Davide Uria: Sopravvivere all’Arte (e riderci su)

Con “Sopravvivere a un museo d’arte contemporanea”, Davide Uria torna in libreria il 5 maggio 2025 con un nuovo manuale ironico per non perdersi tra performance, concettualismi e stanze enigmatiche.

Dopo aver fatto sorridere (e riflettere) con Lucio Fontana spiegato a mia nonna, Davide Uria è pronto a tornare con un nuovo libro altrettanto pungente: Sopravvivere a un museo d’arte contemporanea. Dieci stanze, dieci artisti, dieci sopravvivenze possibili. In uscita il 5 maggio 2025 in esclusiva su Amazon, questo nuovo volume si muove tra divulgazione pop e umorismo colto, offrendo al lettore una mappa immaginaria – e utile – per orientarsi nei misteri dell’arte contemporanea. Dieci tappe, dieci nomi simbolo (da Marina Abramović a Yayoi Kusama), e un solo consiglio: non prenderti troppo sul serio.

a cura della redazione


Ciao Davide e benvenuto su Che! Intervista. Il 5 maggio esce Sopravvivere a un museo d’arte contemporanea: come nasce questo nuovo viaggio tra provocazioni, installazioni e ironia?
Questo libro nasce da un’urgenza: imparare a guardare. Non solo le opere d’arte, ma anche le relazioni che intrecciamo, le parole che scegliamo, i significati che attribuiamo alle cose. L’arte contemporanea ci interroga continuamente, ci pone davanti a forme e concetti che spesso non comprendiamo subito. Ed è proprio in questo sfasamento iniziale che risiede la sua forza: ci obbliga a rallentare, a sospendere il giudizio, a superare la visione superficiale. In un mondo che corre veloce e ci abitua a consumare tutto – immagini, parole, emozioni – con un clic, l’arte ci impone un tempo diverso: quello della contemplazione, del dubbio, della riflessione.
Ho voluto scrivere questo libro per offrire una mappa ironica e affettuosa a chi entra in un museo d’arte contemporanea con un misto di curiosità e disorientamento. Un invito a non sentirsi inadeguati, a non vergognarsi della propria perplessità, ma a viverla come un punto di partenza. Ridere, dubitare, interrogarsi: questi sono gli strumenti che ci aiutano a costruire uno sguardo più profondo e consapevole. In questo senso, l’arte è una scuola di resistenza contro la leggerezza dilagante.

Dopo Lucio Fontana, ci porti dentro un museo contemporaneo immaginario: cosa ti affascina – o ti diverte – di più dell’arte di oggi?
Ciò che mi affascina è la sua volontà di non piacere per forza. L’arte di oggi non chiede di essere amata a prima vista: ti provoca, ti sfida, a volte ti respinge. Eppure, in questo atteggiamento spigoloso c’è una richiesta profondamente umana: “Guardami davvero”. In un mondo dove l’apparenza ha preso il posto della sostanza, dove tutto deve essere comprensibile in pochi secondi, l’arte contemporanea ci ricorda che la comprensione vera richiede tempo, impegno, attenzione.
Mi diverte la sua imprevedibilità. Entri in una stanza e trovi una pila di scope, o una sedia al centro del nulla, e non sai se puoi toccarla, sederti, o chiamare il custode. Questa ambiguità ha una forza dirompente. Ti costringe a prendere posizione, a fare domande. E in questo senso è uno specchio meraviglioso della nostra epoca: caotica, frammentata, ma incredibilmente viva.

Nel libro si attraversano dieci “stanze”, dieci artisti: come hai selezionato queste tappe e cosa rappresentano nel tuo personale atlante dell’arte?
Le dieci stanze non sono una selezione “oggettiva” o esaustiva: sono un viaggio personale, quasi sentimentale. Ogni artista che ho scelto ha rappresentato per me un inciampo, uno scarto rispetto alle aspettative. Sono stati incontri, a volte traumatici, che mi hanno costretto a riformulare il mio sguardo. Alcuni mi hanno fatto arrabbiare, altri mi hanno commosso. Tutti, in modi diversi, mi hanno obbligato a fermarmi. E fermarsi, oggi, è già un atto sovversivo. Ogni stanza è costruita come un micro-universo, dove l’artista diventa guida e ostacolo allo stesso tempo. Non offro spiegazioni definitive, ma stimoli per entrare dentro l’opera, per ascoltare ciò che ci muove dentro. Perché, come accade nelle relazioni più autentiche, è quando ci sentiamo messi in crisi che iniziamo a crescere.

Tania Bruguera, Marina Abramović, Barbara Kruger: molte protagoniste sono donne. È una scelta consapevole, simbolica, necessaria?
È una scelta necessaria, prima di tutto. La storia dell’arte è stata per secoli una narrazione parziale, che ha sistematicamente escluso le voci femminili. Includere queste artiste nel mio museo immaginario è un gesto di restituzione, ma anche di riconoscimento. Non sono solo donne che fanno arte: sono figure che usano il proprio corpo, la propria voce, il proprio dolore e la propria rabbia per creare spazi di verità. Abramović trasforma il tempo in materia viva, Bruguera rende l’arte un atto politico, Kruger sovverte i codici visivi della comunicazione. Tutte e tre ci ricordano che l’arte è azione, è presenza, è rischio. E che la bellezza – quella vera – non è mai comoda.

