Flavia Todisco è una scrittrice poliedrica, con un percorso che attraversa poesia, narrativa e drammaturgia. Il suo ultimo romanzo, “Ringrazio l’Inverno”, affronta tematiche profonde come la resilienza, la memoria, la famiglia e la ricerca di sé. In questa intervista, esploriamo il suo mondo creativo e il significato che attribuisce alla parola scritta.
a cura di Salvatore Cucinotta
Benvenuta su Che! Intervista, Flavia. È un piacere averti qui. Il tuo percorso letterario è ricco e articolato: dalla poesia alla narrativa, fino alla drammaturgia. Come descriveresti la tua identità di scrittrice?
Buongiorno a te, a voi della Redazione di Che! Intervista. Grazie per l’accoglienza e, soprattutto, per l’ospitalità, il piacere è reciproco. La scrittura è innanzitutto un percorso di crescita e consapevolezza, è un processo lento, per lo meno nella fase dell’acquisizione di consapevolezza, abilità tecniche ed espressive e nella ricerca della propria “voce”, del proprio stile, in ogni genere o tipologia di testo attraverso il quale ci si esprime. A sua volta, poi, la scrittura è principalmente passione per la parola in ogni sua forma, che sia letta, materialmente e concretamente scritta, pronunciata, recitata, cantata. La parola è quasi una “religione”, in quanto se scrivi “la veneri”, questo almeno è vero per me. E lo affermo con naturalezza e il massimo candore. Ciò che sono nella scrittura e quando scrivo passa attraverso questo: la parola è centrale, la parola è tutto, mi verrebbe da dire.
La scrittura, tuttavia, è sempre filtrata e preceduta, accompagnata dalla lettura. Se non leggi chi ti ha preceduto – i cosiddetti classici – e chi scrive nella contemporaneità, spaziando tra i generi letterari e le letterature, non puoi dedicarti alla scrittura, perché il tuo scrivere sarebbe limitato e povero. Ogni testo (e autore o autrice) entra inevitabilmente in relazione con altri testi (e autrici, autori) all’interno di un unico grande spartito che è la letteratura senza aggettivi. E poi, è così bello dialogare con gli altri autori e autrici e innamorarsi dei loro libri e storie, assaporando e gustando le loro parole. Con le scrittrici e gli scrittori del passato, siano o non siano dei classici, ci si trova sulla pagina, oltre le righe, con i contemporanei ci si può vedere, incontrare, scrivere, telefonare, andare a bere un caffè e farsi delle risate. In ogni caso questo dialogo tra chi scrive e ha scritto è fondamentale. E quando succede, permette di sentirsi parte di qualcosa, per affinità, stessi sentire e sensibilità, paradossalmente verrebbe da dire, anche nella scrittura, gesto e attitudine solitari per antonomasia.
Ringrazio l’Inverno è un titolo evocativo e simbolico. Cosa rappresenta l’“inverno” nella tua narrazione e nella tua visione della vita?
Devo il titolo del romanzo a una “voce” che mi arrivò e iniziai a sentire il primo dicembre di alcuni anni fa. Era una voce di donna, inizialmente molto lontana, mi disse il suo nome, Ersilia, e mi donò subito l’incipit del romanzo e il titolo. Ricordo nitidamente quel giorno e quel momento, così come la sua luce tersa, mentre, quasi in trance, presi carta e penna e iniziai a scrivere. Da allora non ho smesso di ascoltarla. Ne ho scritto la storia, innestandovi inevitabilmente dei vissuti personali – la scrittura è questo, dopotutto, un lavoro introspettivo di analisi e scavo, è ermeneutica di sé stessi e della vita in generale. Oggi che la sua storia è diventata un libro e arriverà, spero, al maggior numero di persone per essere letta, io non posso che onorarla e esserle grata.
L’Inverno con la “i” maiuscola nel romanzo e per Ersilia è una categoria emotiva e psicologica, rappresenta lunghi periodi, o stagioni, di sofferenza, prostrazione e ripiegamento interiore, in cui la protagonista si è quasi annientata, lasciandosi vivere, ma soprattutto quasi morire.
