Federico Milone: un’intensa ricerca artistica tra Italia e Nord Europa

Sassofonista e compositore originario di Salerno, Federico Milone è una delle voci più promettenti del jazz contemporaneo. Vincitore di premi prestigiosi come il Massimo Urbani e il Tomorrow’s Jazz, ha portato la sua musica sui palcoscenici più importanti del mondo, dal Montréal Jazz Festival alla Casa del Jazz di Roma. Il suo stile è una fusione di radici italiane e influenze internazionali, frutto di un’intensa ricerca artistica e culturale. In questa intervista, esploreremo il suo percorso, le sue ispirazioni e i progetti futuri.


Benvenuto su Che! Intervista, Federico e grazie per essere con noi! Iniziamo dal principio: quando hai capito che la musica sarebbe stata il tuo futuro?
Sono nato in una famiglia dove la musica e l’arte hanno sempre avuto un ruolo centrale.
Mio padre, pur svolgendo un lavoro diverso, è un pittore e artista straordinario: posso dire che è uno dei miei preferiti. Ha realizzato, infatti, due copertine per i miei album, tra cui un dipinto a olio per il mio ultimo album “Deux Moi”, pubblicato nell’ottobre del 2024.
Fin da piccolo sono sempre stato circondato dalla creatività: la casa è piena di quadri realizzati da lui, sculture e strumenti musicali fatti di cartone. Ho vissuto un approccio creativo applicato a qualsiasi ambito della vita: dalla costruzione del presepe, che mio padre ogni anno rendeva sempre più grande e complesso, con luci e personaggi animati, fino alla soluzione di problemi quotidiani.
Oltre a tutto questo, mio padre è anche un grande appassionato di musica, spaziando tra generi diversi: dal rock alla musica strumentale, passando per Pino Daniele e il jazz. Ricordo in particolare un disco di Archie Shepp, uno dei tanti che aveva, artista che avrei scoperto e approfondito solo molti anni dopo. Anche mia madre ha sempre avuto una grande sensibilità per l’arte e la creatività, condividendo questa passione con gli alunni della scuola elementare dove insegna. Ho ancora tantissimi ricordi delle sue recite scolastiche, sempre incredibili e uniche rispetto a quelle organizzate nelle altre scuole. Mio padre collaborava spesso con lei, occupandosi delle scenografie e degli allestimenti del palco.

La passione per la musica, dunque, era quasi inevitabile. Il sax è arrivato più tardi, un po’ per caso, grazie a una serie di coincidenze che mi hanno portato a conoscere Jerry Popolo, un grande sassofonista salernitano. Jerry mi ha preso sotto la sua ala, siamo diventati amici e da quel momento il sax è entrato nella mia vita. Non ricordo con precisione quando ho deciso di fare del musicista la mia professione principale, ma ricordo benissimo l’istante in cui ho preso il sax per la prima volta: è stato amore a prima vista. Da quel giorno non mi sono più fermato.

    Sei partito da Salerno per arrivare fino a Bruxelles, passando per Boston e altri importanti centri della musica. Come hanno influenzato queste esperienze il tuo stile musicale?
    Il mio stile musicale è sicuramente frutto delle mie radici campane, delle esperienze inconsce accumulate durante la crescita: ho assorbito i modi di fare, il suono della nostra lingua, la musica del mare, l’amore della famiglia e degli amici. Anche l’influenza dei viaggi, la conoscenza di persone diverse e il vivere in un luogo così lontano dalla mia terra rappresentano una parte fondamentale nello sviluppo dello stile musicale di un artista e di un musicista.
    Conoscere la diversità aiuta a comprendere che siamo tutti figli della stessa terra e che la fusione di culture diverse è sempre e solo un aspetto positivo. Detto questo, sono conscio del fatto che la ricerca di uno stile musicale proprio, riconoscibile e unico, sia uno dei processi più difficili. Al momento, la mia unica regola per perseguire questo obiettivo è di non pensarci e non forzarlo, ma semplicemente lasciar fluire quello che sono. Alla fine, essere autentici e personali significa essere se stessi, senza lasciarsi influenzare dagli stereotipi che ci circondano.