Il tono che usi è leggero ma mai superficiale: quanto è difficile parlare di arte contemporanea senza risultare né snob né banali?
È una sfida continua. Da una parte, l’arte contemporanea viene spesso raccontata con un linguaggio elitario, criptico, che allontana chi non ha gli strumenti “giusti”. Dall’altra, c’è il rischio opposto: semplificare tutto, ridurre la complessità a slogan, trasformare la profondità in intrattenimento. Io cerco una terza via: parlare con chiarezza, ma senza tradire la complessità. Usare l’ironia per aprire spazi di riflessione, non per chiudere il discorso. Credo che il rispetto per il lettore passi anche da questo: non sottovalutarne l’intelligenza, ma nemmeno pretendere che debba per forza “capire tutto”. Perché, a ben vedere, neanche gli artisti capiscono tutto di ciò che fanno. E questo, in fondo, è il bello.

Pensi che l’ironia sia uno strumento utile per avvicinare le persone all’arte, soprattutto quella più concettuale?
L’ironia è uno strumento potentissimo, soprattutto quando usata con rispetto. È una forma di linguaggio che non pretende di sapere tutto, ma che apre, disarma, crea complicità. In un museo d’arte contemporanea, dove molte persone si sentono spaesate, intimidite o inadeguate, l’ironia può essere il ponte che ti permette di restare, di non scappare. Non uso l’ironia per ridicolizzare l’arte, ma per alleggerirla dalle sue zavorre. Per dire: possiamo guardare anche con un sorriso. Possiamo non capire tutto, eppure sentirci coinvolti. L’ironia non è fuga dalla profondità, ma un modo diverso per avvicinarsi ad essa.

Hai mai avuto, da visitatore, un momento di panico davanti a un’opera che non capivi? Come l’hai “sopravvissuto”?
Succede spessissimo. L’opera che non capisco è quasi la norma, non l’eccezione. E ho imparato che va bene così. Il momento di panico nasce quando pretendiamo di capire tutto subito, di dare un significato istantaneo. Ma l’arte, come le persone, a volte ha bisogno di tempo. Ho imparato a restare. Anche solo qualche secondo in più. A respirare davanti all’incomprensione. A chiedermi: cosa mi provoca? Dove mi porta questa confusione? E spesso, è proprio da quel disorientamento che nasce qualcosa di vero. Un pensiero, un dubbio, un’emozione. È quello il punto in cui l’arte inizia a lavorare dentro di te.

La tua scrittura sembra voler costruire un ponte tra chi “sa” e chi “non sa”: qual è il pubblico ideale di questo libro?
Il pubblico ideale è chi non ha paura di fare domande. Chi entra in un museo e si sente un po’ fuori posto, ma non si arrende. Chi vuole capire, ma non accetta spiegazioni prefabbricate. Questo libro è per chi guarda con curiosità, anche se con un po’ di timore. Per chi si ferma e dice: “Non lo capisco, ma mi interessa.” In fondo, siamo tutti pubblici ideali se smettiamo di voler sembrare esperti. L’arte non ha bisogno di competenze, ma di presenza. E la scrittura, come l’arte, dovrebbe servire a farci sentire meno soli nel nostro disorientamento.

Se potessi davvero creare un museo a tua immagine e somiglianza, come sarebbe? Che atmosfera avrebbe?
Un museo accogliente. Dove non esistono percorsi obbligati. Dove puoi sbagliare, ridere, restare in silenzio o parlare ad alta voce. Dove nessuno ti guarda male se ti commuovi davanti a un video muto. Sarebbe un luogo vivo, fatto di ascolto. Con pareti mobili, panchine comode e cartelli ironici. Un museo dove non ti senti giudicato ma stimolato. Un museo che non ti chiede di essere pronto, ma solo presente. Dove il dubbio non è un limite, ma un punto di partenza.

Infine: cosa ti auguri che il lettore porti con sé dopo aver letto Sopravvivere a un museo d’arte contemporanea?
Mi auguro che porti con sé uno sguardo diverso. Più lento, più attento, più profondo. Che senta di non dover capire tutto per forza, ma che sia disposto ad ascoltare di più – l’opera, l’altro, sé stesso. Che impari a dare valore al tempo, alla cura, alla complessità. Perché no, non potevamo farla tutti. E soprattutto: non tutti ci siamo fermati a guardare. Ecco, io spero che questo libro inviti proprio a questo: a fermarsi e guardare. Non solo l’arte, ma tutto ciò che ci riguarda davvero.

Grazie Davide e complimenti per il tuo lavoro!

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