Elena De Simone è un mezzosoprano che ha saputo fondere la passione per l’opera tradizionale con l’amore per la riscoperta di composizioni barocche inedite. La sua carriera, costellata di ruoli iconici come Carmen e Amneris, si intreccia con il suo impegno nella ricerca di opere dimenticate, rendendo vivo un patrimonio musicale che rischiava di scomparire. La sua voce ha fatto il giro del mondo, dalla BBC alla Radio Svizzera, fino ai prestigiosi festival di musica barocca. Nelle sue esibizioni c’è una costante ricerca di autenticità, sia nel repertorio che nella prassi esecutiva.
Il suo impegno si estende anche alla solidarietà, come dimostra il Festival del Barocco a Conegliano, da lei ideato e coordinato, che unisce musica e beneficenza. In questa intervista, esploriamo il percorso artistico di Elena De Simone, la sua passione per il barocco, le sfide della sua carriera e il legame tra la musica e il cuore.
a cura di Antonio Capua
Elena, la tua carriera ha visto un’interessante evoluzione dalla grande opera lirica alla musica barocca. Cosa ti ha spinto a esplorare questo repertorio e come ha arricchito la tua espressione artistica?
Da sempre sono innamorata dell’opera del ‘700. Passo ore ad ascoltare la musica di Handel e più in generale quella della prima metà del ‘700. Purtroppo in Italia non sempre si trova il giusto spazio per questo tipo di musica che potrebbe essere definita tardo barocca, anche se negli ultimi anni si sono fatti notevoli passi avanti. Nei Teatri spesso vengono messe in scena opere di repertorio che nella maggior parte dei casi appartengono all’epoca romantica/ottocentesca. Ho cominciato così ad esplorare il repertorio del XVIII secolo la cui stragrande maggioranza di opere resta ancor oggi nel dimenticatoio.
Hai riportato alla luce arie inedite di compositori come Hasse e Maria Teresa Agnesi. Che cosa significa per te riscoprire e interpretare musiche che non sono state ascoltate per secoli?
È una grande emozione. Comincia da quando vedo il manoscritto con tutti i segni dell’autore e continua quando incido le arie che io stessa ascolto per la prima volta. Quando parte l’orchestra finalmente mi rendo conto del potenziale di quella musica che fino a prima sembrava soltanto una sterile scrittura. Scopro anche le storie che si celavano dietro ad ognuna di quelle arie, non soltanto la trama dell’opera da cui potevano essere tratte, ma anche chi erano i cantanti che le cantavano e il modo in cui il compositore adattava la sua scrittura a quelle particolari voci, chi aveva commissionato la musica e per quale occasione, scoprendo qualche volta dei veri e propri intenti politici.
Il Festival del Barocco a Conegliano, che hai ideato, unisce musica e solidarietà. Quanto è importante per te che l’arte possa avere anche un impatto concreto sul mondo, oltre a quello puramente estetico?
Sicuramente importantissimo, credo che l’arte nasca proprio con lo scopo intrinseco di avere un impatto concreto sul mondo e non soltanto come puro godimento estetico. Questo Festival, del quale curo la parte artistica, nasce con lo specifico scopo di sostenere la Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori, il ricavato verrà infatti devoluto alla LILT. Il Lions Club di Conegliano, che quest’anno ha come presidente l’avvocato Paolo Gava, ne è promotore.
Nei tuoi studi sulla prassi esecutiva del ‘700, quali sono state le maggiori sfide che hai incontrato e come sei riuscita a superarle mantenendo l’autenticità dell’esecuzione?
Il ‘700 fu innanzitutto l’epoca dei castrati. Questi particolari cantanti eccellevano per le loro doti di estensione canora, di controllo del fiato e di agilità vocale. Queste caratteristiche hanno portato i compositori a scrivere in un modo piuttosto diverso rispetto a quello che sarebbe venuto in epoca successiva. Trattavano le voci quasi come degli strumenti, richiedevano numerosi passaggi veloci, trilli ed altri accidenti, ma anche fiati lunghissimi e messe di voce imponenti. Tutto questo doveva creare un’atmosfera di meraviglia, portare il pubblico in un mondo irreale e idealizzato. Per tale motivo le voci dovevano avere caratteristiche impalpabili e raggiungere suoni delicati ed eterei. Per riuscire a ricreare nel miglior modo possibile questi effetti ho dovuto studiare in maniera specifica la prassi esecutiva del tempo, che peraltro cambia a seconda che si parli della prima metà del secolo, o della seconda metà.
Nella tua carriera hai interpretato grandi ruoli come Carmen e Amneris, figure di forte carattere e potenza. C’è stato un ruolo in particolare che ti ha segnata a livello personale o artistico?
Sia Carmen che Amneris sono due grandi ruoli. Ho avuto la fortuna di poterli interpretare entrambi. Ovviamente il tipo di drammaticità di questi personaggi è molto diverso e sicuramente più intenso di quello che possiamo trovare in quelli settecenteschi. Sia Carmen che Amneris sono figure sanguigne, con lati in ombra, sicuramente non facili da interpretare. In particolare amo molto il ruolo di Carmen, una donna ribelle, concreta e senza paura, che affronta la morte a testa alta pur di non tradire i suoi principi di libertà. Aver cantato opere così impegnative e drammatiche mi ha dato un’ulteriore facilità nell’affrontare il repertorio settecentesco, al contrario di quanto accade ad alcuni cantanti.