    Ogni essere umano è unico per qualche motivo e ciò che conta davvero è la perseveranza: non abbandonare mai la propria passione e continuare a provarci, sempre di più, soprattutto quando tutto sembra difficile. Facendo così, forse un giorno riuscirò a lasciare una traccia, anche minuscola, del mio essere stato musicista

    Nel 2017 hai vinto il prestigioso Premio Massimo Urbani. Che significato ha avuto questo riconoscimento per la tua carriera?
    Nel 2017 ho partecipato al Premio Internazionale Massimo Urbani, dedicato all’iconico sassofonista romano di cui ero e sono profondamente innamorato. Premetto che non sono mai stato un fan della competizione in musica, ma devo dire che il solo essere ammesso a questo concorso suscitò in me una grande gioia. Parteciparvi fu un’esperienza ancora più bella di quanto potessi aspettarmi.
    Il clima del concorso era straordinario, lo staff dell’evento impeccabile e i musicisti della ritmica che accompagnavano i partecipanti in gara (Julian O. Mazzariello, Massimo Moriconi e Massimo Manzi) non solo erano straordinari musicisti di fama internazionale, ma riuscirono anche a mettere tutti a proprio agio, sia prima che durante le esibizioni. Anche i concorrenti erano fenomenali. Partecipare a eventi di questo tipo dà la possibilità di confrontarsi, conoscere altri musicisti, far nascere nuove collaborazioni e individuare gli aspetti personali e musicali su cui bisogna lavorare di più.
    Detto ciò, non mi sarei mai aspettato di vincere, ma accadde. La vittoria rappresentò per me una piccola ma significativa conferma che il lavoro che stavo svolgendo andava nella direzione giusta. Mi stimolò a fare ancora di più e a dare sempre di più alla musica.

    In quell’occasione ebbi anche l’opportunità di conoscere Fabrizio Bosso, che era presidente di giuria insieme a Kurt Rosenwinkel. Lo scorso ottobre ho avuto la fortuna di collaborare con Fabrizio durante un concerto legato al mio nuovo album e spero davvero di poter lavorare nuovamente con lui in futuro.

    Con il tuo album Right Now hai iniziato a tracciare una strada personale nel jazz. Come descriveresti il processo creativo dietro questo progetto?
    Right Now è il mio primo album da solista, realizzato proprio grazie alla vittoria del Premio Massimo Urbani e pubblicato da Philology Records. La creazione di questo album racchiude le esperienze di quel periodo, durante il quale facevo parte di un collettivo a cui devo molto: il Na.Sa. Unity Band, composta da Alessio Busanca al pianoforte, Francesco Galatro al contrabbasso, Luca Mignano alla batteria e me al sassofono.
    Con questa formazione avevamo realizzato un album insieme l’anno precedente alla vittoria del Premio Urbani e stavamo vivendo un momento florido di condivisione e creatività musicale, riunendoci ogni settimana per provare e scrivere nuova musica. Proprio per questo motivo decisi di registrare il mio album da solista con lo stesso gruppo, con il quale avevamo già condiviso tanta musica ed esperienze. A completare la formazione si aggiunse Pasquale Di Lascio alle percussioni, mentre in due brani partecipò come ospite il grande tenorista Daniele Scannapieco

    La tua musica mescola tradizione e innovazione. Quali sono gli artisti o i generi che hanno maggiormente ispirato il tuo lavoro?
    Credo che tutti siamo figli della tradizione nella quale ci ritroviamo: nasciamo immersi in essa e, crescendo, cerchiamo di innovarci. Personalmente, però, non ho la presunzione di definirmi un conoscitore della tradizione o un innovatore. Cerco semplicemente di essere me stesso, provando a fare la mia parte su questo pianeta e a essere un buon essere umano.
    Gli ascolti musicali della mia vita rappresentano soprattutto dei momenti particolari associati a ricordi e non fanno alcuna distinzione di genere. Non posso infatti non citare il periodo in cui ero totalmente preso dal rap politico italiano, ascoltando i 99 Posse, il periodo funk-fusion durante il quale ho scoperto i Weather Report, David Sanborn e Marcus Miller, o l’amore per i cantautori italiani.
    I miei punti di riferimento musicali riflettono un po’ questo principio: i miei ascolti sono molto vasti e prescindono dai generi. Per citarne alcuni, in ordine completamente sparso: Kenny Garrett, Pino Daniele, Bill Evans, Ivano Fossati, Charlie Parker, John Coltrane, 99 Posse, David Sanborn, J.S. Bach, Paquito D’Rivera, Notorious B.I.G., Ray Charles, James Brown e molti, moltissimi altri.

