Flavia Messinese, chitarrista siciliana classe ’94, ha trasformato la sua passione per la musica in una carriera che l’ha portata da Gela a Milano, passando per esperienze internazionali e collaborazioni di prestigio. Nerd della musica, sportiva quando la pigrizia glielo permette e sempre pronta a viaggiare, Flavia è un’artista che non ha paura di seguire i suoi sogni, anche quando sembrano impossibili. In questa intervista, Flavia ci parla del suo percorso, delle sue ispirazioni e dei prossimi obiettivi.
a cura di Antonio Capua
Ciao Flavia! Partiamo dal principio: cosa ti ha portato a passare dalla playstation alla chitarra? Qual è stato il momento esatto in cui hai capito che la musica era il tuo futuro?
Ciao a tutti e ai lettori! In realtà, le due passioni sono cresciute parallelamente fino alla fine della scuola. Giocavo ai videogiochi mentre la chitarra era sempre lì accanto. In quel periodo ho anche scritto qualche brano strumentale, spesso ispirandomi proprio ai videogiochi.
Però, a dire la verità, non c’è mai stato un momento preciso in cui ho capito che la musica era la mia strada. Ancora oggi mi chiedo se sia davvero la scelta giusta o magari è solo un’infatuazione che dura da…10 anni!!!
Hai iniziato a suonare più tardi rispetto a molti musicisti, ma questo non ti ha fermato. Qual è stato l’ostacolo più grande che hai dovuto affrontare all’inizio della tua carriera?
Sicuramente la mancanza di un background musicale. A casa non si ascoltava musica, quindi ho cominciato a scoprire i primi dischi grazie a mia sorella, più grande di me. Lei ha portato a casa alcuni album come 111 di Tiziano Ferro, una raccolta dei Linkin Park e degli Evanescence.
Poi, il sabato a pranzo ho scoperto l’esistenza di Top of The Pops e ho cominciato lì ad appassionarmi di musica.
Hai viaggiato tantissimo per studiare e lavorare. Quanto è importante per te il concetto di viaggio, sia nella musica che nella vita personale?
Guarda, probabilmente inconsciamente ho scelto di fare il musicista proprio per il viaggio.
A 17 anni sono andata Festival Show con la mia band dei tempi, i Maktub, ricordo ancora oggi la sensazione che ho provato nel prendere l’aereo, atterrare con la chitarra sulle spalle, dormire fuori (accampati in casa del fratello del cantante ovviamente perché non si avevano soldi per l’hotel), poi l’indomani andare in furgone tutti insieme e viaggiare per ore per arrivare a Padova. E ricordo che in quel momento pensai “ma quanto è figo tutto questo…”
Hai collaborato con tanti artisti e partecipato a festival come Umbria Jazz e progetti con giganti come i Foo Fighters. Qual è stato il live o la collaborazione che ti ha segnato di più?
Ogni live e ogni collaborazione hanno avuto la loro importanza, indubbiamente, ma penso che la più rilevante sia stata l’allestimento per il live di Danilo Arena: 5 giorni in cui Max Po e Max Gallesi mi hanno fatto capire cosa vuol dire essere veramente un professionista. La precisione. La professionalità anche per un artista che non deve essere un colosso dell’industria musicale. Ma trattarlo come tale.
E Mylious Johnson, che tutti conoscono per essere un batterista incredibile, io ho avuto di apprezzarlo come uomo, e di imparare da lui il valore della persona, dell’umiltà e della concretezza.
Descrivi un giorno tipico della tua vita a Milano. Cosa cambia, musicalmente e personalmente, tra il vivere in Sicilia e vivere in una grande città come Milano?
Eh, difficile questa, non ho un giorno tipico!
Per ora mi destreggio con turnazioni di lavoro differenti ogni giorno, poi lezioni di chitarra, prove, momenti che cerco di ritagliare per studiare i brani che poi dovrò suonare, i live, qualche uscita con amici, e per ultimo, quando proprio mi voglio coccolare, un paio d’ore per la palestra. Tutto questo spalmato nell’arco della settimana. La mia unica routine ad oggi è data dal mercoledì’ pomeriggio in cui insegno in una scuola di musica e dal venerdì sera in cui (ebbene si, preparatevi) faccio da host in un karaoke. Realtà che in 30 anni non avevo mai considerato, soprattutto da musicista, il karaoke per me era tipo la morte della musica.