Hai cantato in numerosi teatri importanti, ma anche in contesti più intimi e storici come quelli del Festival di Conegliano. Come cambia il tuo approccio interpretativo tra un grande palcoscenico e un ambiente raccolto?
Forse la differenza che sento è più quella tra un’opera e un concerto. Nell’opera vengo totalmente assorbita dal personaggio e ne assumo le caratteristiche. Nel grande palcoscenico tutto viene amplificato, devo concentrarmi sul canto, ma anche sulla recitazione e qualche volta persino sul ballo, come mi è successo in Carmen. Durante un concerto, in un luogo più intimo invece, mi concentro principalmente sulla musica. Il personaggio è immaginato, vissuto, ma non espresso, come avviene nell’opera. Questo alle volte può essere ancora più difficile, ma mi consente di rivivere episodi della mia vita, o meglio di poter legare le emozioni che mi suscita una determinata aria a qualcosa di mio in maniera a volte ancora più diretta che nell’opera.
La tua voce è stata definita capace di toccare le corde più profonde dell’animo umano. Come ti prepari a livello emotivo e fisico prima di un’esibizione, specialmente quando interpreti opere che riscoprono il dolore e la bellezza della fragilità umana?
Innanzitutto è una preparazione mentale, cerco di immedesimarmi nella musica e nel personaggio cercando di sentire ciò che prova e di immaginare cosa pensa. Per riuscirci ho bisogno di molta calma, di isolarmi per qualche periodo e di ricordare momenti in cui anche io ho sentito e pensato come il personaggio stesso. Se le mie qualità caratteriali si discostano parecchio dal ruolo, devo fare un ulteriore lavoro per arrivare a comprenderlo ed interpretarlo. È come se ogni volta dovessi cercare dentro di me il personaggio stesso, non sempre è facile, ma sicuramente è molto appagante quando riesco a trovarlo.
Hai dedicato parte della tua carriera alla riscoperta e trascrizione di arie barocche inedite. Che cosa ti affascina di più di questo periodo musicale e cosa pensi che possa ancora insegnarci oggi?
Quello che più mi affascina è il modo in cui la musica riesce a descrivere quel periodo storico, potrei dire che ne è l’anima. La musica della prima metà del settecento è la musica del mondo prima della Rivoluzione Francese, è la musica dei nobili. Era il loro modo di vedere il mondo e tutto questo è stato letteralmente spazzato via dalla storia. Era una musica molto complessa e raffinata, portava lo spettatore in un mondo ideale tra il mito e le vicende della storia antica. Curiosamente fu proprio il sempre maggior interesse per la storia antica uno dei motivi che portarono alla Rivoluzione Francese. Quella gente che conosceva soltanto la monarchia come assetto politico, vedeva rappresentato un mondo in cui governava la repubblica e lentamente si fece sempre più domande. Cosa può insegnarci oggi? Io credo che possa insegnarci a sentire diversamente, ad essere più introspettivi, a sviluppare un maggior dialogo con la natura. Una delle differenze ad esempio tra la prima metà del settecento e la seconda metà è il rapporto della musica con la natura, maggiore nella prima parte e sempre minore verso la fine, diventando sempre più astratta, come a simboleggiare le potenzialità dell’uomo che dalla natura trascendono, uno dei principi dell’illuminismo.
Nel 2024 hai pubblicato un nuovo CD con arie d’opera perdute di C.W. Gluck. Come è stato lavorare su materiali così rari e preziosi?
È stata un’esperienza indimenticabile. Ogni volta che affronto un autore in questo modo riesco a capire il suo modo di comporre e la sua evoluzione. Le arie di C. W. Gluck sono estremamente espressive, lo scavo psicologico dei personaggi è maggiore rispetto ad altri compositori coevi ed ho potuto notare quello che dicevano gli stessi contemporanei di lui, ovvero che il suo punto forte era la scrittura della linea melodica del canto. Le arie che ho inciso, tratte dalle opere ormai perdute Sofonisba, Ippolito, Tigrane e Poro, appartengono al periodo prima della riforma dell’opera da lui stesso attuata, sono ancora scritte attraverso la forma A-B-A’ e sono quindi ammesse tutte quelle variazioni con cui i cantanti dell’epoca potevano addirittura stravolgere un’aria e che poi Gluck volle abolire. Si notano tuttavia tutte le caratteristiche che Gluck svilupperà negli anni maturi, le arie sono tanto auliche quanto intense, come saranno quelle di Orfeo ed Euridice, Paride ed Elena e Alceste.
Ci sono sogni e progetti artistici che non hai ancora realizzato?
C’è un compositore o un’opera che senti particolarmente vicina e che desideri interpretare?
Ci sono molti progetti che vorrei ancora realizzare, vorrei continuare con la ricerca di manoscritti inediti, ma vorrei anche continuare la mia carriera artistica come cantante d’opera. Come amante del settecento non posso che adorare le opere di Mozart e ogni volta che le canto è come la prima volta. Spero quindi sempre di poterle cantare una nuova volta e non mi dispiacerebbe affrontare qualche parte solitamente interpretata dai soprani, ovviamente nel momento in cui il ruolo lo consente, penso ad esempio a Despina nel Così fan tutte, che fu interpretata per la prima volta da Dorotea Bussani, prima interprete anche di Cherubino.
Grazie Elena per il tempo che ci hai dedicato e complimenti per la tua carriera
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