    Hai collaborato con grandi nomi come Fabrizio Bosso e Tullio De Piscopo. Cosa hai imparato da queste esperienze e come hanno arricchito la tua visione artistica?
    Ogni collaborazione, piccola o grande che sia, è sempre uno spunto e una fonte di apprendimento. Suonare con Tullio De Piscopo è stata un’esperienza magica, anche perché ha creato un ponte immaginario con uno dei miei più grandi idoli musicali: Pino Daniele. Ascoltare le sue storie riguardo alle registrazioni, ai live con Pino e alle sue collaborazioni con i più grandi nomi del panorama musicale mondiale rappresenta per me un ricordo prezioso e un bagaglio che porterò sempre con me.
    Inoltre, suonare con un musicista di questo livello è una sfida continua, capace di spingerti a dare sempre di più e a migliorarti costantemente.
    Fabrizio Bosso rappresenta per me la consapevolezza di come un musicista possa diventare famoso, suonare in maniera straordinaria e, nonostante tutto, rimanere con i piedi per terra, conservando un’umiltà e una curiosità davvero rare da trovare in giro. Lo ringrazio infinitamente per la sua disponibilità nei miei confronti e per essere un esempio di musicista per tutti noi.

    Tra concerti, festival internazionali e residenze artistiche, hai suonato in luoghi molto diversi. Quale performance ti è rimasta più impressa e perché?
    Ho molti concerti che ricordo con piacere, ma dovendo scegliere, ne cito tre: l’apertura del concerto di Kenny Garrett insieme alla Na.Sa. Unity Band, la residenza in Canada grazie al progetto A.I.R. dell’associazione MIDJ con il relativo concerto al Festival International de Montréal, e infine un concerto al Sounds Jazz Club di Bruxelles nel 2023, dal quale si è poi formato il gruppo che ha dato vita al mio ultimo album.

    Il tuo ultimo album, Deux Moi, esplora prospettive intime e universali. Cosa ti ha spinto a raccontare questa storia attraverso la musica?
    Deux Moi significa ‘Due Me’. Volevo rappresentare proprio questo dualismo e conflitto che credo sia presente in ogni persona. La società odierna ci spinge ad essere efficienti, a diventare individui che devono prendere decisioni, sempre posti di fronte a un bivio e sottoposti a una pressione che tollera sempre meno l’errore.
    Credo sinceramente che l’univocità del pensiero, così come la fede cieca in qualcosa, siano il vero male del mondo. L’essere indecisi, il mostrare le proprie debolezze, il cambiare idea fa parte dell’essere umano e contribuisce al processo di condivisione e crescita personale. Siamo due persone, ma forse anche tre, quattro o mille.
    La creazione di questo album è nata proprio così, come ho spiegato già in alcune risposte precedenti: senza badare a nessuna estetica o sovra-analisi, ma semplicemente scrivendo la musica che mi veniva in mente mentre la scrivevo. A volte ero io, a volte era l’altro, o a volte qualcun altro. Sarebbe stato poi impossibile realizzare questo album senza la partecipazione dei miei amici fraterni: Emanuele Filippi, pianista di Udine, Jasen Weaver, contrabbassista di New Orleans, e Armando Luongo, batterista di Campagna.

    Il jazz è un genere in continua evoluzione. Come vedi il futuro di questa musica e quale credi sia il tuo ruolo nel suo sviluppo?
    Parlare di generi e di cosa sia il jazz oggi è molto difficile e rappresenta quasi un tabù. Come ho detto in precedenza, il mio ascolto non è limitato al jazz, ma spazia dal pop al funk, dalla musica classica a quella elettronica. Insomma, amo tutta la musica in cui sento un messaggio forte e nella quale trovo una cura nella produzione musicale.
    Credo però che oggi, sotto la scusa di ‘contaminazione’, si tenda a fare un po’ di confusione, definendo jazz tutta la musica che prende in prestito dal jazz solo la parte più superficiale e stilisticamente riconoscibile. Senza dilungarmi troppo su questo argomento, credo che il jazz, nonostante tutto, abbia un futuro florido. Molte generazioni di giovani musicisti stanno portando avanti il vero messaggio di questa musica, e tante generazioni di musicisti più grandi continuano a segnare il passaggio e a mostrarci la via.
    Riguardo al mio ruolo nello sviluppo di questa arte, ho solo il dovere di rispettarla, dando sempre il massimo delle mie possibilità per questa musica.

    Infine, quali sono i tuoi prossimi progetti e cosa sogni ancora di realizzare nella tua carriera?
    Ho molti progetti per il futuro. Al momento sto lavorando al prossimo tour primavera-estate con il mio quartetto per presentare Deux Moi, e contemporaneamente sto già scrivendo la musica per un nuovo album che vorrei registrare l’anno prossimo per dare continuità al progetto. Sto anche lavorando a un nuovo progetto per esplorare sonorità più funk ed elettroniche. I sogni nel cassetto per la mia carriera sono tanti; principalmente spero di riuscire a trovare sempre più spazio per suonare la mia musica in giro per l’Europa e il mondo, ed estendere sempre di più il mio lavoro da turnista, collaborando con artisti diversi.

    Grazie Federico per la tua intervista e complimenti per la tua carriera artistica.
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