innovativa, ma che mantenga una coerenza con la tua visione artistica?
Cerco sempre di mantenere una certa coerenza nei miei progetti discografici. Ognuno è il
sequel del precedente. Limesnauta è un po’ diverso si. E’ un disco che è stato scritto durante il mio periodo di formazione in Spagna. Dunque sono presenti molto di più contaminazioni di musiche provenienti da quell’area geografica. Mentre “Carpet Stories “ e’ stato prodotto a Roma durante la pandemia; dunque in uno scenario decisamente diverso. Si è coerenti nell’azione creativa quando alla base c’è un qualcosa che ti emoziona: un ricordo, un sogno, un viaggio, una perdita, un incontro. Un’ emozione intensa è la fonte di tutto: essendo, il più delle volte, inspiegabile a parole, uso i suoni per incastonarla.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi? C’è qualche nuovo genere o progetto su cui stai lavorando e che desideri esplorare maggiormente?
C’è sicuramente un disco in cantiere che spero di completare e pubblicare entro la fine di quest’anno, in cui sto raccogliendo tutte le esperienze di viaggio vissute negli scorsi mesi: Cina, Messico; Bahrein. In effetti trattandosi, come sempre di musica cosiddetta “strumentale” sarà un disco che rifletterà sul concetto di “strumento”, (altra ispirazione antropologica), sulle sue potenzialità e su cosa significhi veramente per me suonare uno strumento: dopo tanti che suono è arrivato forse per me il momento di chiedermelo.

Grazie per il tempo Dario e un grosso in bocca al lupo per i tuoi progetti futuri
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