Ersilia ne racconta e descrive tre, alla fine dei quali è tuttavia sempre riuscita a riprendersi e sollevarsi, evolvendosi, trasformandosi, divenendo progressivamente una donna matura e consapevole. Tanto che nel momento in cui scrive il diario – perché Ringrazio l’Inverno è questo nella finzione narrativa, un memoir, un diario – per la nipote Cecilia, che non conosce i vissuti della nonna e soprattutto le ragioni per cui sia stata in un certo senso “bandita” dalla propria famiglia, Ersilia scopre che la stagione che ha tanto temuto, che l’ha profondamente segnata, da arrivare addirittura a pensare che fosse una sorta di “maledizione” personale o Karma negativo, in realtà è stata ciò che le ha permesso di sopravvivere nei momenti più critici e tragici della propria vita, consentendole di ritrovare sé stessa, trasformarsi e rinascere. L’Inverno è stata la cifra positiva e salvifica della parabola esistenziale di Ersilia, per questo gli è grata e lo ringrazia.
Ciò che ci fa male e ci ferisce – sembra dirci Ersilia -, il più delle volte, se noi lo sappiamo scrutare e vogliamo comprendere, contiene in sé l’antidoto a quella sofferenza, a quel male, e ci consente di rinascere ed evolverci, migliorando e, soprattutto, divenendo più consapevoli.
Detto questo, posso dire che l’Inverno è stata una stagione che ho più volte attraversato, perché l’esperienza del dolore e della sofferenza più profonda è parte del percorso esistenziale di ciascuno di noi e, anch’io, come Ersilia, in più occasioni mi sono ripiegata su me stessa, quasi esanime, e mi sono lasciata andare, disperando di potermi riprendere. A un certo punto, però, ho compreso che il dolore è un processo, un percorso, deve essere attraversato, accettando la sofferenza, non negandola, consapevoli del nostro rimanere e continuare a esistere, nonostante il dolore, oltre il dolore stesso, restando aperti alle conoscenze e acquisizioni emotive e spirituali che quell’esperienza ci riserva. Solo così ho imparato a “rinascere” più volte, cambiando, evolvendo, facendo della metamorfosi, come scrive anche Ersilia, un’esperienza salutare e salvifica della mia vita. Non si tratta della celebrazione o di compiacimento del e nel dolore o di crogiolarsi nel vittimismo, esibendolo quasi con orgoglio, mi preme precisarlo. Si tratta semplicemente di accoglierlo, attraversandolo e superandolo, con benevola disposizione per scoprire quello che di noi ci sta segnalando, quello che di noi ci suggerisce di modificare o lasciare andare, in serena predisposizione a scoprirsi diverse e diversi, pur restando consapevolmente sempre sé stesse e sé stessi.
Ne avevo già scritto (e parlato) ai tempi della mia prima raccolta di racconti, Senza scontrino non si esce, uscita una decina di anni fa, quando dicevo che i protagonisti bizzarri di quei racconti si trovavano tutti di fronte a una prova, a un’esperienza che, per essere affrontata e soprattutto superata, comportava sempre un simbolico prezzo – il metaforico “scontrino” del titolo – da “pagare” per evolversi e cambiare.
Lo penso e ne scrivo, perché l’ho vissuto e fa parte del mio percorso esistenziale. E credo che possa essere un’esperienza in cui in molti e molte si possano riconoscere.
La protagonista Ersilia scrive un diario per la nipote Cecilia, cercando di ricostruire il proprio passato e le scelte difficili che ha affrontato. Quanto c’è di te in questo personaggio e nel suo percorso di consapevolezza?
Come dicevo, la voce di Ersilia mi “è arrivata”, ma porta il nome della mia nonna materna e parla, in generale, delle difficoltà e delle scelte affrontate dalle donne della mia famiglia; è frutto in ogni caso di finzione e della rielaborazione tipica di ogni processo di scrittura, che sia in prosa, in versi o drammaturgica. La scrittura, infatti, permette proprio questo: di rielaborare i vissuti umani e personali, trasformandoli in modo che possano arrivare e parlare a chiunque, a ogni potenziale lettore e lettrice, in modo che possa identificarsi in ciò che è narrato attraverso la parola e trova consistenza materica sulla pagina. Poi, devo dire che sono nata anch’io in inverno, verso la fine dell’inverno e, come accennavo nella risposta precedente, ho attraversato e superato i miei Inverni. Questo romanzo e il suo titolo sono, in parte, una sintesi del mio percorso esistenziale fino al momento in cui ne ho intrapreso la scrittura. Sono io stessa, non solo Ersilia, a ringraziare l’Inverno, in quanto, con la scrittura del romanzo e grazie a Ersilia, ho compreso che mi ha “preservata”, consentendomi di ritrovarmi e rinascere più e più volte.
