A soli 23 anni, Ludovica Rossato ha già vissuto molte vite. Imprenditrice, autrice, ingegnere gestionale e globetrotter, ha saputo trasformare la propria visione interiore in una realtà professionale solida e internazionale. Fondatrice di Advertor Solutions, un’agenzia di marketing con clienti in quattro paesi, Ludovica è anche l’autrice di “Dì di Sì e Trova il Modo”, un manifesto autentico per chi cerca un mindset vincente. In questa intervista senza filtri, ci immergiamo nei suoi pensieri, nei suoi percorsi e nel suo rapporto profondo con il tempo, l’identità e la trasformazione.
a cura della redazione
Ciao Ludovica, benvenuta su Che! Intervista. Vorremmo partire proprio da lì, dalla tua affermazione iniziale: “Ho il dono di vivere nei tempi dilatati”. Cosa significa per te, nel concreto, vivere il tempo in modo diverso?
Vivere nei tempi dilatati, per me, significa non accettare la tirannia della fretta. È riconoscere che non tutto ciò che conta può essere misurato in minuti o ore. Quando parlo di tempo dilatato, intendo uno spazio mentale e spirituale in cui le esperienze si sedimentano in profondità, come se ogni giorno fosse più denso, più ricco, più pieno.
Mentre molti cercano di “ottimizzare il tempo”, io cerco di abitarlo. Di immergermi in ciò che vivo senza sentire l’urgenza di passare subito oltre. Questo mi ha permesso di vivere, a ventitre anni, esperienze che mi sembrano appartenere a molte vite diverse.
È una sensazione strana: come se il tempo, invece di scorrere, si aprisse. E dentro quello spazio posso riflettere, trasformarmi, cambiare rotta. Non si tratta di essere lentezza, ma di essere profondità. Ed è lì, in quel tempo espanso, che riesco davvero a incontrare me stessa.
Nel tuo racconto parli spesso della fiducia in quella “stella cometa” che ti guida, anche senza conoscere la destinazione. Qual è stato il momento più significativo in cui hai scelto di seguirla nonostante il buio?
Il momento più emblematico è stato quando, a sedici anni, ho lasciato tutto e sono partita per il Canada. Dentro di me sentivo che dovevo andarmene, anche se non avevo idea di cosa mi aspettasse. È stata una scelta fatta con il cuore in mano e gli occhi bendati, come si fa quando ci si affida davvero. Arrivata lì, ho cambiato tre famiglie in due settimane. Ho dormito in un basement con l’asma, ho vissuto in case sporche, sono rimasta chiusa fuori in pieno inverno canadese. Eppure, nonostante tutto questo – o forse proprio grazie a questo – ho continuato a fidarmi della mia stella. Non era una fiducia cieca, era una fiducia interiore: sentivo che ogni disagio, ogni scomodità, ogni “no” che ricevevo stava scavando dentro di me lo spazio per un “sì” più grande. Quella luce l’ho seguita anche quando ero sfinita e piena di dubbi, ed è proprio nel buio che ho scoperto quanto può brillare una direzione interiore.
Hai fatto esperienze forti e diverse: dal cinema a Los Angeles fino alla fondazione della tua agenzia in Canada. Quanto contano, per te, il rischio e l’intuizione nelle scelte di vita e lavoro?
Per me contano tantissimo. Non prendo decisioni impulsive, ma nemmeno mi paralizzo davanti all’incertezza. L’intuizione è spesso il primo segnale che sto andando nella direzione giusta, e il rischio è quasi sempre parte del pacchetto. Se aspetti che tutto sia perfettamente chiaro o sicuro, rimani fermo. Io ho imparato che molte cose si capiscono solo facendole. Quando ho lasciato l’Italia a sedici anni o quando ho aperto la mia agenzia di marketing, non avevo tutte le risposte. Ma avevo abbastanza elementi per fare il primo passo, e la fiducia di poter affrontare il resto strada facendo. Il rischio non è qualcosa da evitare, ma da calcolare. E se lo affronti con preparazione e mentalità aperta, diventa il modo migliore per crescere in fretta.
Scrivi: “Mi sembra di essere stata dieci, cinquanta, cento Ludovica diverse”. Quanto è importante per te questa continua trasformazione personale e professionale?