Eppure, vi dirò, ogni settimana non vedo l’ora arrivi il venerdì per andare lì ad incontrare quei volti che ormai sono diventati così familiari, di persone ed amici che hanno trovato un angolo di serenità in una città che te ne offre forse troppo poca.
Non posso comunque fare un paragone con la Sicilia, perché sto vivendo le due realtà in due fasi di vita completamente diverse. Sicuramente il costo della vita cambia le priorità e ti pone su altri binari. Musicalmente qui ancora non ho trovato quello per la quale sono venuta, ma spero di poter fare presto un’intervista e smentirmi!
Nel tuo percorso hai suonato diversi generi musicali, dal pop al jazz. C’è un genere che senti più tuo, o ti piace esplorare senza limiti?
Vado molto a periodi. Ho avuto un anno in cui sono stata in fissa con Mike Stern e Pat Metheny, un periodo Joe Bonamassa, poi ho avuto il momento Stevie Ray Vaughan.
Alla fine, quel che è rimasto sempre in tutti questi anni è stato l’amore per il pop.
Mettimi un brano di Elisa o Niccolò Fabi o Cesare Cremonini e piango.
È la musica che sento veramente, la musica italiana cantautorale.
Ed è anche il motivo per la quale credo che non mi trasferirò mai definitivamente all’estero: sono loro gli artisti con la quale voglio salire sul palco ed emozionarmi mentre li sento cantare lì, ad un passo da me.
Dopo anni di studio e performance, ora sei anche insegnante di musica. Cosa provi nel vedere i giovani musicisti crescere sotto la tua guida? Hai qualche consiglio da dare a chi vuole iniziare a suonare?
Ho la grande, grandissima fortuna, che insegnare mi entusiasma da morire. E questo l’ho scoperto anzitutto grazie alle persone che vengono a studiare con me, perché me l’hanno detto, che la prima cosa che gli arriva è l’entusiasmo e la passione che ho per quel che insegno. E questa è veramente una grande fortuna, perché in un periodo in cui insegnare per un musicista è, diciamolo, una fonte di stabilità non indifferente, farlo con piacere e in maniera così naturale è per me un privilegio.
Ho insegnato a bambini di 2 anni fino a persone ultrasessantenni, e quando vedi nel loro volto l’espressione che dice “Ecco perché!! Ecco come si fa! Ora ho capito! Ora ci riesco” è impagabile…
Qual è la lezione più importante che hai imparato dal confrontarti con musicisti di altre culture?
Che noi italiani siamo veramente tanto egoisti, invidiosi, e gelosi del nostro piccolo, piccolissimo, minuscolo orto.
Oltre alla musica, hai una forte passione per i viaggi e il cibo. Hai mai pensato di unire queste due passioni in qualche progetto musicale?
Beh…mi stai dando tu ora l’idea!
Premettendo che non so cucinare ma solo mangiare!!! Chi lo sa magari un giorno, si potrebbe fare una collaborazione con uno chef e scrivere della musica abbinata agli odori, i colori ed i sapori dei suoi piatti…
La bellezza di questo mondo è che le possibilità sono finite quanto lo sono le tue idee.
C’è una nuova sfida musicale che non vedi l’ora di affrontare o un sogno nel cassetto che vuoi realizzare?
Sono qui a Milano per un obiettivo chiaro: suonare per i big. È semplice? No. Ci riuscirò? Si.
E non perché io sia la chitarrista più brava a Milano, o in Italia. Ma perché io lo voglio fare. Veramente. Ho fatto, e sto facendo, tanti sacrifici per arrivarci, e sono sicura che chi si sacrifica poi ottiene. E poi perché ho voglia di mettermi in gioco, di sfidare me stessa, di migliorarmi io come musicista, e stare al fianco di colleghi che sono dei super pro, tecnici professionisti, avere la pressione di palchi grossi, artisti importanti, è lo step che voglio affrontare adesso.
Grazie Flavia, un grosso in bocca al lupo per tutti i tuoi progetti
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