Ora che il romanzo è uscito, posso davvero andare oltre e dedicarmi ad altro: ho concluso quel percorso esistenziale, ne sono consapevole e serbo in me gli insegnamenti che mi hanno offerto i miei Inverni. Posso scrivere di altro – sto scrivendo il nuovo romanzo che affronta tematiche decisamente differenti – e dedicarmi a altri generi – sono infatti tornata a scrivere versi, ritrovando la parola poetica che, ora lo comprendo e lo vedo con chiarezza, è parte di me, mi struttura anche inconsciamente.
Nel romanzo affronti il tema dell’Alzheimer in modo delicato e profondo. Come ti sei documentata e cosa hai voluto trasmettere attraverso questa tematica?
Ciò che racconto dell’Alzheimer è – naturalmente romanzato e trasfigurato attraverso la scrittura – basato sulla mia esperienza diretta, nel rapporto con mia madre, così come si è evoluto ed è stato caratterizzato negli ultimi anni che abbiamo vissuto insieme.
Il percorso che narra Ersilia: dalla scoperta devastante della malattia – che sconvolge l’esistenza dell’intera famiglia, a cominciare da quella di sua madre Clotilde – alla comprensione, rielaborazione, infine accettazione del male stesso e del nuovo io materno con cui si trova a dover interagire, è lo stesso percorso che ho compiuto io stessa per stare accanto a mia madre e, soprattutto, imparare a farlo con amore e ascolto autentico, senza angoscia, paura e alcun “giudizio” nei suoi confronti. Non è stato facile, non è mai facile affrontare il dolore e la malattia, specie l’Alzheimer: le famiglie, inoltre, si trovano per lo più sole ad affrontare tale percorso. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato, se ne parla maggiormente e, spesso, nel modo corretto, oltre al fatto che ora ci siano anche un maggior numero di centri, associazioni e personale specializzato che accompagnano le famiglie nell’affrontare serenamente e al meglio la malattia e il suo decorso.
Naturalmente, tengo a precisare, ogni esperienza, ogni malattia, anche l’Alzheimer, è a sé stante, non c’è un unico “esempio”, un solo “paradigma”, può essere unico il modo in cui lo si può affrontare, con amore, ascolto sincero, innanzitutto nei confronti di chi ne è affetto. Demonizzare la malattia in generale e, nello specifico, questa malattia e chi ne è colpito è sterile, non serve a niente. Non è facile certo, è doloroso, ma si può imparare a con-vivere con l’Alzheimer e con chi ne è affetto. La malattia, come ogni altra esperienza di sofferenza e dolore – torniamo ancora a questo -, può essere un’opportunità, nel senso che può permettere, ai singoli come alle famiglie nel loro complesso, di comprendere qualcosa dell’intero “sistema” familiare che la affronta e, soprattutto, può consentire di sciogliere nodi e problemi irrisolti. Alcune famiglie si disgregano e, in un certo senso, soccombono sotto il peso deflagrante della malattia, in generale, e nello specifico di questo “male”, l’Alzheimer; altre, invece, la e lo affrontano e trasformano, ricompattandosi, in un certo senso, superando così divisioni, incomprensioni, questioni irrisolte.