È fondamentale. Se non mi trasformassi continuamente, mi sentirei bloccata, ferma in una versione di me che magari andava bene ieri ma oggi non mi basta più. Crescere, per me, significa proprio questo: avere il coraggio di cambiare pelle ogni volta che serve. Non è instabilità, è adattamento consapevole. Quando dico che mi sento come se fossi stata dieci, cinquanta, cento Ludovica diverse, non è un’esagerazione: è esattamente quello che vivo ogni volta che affronto un nuovo progetto, un nuovo paese, un nuovo ruolo. Anche professionalmente, non credo nella linearità. Non ho paura di spostarmi, di rivedere un’idea, di dire “ora mi serve altro”. È questo che mi permette di restare viva, reattiva, presente. La trasformazione è una scelta, ma a volte è anche una necessità se vuoi restare allineata con chi stai diventando.
Nel tuo libro parli di “mindset vincente”. Secondo te, quali sono i tre ingredienti indispensabili per costruirlo davvero, senza cadere nei cliché motivazionali?
Per me un mindset vincente si costruisce su tre elementi chiave: disciplina, consapevolezza e adattabilità. La disciplina è la base. Senza quella, anche la motivazione migliore si spegne. Io ho imparato che puoi essere ispirata quanto vuoi, ma se non ti metti lì e lavori – anche quando non ti va, anche quando è difficile – non vai lontano. La disciplina è ciò che ti tiene in piedi quando l’entusiasmo cala. La consapevolezza è il secondo pilastro. Vuol dire sapere chi sei, cosa vuoi davvero e perché fai quello che fai. Senza questa chiarezza, rischi di rincorrere obiettivi che non ti appartengono. Io, ad esempio, ho detto sì a tante cose che all’inizio non capivo bene, ma dentro avevo una direzione chiara, ed è quella che mi ha guidata. Infine l’adattabilità: il mondo cambia in fretta, e se resti attaccato a un’idea fissa di te stesso o del tuo percorso, ti blocchi. Io ho cambiato Paese, lingua, stile di vita e anche approccio più volte, e ogni volta mi ha reso più forte. Avere un mindset vincente non significa essere perfetti o sempre motivati, ma avere gli strumenti per rialzarsi ogni volta che le cose non vanno come previsto.
Parlare di “grandi cose” a ventun anni può sembrare audace. Cosa rispondi a chi minimizza le ambizioni dei giovani o le considera premature?
Rispondo che l’età non è mai stata un parametro affidabile per misurare la profondità o il valore di un’idea. Le ambizioni non hanno età, hanno intenzione, forza, visione. Il problema è che spesso si giudicano i giovani con lo sguardo di chi dimentica com’era a vent’anni. Ma noi oggi siamo cresciuti in un mondo veloce, esposto, globale. Siamo costretti a farci domande difficili molto prima, e molti di noi si mettono in gioco davvero, con coraggio. Io non voglio aspettare l’approvazione di qualcuno per sentirmi “abbastanza grande” da parlare di mindset, di business o di libertà personale. Ho vissuto situazioni che mi hanno messa alla prova sul campo, e oggi porto risultati, non solo buone intenzioni. Credo che dovremmo ascoltare di più i giovani, non per compassione, ma per vera curiosità. Perché in un mondo che cambia così in fretta, a volte chi ha meno storia alle spalle ha anche meno zavorre da scrollarsi di dosso.
Dici che hai imparato a non “accontentarti”. Cosa distingue, per te, un compromesso necessario da una rinuncia che tradisce sé stessi?
Un compromesso necessario è qualcosa che accetti temporaneamente per costruire qualcosa di più grande. Una rinuncia che tradisce sé stessi, invece, è qualcosa che senti subito nello stomaco: è quella scelta che ti spegne, che ti fa sentire fuori posto anche se magari dall’esterno “sembra giusta”. Io ho imparato a riconoscere la differenza facendo errori. Ci sono situazioni in cui adattarsi è segno di maturità, ma ci sono anche momenti in cui dire “no” è l’unico modo per restare fedeli a chi sei davvero. La vera discriminante, per me, è questa: il compromesso ti avvicina a una visione, anche se in modo scomodo; la rinuncia ti allontana da te stessa. Uno ti chiede pazienza, l’altro ti chiede di cancellarti. In pratica posso anche dormire in un basement o mangiare cibo in scatola se sto costruendo la mia libertà, ma non accetterò mai di zittire la mia voce o di farmi piccola per adattarmi a un contesto che non mi rispetta. La differenza è tutta lì.
Sei una donna che guida un’azienda internazionale, parla più lingue e ispira migliaia di persone online. Come gestisci la pressione delle aspettative esterne, soprattutto così giovane?
Cerco di non viverla come una pressione, ma come un segnale. Se le persone si aspettano tanto da me, vuol dire che qualcosa ho trasmesso, qualcosa ho costruito. Però non lascio che le aspettative degli altri diventino il mio metro di giudizio. Ogni tanto mi fermo e mi chiedo: “Quello che sto facendo è ancora allineato con me? Lo farei anche se nessuno mi stesse guardando?”. Se la risposta è sì, allora continuo. Se la risposta è no, mollo o correggo la rotta. Non voglio vivere per mantenere un’immagine. Voglio vivere per evolvermi. E a volte questo significa anche deludere qualcuno, dire di no, uscire da ciò che ci si aspettava da me. La verità è che l’unica aspettativa con cui faccio davvero i conti ogni giorno è quella che ho verso me stessa: diventare una versione più libera, lucida e coerente di me. Se riesco a lavorare su quello, tutto il resto diventa solo rumore di fondo.
Casa, per te, è dove sei tu. Quanto conta il radicamento emotivo nei tuoi viaggi e nelle tue scelte? C’è un luogo che ti ha cambiata più di altri?
Il radicamento emotivo è tutto. Per me un viaggio non è mai solo spostamento fisico. Se non entro in contatto con la vita vera delle persone, con quello che succede quando si spengono le luci da cartolina, non riesco nemmeno a chiamarlo “viaggio”. Il luogo che mi ha cambiata di più è stato l’Iran. Ci sono rimasta per un mese e in quel tempo ho vissuto esperienze fortissime. Ho assistito a un matrimonio e a un funerale, ho vissuto momenti molto diversi tra loro ma tutti profondamente umani. E mi sono sentita parte. Mi sono trovata a ridere con le persone, a piangere con loro, a parlare davvero. Non da turista, ma da persona. Le persone lì mi hanno accolta con una gentilezza che non mi aspettavo. Sono brave persone, genuine, e mi hanno fatto sentire a casa in un modo che raramente mi era capitato prima. È stata un’esperienza piena, vera, senza maschere. Studio il farsi, so leggere e scrivere, e questo ha cambiato completamente il mio rapporto con il Paese. Capire la lingua ti fa entrare in un’altra dimensione. Ti permette di cogliere sfumature che altrimenti ti perdi. Una delle cose che più mi ha affascinata è la tradizione poetica. Un paio di anni fa ho iniziato ad avvicinarmi ai testi di Rumi, Hafez… E leggere quelle parole nella lingua originale – anche se con lentezza – mi ha dato una prospettiva diversa, più intima. La poesia in Iran non è solo letteratura, è parte della vita quotidiana, delle relazioni, del modo in cui si parla, si riflette, si ama. Ecco, forse è questo che mi ha cambiata più di tutto: vedere come in un contesto difficile, complicato, ci sia ancora spazio per una sensibilità così profonda. Non solo resistenza, ma anche bellezza. Non idealizzata, non “perfetta”, ma reale.
Se oggi potessi parlare alla Ludovica di cinque anni fa – quella che si preparava a vivere più vite in una – cosa le diresti, in poche parole, prima che partisse per questo viaggio straordinario?
Le direi: preparati a mettere in discussione tutto, anche te stessa. E va bene così. Le direi che non sarà facile, che ci saranno momenti di solitudine, di rottura, di disorientamento. Ma che ognuno di quei momenti servirà. Che si sentirà fuori posto, inadeguata, a volte persa – ma proprio lì troverà risposte che nessuno poteva darle da fuori. Le direi di fidarsi delle sue intuizioni, anche quando sembrano strane o premature. Che non deve per forza piacere a tutti, né spiegarsi ogni volta. Che la coerenza con sé stessi vale molto di più dell’approvazione degli altri. E poi le direi di scrivere tutto. Di tenere traccia. Perché un giorno, tutta quella fatica avrà un senso. Perché un giorno, qualcun altro si sentirà meno solo leggendo la sua storia.
Grazie Ludovica per questo bel dialogo e complimenti per la tua carriera!
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