Le esperienze estreme consentono di scindere e isolare fatti, persone e “cose”, distinguendo tra le une e le altre, e portando ad abbracciare ciò che è vero, autentico e davvero importante per noi. Tutto il resto, una volta compreso e accettato questo, viene da sé, anche imparare a comunicare in modo differente con chi vive l’Alzheimer, attraverso il corpo, il tatto, nuove parole, suoni, sguardi e gesti che metto in relazione con chi è sempre e comunque presente, soffre e gioisce proprio come noi, ma non lo esprime in modo chiaro e compiuto con il nostro linguaggio e la vasta gamma delle nostre modalità espressive. Sta a noi sederci accanto a lui o a lei – come racconta anche Ersilia – e con sincerità e rispetto, con amore soprattutto, ascoltare e scoprire come comunicare. Loro, i cosiddetti “malati”, lo comprendono e spesso sono loro stessi a indicarci la strada, a suggerirci come comunicare con loro. Allora, si può tornare a sorridere e gioire, complici e uniti, come un tempo, o addirittura a un livello più profondo, intimo e maturo. Questo, almeno, è quello che ho vissuto ed esperito in prima persona e, attraverso le pagine del romanzo in cui ne parlo, ho voluto rendere omaggio a mia madre e a quell’esperienza, al tempo stesso, terribile e unica, addirittura stupenda, in cui ci siamo ritrovate, ci siamo comprese e siamo state unite, come mai prima di allora.
Forse la mia, la nostra esperienza può aiutare a comprendere e a guardare in modo differente chi affronta l’Alzheimer e qualsiasi altra patologia, come hanno anche mostrato e mostrano con una frequenza sempre maggiore persone comuni o personaggi noti e famosi del mondo della cultura o dello spettacolo, che parlano e mettono sotto i riflettori le loro esperienze di vita e malattia.
La famiglia è un elemento centrale nel libro: da un lato un sistema rigido e patriarcale, dall’altro una “famiglia scelta” basata su legami autentici. Quanto pensi che questi concetti siano ancora attuali nella società di oggi?
Nel romanzo, la famiglia di Ersilia, tanto quella di origine, quanto quella acquisita attraverso il matrimonio con Enzo, vengono spesso definite un “clan familiare”, che controlla, limita e giudica ogni libera espressione e volontà, specie quelle femminili, non solo di Ersilia. Penso che la dimensione clanica, di controllo, limitazione e, spesso, oppressione da parte delle famiglie, in particolare nei confronti delle donne, sia ancora, ovunque, un’esperienza frequente nella nostra società. A seconda dell’area geografica e culturale assume semmai aspetti e forme differenti: nell’Occidente sedicente evoluto e civile può essere più sottile e subdola, forse; in altre regioni del pianeta può invece essere più evidente e manifesta, basti pensare alla condizione cui sono costrette le donne afghane, così come le iraniane, ma resta il fatto che la famiglia spesso esercita un controllo sui propri membri, specie i più deboli – donne, bambine e bambini, adolescenti – e può rappresentare un vero e proprio limite e ostacolo alla loro evoluzione, realizzazione e libera espressione. Nel romanzo non solo Ersilia, ma anche Serena, sua assistente e restauratrice di libri antichi, lo sperimenta. Oggi si parla maggiormente della famiglia come scelta, dei legami familiari basati sul rispetto e la scelta reciproci, non solo e non tanto sul legame di sangue e, dunque, su una comune ascendenza familiare. Naturalmente mi riferisco anche alle cosiddette “famiglie arcobaleno” e alla famiglia “queer” di cui parlava Michela Murgia, basata su legami dello spirito che prescindono dai generi e dall’orientamento sessuale.
Famiglia, a mio avviso, è innanzitutto dove c’è amore, ci si sceglie e ci si rispetta, tutto il resto è relativo.
Il tuo romanzo parla anche di emancipazione femminile. Ersilia vive questa battaglia in solitaria, mentre negli stessi anni le donne lottavano collettivamente per i loro diritti. Secondo te, qual è la principale sfida per le donne di oggi?
Ersilia, come molte donne in passato, ma anche oggi, si trova a dovere combattere da sola contro gli stereotipi di genere innanzitutto all’interno della propria famiglia. È una sorta di onta per lei, un forte rimpianto quello di avere vissuto nell’epoca dell’emancipazione femminile e non avervi preso parte, non averla vissuta come esperienza comune e condivisa di lotta e festa al tempo stesso. L’emancipazione di Ersilia è stata solitaria, intimista e molto sofferta. Attraverso il diario, però, e soprattutto il suo vivere e lavorare nel presente, accanto a giovani donne e uomini, ha modo di impegnarsi nella militanza attiva per le battaglie del nuovo Millennio: quella in difesa del pianeta contro i cambiamenti climatici e quella della tutela e dell’estensione dei diritti civili e politici in nome dell’uguaglianza e della democrazia di tutti e per tutti. Nel diario, infatti, si alternano pagine dedicate ai vissuti del passato a pagine più fresche e aeree dedicate al presente di Ersilia, in cui lei, grazie al proprio laboratorio di restauro di libri antichi, si trova a vivere accanto a giovani donne e uomini, quali i suoi collaboratori e tirocinanti oppure i figli della vicina di casa, Luca e Luigino. E in questo rapporto di prossimità e scambio reciproco, Ersilia affianca, sostiene, ascolta e incoraggia queste giovani vite, facendosi “attivista” ora, da adulta oramai più che ottuagenaria, attraverso l’esempio e la parola delle battaglie che le giovani generazioni, non solo le donne, devono intraprendere nel mondo contemporaneo.
Credo che le donne, o meglio, noi tutte oggi ci troviamo di fronte a una realtà mai immaginata prima: quella di dovere tutelare e difendere i diritti che altre donne in passato hanno conquistato per noi e che credevamo definitivamente acquisiti, tanto da darli quasi per scontati. In realtà non è così e i diritti, le conquiste delle donne sono ovunque minacciati. È uno scenario nuovo e imprevisto, ma concreto e reale. Anzi, davvero drammatico. Le generazioni di donne adulte, cui appartengo, sono nel complesso consapevoli di tali diritti e conoscono anche da quali militanze e campagne provengono, le ragazze e le bambine non hanno questa consapevolezza e spesso ignorano le lotte del passato e – questo è ancora più grave e inquietante – rischiano di non conoscerle affatto. Si rende pertanto necessario instaurare un dialogo intergenerazionale per tutelare ed estendere i diritti acquisiti.
Hai vissuto un periodo di studi a Parigi e il tuo romanzo riflette questa passione per la storia e la ricerca storica. Come il tuo background accademico ha influenzato la tua scrittura?
Non so se il mio percorso accademico abbia influenzato la mia scrittura, in ogni caso se lo ha fatto, ha influito su alcune tematiche che affronto in Ringrazio l’Inverno: l’attenzione alla tutela e all’estensione dei diritti civili e politici, cui accennavo anche poco fa; l’amore per la democrazia che, per quanto imperfetta, è la migliore forma di governo e di vita associata fra individui e nazioni; la passione per la stagione dell’Illuminismo e delle Rivoluzioni francesi ed europee del XVIII e XIX secolo.
Credo, infatti, che abbia maggiormente segnato me come persona e cittadina. Stare per ore e ore, per giorni e settimane, o mesi, in Archivio o in biblioteca a Parigi a studiare le vite e gli scritti di donne e uomini che, a partire dalla fine del Settecento, hanno lottato per le libertà e le uguaglianze di tutte e tutti, combattendo per l’emancipazione delle masse popolari innanzitutto dal giogo per antonomasia, quello dell’ignoranza, mi ha decisamente formata. Quelle donne e quegli uomini hanno messo in gioco – e spesso a repentaglio – la loro stessa esistenza per affermare e garantire quei diritti. Come donna, come cittadina, come autrice e come individuo non posso che essere loro grata, cercando di onorare quelle conquiste con ogni gesto o scelta che compio, parlandone e, come in Ringrazio l’Inverno, scrivendone anche.
Nei tuoi lavori precedenti hai affrontato tematiche forti, come la violenza di genere in Trittico contemporaneo. Quanto è importante per te che la letteratura si faccia veicolo di impegno sociale?
La letteratura deve innanzitutto essere sé stessa, seguire la propria ispirazione, i propri impulsi, il proprio sentire e in questo coglie lo spirito del proprio tempo e della società che ne è il frutto, ma la letteratura anche e soprattutto anticipa e intercetta i fenomeni, i cambiamenti, il cosiddetto “nuovo” che avanza. E nel fare questo è inevitabile che si faccia portatrice di messaggi sociali e politici.
La letteratura è fondamentalmente espressione artistica, ricerca ed espressione del bello in tutte le sue forme, ma affronta anche tematiche importanti per i singoli e le collettività, si ritrova così a fare politica e ad essere politica nel significato originario ed etimologico del termine, in quanto parla della vita – verosimile o immaginata che sia – della polis e dei suoi abitanti, i cittadini e lettori. La letteratura e chi la pratica e scrive si trovano così, a volte, ad affrontare tematiche delicate e importanti, a promuovere cambiamenti e a sostenere campagne di civiltà contro ogni forma di prevaricazione e violenza, in nome dei diritti e libertà di singoli e collettività. In questi casi la letteratura e chi la scrive scendono in campo, si schierano e si pongono al servizio di questa o quella battaglia. È inevitabile ed è importante che lo facciano.
Quando scrissi Trittico contemporaneo, da tempo sentivo l’urgenza di scrivere un testo contro la violenza di genere, furono tuttavia le emozioni suscitate da un efferato femminicidio a portarmi a scrivere di getto la prima stesura del dramma, poi vennero revisioni e correzioni, ma in quel momento la realtà fattuale era riuscita a offrimi lo spunto per mettermi al lavoro e scrivere quello che per me era e resta il mio contributo scritto alla campagna finalizzata all’estinzione di ogni violenza sulle donne. Si può e si deve scendere in campo anche con le parole e i testi, è importante e vitale.
Hai definito la parola scritta come uno strumento di emancipazione. Quale ruolo pensi che la lettura e la scrittura abbiano nel dare voce a chi non ce l’ha?
L’atto della scrittura, come ho già accennato, è un atto di ermeneutica, vale a dire un’azione di interpretazione e, dunque, di ricerca e attribuzione di senso, innanzitutto interiore e personale, quindi anche esteriore e collettiva. La parola è ciò che ci permette di comunicare, ovvero di entrare in relazione con l’altro, mettendo in comune ciò che pensiamo, sentiamo, desideriamo e facciamo. Attraverso le parole noi costruiamo il mondo che ci circonda, l’atto di nominazione è all’origine della specie umana così come del percorso evolutivo di ciascun individuo. Prendersi cura delle parole vuole dire prendersi cura del mondo in cui viviamo e agiamo, migliorandolo. E questo è di capitale importanza per il genere umano, specie nei momenti di crisi e transizione quale il periodo storico che stiamo vivendo.
La parola e la letteratura emancipano perché possono offrire modelli di vite altre dalla nostra e dunque permetterci di trovare soluzioni e trarre ispirazione da vite differenti dalle nostre, ma che hanno sempre qualcosa in comune con noi e dunque sono capaci di parlarci e comunicarci, divenendo talvolta anche strumenti di denuncia e riscatto, facendosi portavoce di chi non può o non riesce a parlare. La parola, orale o scritta, ha anche una forte valenza curativa e salvifica, può dunque farsi strumento di espressione individuale e analisi interiore, intima e profonda, che può anche assumere una dimensione collettiva – basti pensare a Gli anni di Annie Ernaux. Torniamo a quanto dicevo nella risposta alla prima domanda: la parola è – e può – tutto.
C’è un verso de La lettura di Chandra Livia Candiani che amo particolarmente e che esprime questo concetto con la forza espressiva che solo la versificazione riesce ad avere: Leggo per abitare, scrivo per traslocare. Chi non lo fa?
Per concludere, ci lasci con una citazione, un’immagine o un pensiero che rappresenta il cuore di Ringrazio l’Inverno?
Forse il mistero dell’Amore è davvero più grande del mistero della Morte.
Questo è lo strillo, ovvero la frase pubblicata in quarta di copertina. Credo che esprima al meglio, sintetizzandolo, il contenuto e il messaggio del romanzo: l’Amore è alla base di qualsiasi nostra esperienza, anche quella estrema del trapasso e dell’andare oltre, come lo definisce Ersilia.
Solo leggendo il romanzo, tuttavia, se ne può cogliere il significato profondo.
Vi aspetto, dunque, in libreria e alle prossime presentazioni!
Nuovamente grazie a te e a Che! Intervista, per l’ospitalità e per questa interazione decisamente stimolante. Flavia Todisco.
Grazie Flavia per il tuo tempo! Complimenti per la tua carriera!
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