Nati dalla volontà di dare vita a un progetto musicale capace di coniugare la profondità cantautorale con l’energia dell’elettronica e del rock, Frenk & the Ferguson Fog sono una delle nuove realtà più interessanti del panorama musicale italiano.
Guidata dal cantautore Gianfranco Bosio, in arte Frenk, e affiancato da Pier Andrea Resconi e Nicholas Balteo, la band nasce nel 2023 e si distingue per la sua abilità nel fondere atmosfere intime con sperimentazioni sonore, traendo ispirazione dagli anni ’90 ma guardando al futuro. In questa intervista, Frenk e i suoi compagni ci portano dentro la loro visione artistica, esplorando la creatività, le sfide e le emozioni che animano il loro percorso musicale.
a cura della redazione
Benvenuti su Che! Intervista. Il vostro progetto è nato dall’esigenza di dare una nuova veste alle canzoni di Frenk. Cosa vi ha spinto a unire forze e sonorità così diverse? E come si è sviluppata questa alchimia musicale tra voi.
Il progetto è nato in modo molto naturale, quasi come se fosse destino. Frenk aveva queste canzoni con un’anima fortissima, testi sinceri e pieni di vita vissuta — ma sentivamo che potevano esplodere davvero solo se avessero indossato un nuovo vestito, qualcosa che le portasse su un altro piano emotivo. I Ferguson Fog avevano un background decisamente più ruvido con chitarre distorte e quella roba che ti prende allo stomaco. Frenk invece ha sempre avuto un tocco più intimo, quasi poetico. Quando ci siamo trovati in studio, all’inizio pensavamo: “Ok, qui sarà un casino mettere insieme questi mondi…” E invece boom, magia. L’alchimia è nata proprio dalla voglia di non snaturarci. Nessuno di noi ha cercato di dominare sull’altro. Abbiamo lasciato spazio, ci siamo ascoltati. E da lì, traccia dopo traccia, è venuto fuori un suono nuovo, che non è né mio né suo, ma nostro. È come se due universi si fossero messi in equilibrio, e da lì in poi è stato tutto un viaggio. Un viaggio rock, ovviamente.
Nel vostro sound convivono elementi di cantautorato, elettronica e rock anni ’90. Come riuscite a bilanciare queste influenze senza perdere l’identità del progetto?
Quando componiamo o arrangiamo, non ci sediamo mai al tavolo dicendo “Ok, ora facciamo un pezzo che suoni cantautorale, ma con un synth e magari una base grunge…” — no, niente calcoli. Ci lasciamo guidare dal pezzo. È lui che ci dice cosa vuole diventare. Il cantautorato è la radice, il cuore emotivo. È Frenk che scrive con la chitarra sulle ginocchia, parole vere, che arrivano dritte. Poi arriva l’elettronica, che è come il respiro del presente: pad, beat, texture… tutte quelle cose che ti fanno sentire che sei qui, adesso. E poi ci siamo noi, il rock anni ’90, con le chitarre scordate, i fuzz, i muri di suono — quella roba che ti fa scuotere la testa anche se non vuoi. Il trucco è non forzare nulla. Se in un pezzo ci serve solo una voce e un pianoforte, lasciamo parlare il silenzio. Se invece il pezzo chiede di esplodere, allora apriamo tutto e facciamo casino. Ma sempre al servizio della canzone. È come avere tre anime che convivono in una sola creatura. E finché tutti e tre restiamo fedeli a ciò che siamo, il progetto tiene la sua identità. Poi oh, ogni tanto litighiamo su un arpeggiatore o una linea di basso… ma fa parte del gioco, no?
Il nome “Ferguson Fog” evoca un’atmosfera densa e misteriosa. Qual è il significato che si cela dietro questa scelta e come si riflette nella vostra musica?
Ah, Ferguson Fog… solo a dirlo ti sembra di camminare in una strada bagnata alle tre di notte, giusto? Il nome è nato da un’immagine (anche se fa riferimento al nome del gatto di Balteo, al quale ogni settimana freghiamo la sala prove per suonare), più che da un concetto preciso. Ferguson è un luogo che non esiste — o meglio, esiste solo nella nostra testa. È un po’ la somma di tutti quei posti che abbiamo attraversato con la musica nelle cuffie: stazioni deserte, motel dimenticati, città che sembrano ferme nel tempo. La “Fog” invece è la nebbia, sì, ma è anche tutto quello che non si vede a occhio nudo: le paure, i ricordi sfocati, i sogni mezzi sepolti. Metaforicamente, Ferguson Fog è lo spazio dove le nostre influenze si incontrano e si confondono. Non è un posto chiaro, lineare. È pieno di strade che si incrociano, suoni che arrivano da lontano, luci fioche e rumori di fondo. E proprio in quell’atmosfera lì, tra il reale e il surreale, troviamo la nostra voce. Nella musica questo si traduce in brani che non hanno paura di essere imperfetti, spigolosi, malinconici. Ci piace tenere un po’ di nebbia anche nelle produzioni: delay sporchi, synth che sembrano venire da un vecchio VHS, chitarre che graffiano come se fossero suonate in un garage all’alba. È un nome che ti avvolge, che non ti dice tutto subito. E in fondo, è anche così che vogliamo far sentire chi ci ascolta: un po’ spaesato, ma anche dannatamente vivo.
Frenk, hai una lunga storia musicale alle spalle, che risale ai tuoi anni con i Fuorifase. Quanto di quell’esperienza ritrovi oggi nel progetto Frenk & the Ferguson Fog?
Sì, con i Fuorifase è stato il mio primo vero salto nel vuoto. Avevamo vent’anni, troppa energia, e una voglia matta di dire qualcosa — anche se a volte non sapevamo bene cosa. Quell’esperienza mi ha insegnato tantissimo: stare su un palco, scrivere col cuore, arrangiare con la testa, e soprattutto… fallire con stile. Con Frenk & the Ferguson Fog però è un altro tipo di viaggio. Meno frenesia, più consapevolezza. Ma le radici sono lì. Quindi sì, i Fuorifase sono ancora con me. Magari sotto forma di una strofa malinconica o di un’attitudine live che non mi abbandonerà mai. Ma oggi c’è più silenzio tra le note, più spazio per ascoltare. E quella è una conquista.
Sperimentate molto con l’elettronica e la programmazione sonora. Quanto spazio date all’improvvisazione durante la creazione di un brano e quanto invece tutto è strutturato e pianificato?
La verità è che Frenk & the Ferguson Fog vivono proprio nell’equilibrio tra caos e controllo. Quando cominciamo un brano, spesso partiamo da un’idea grezza: un giro di chitarra, una melodia canticchiata sul telefono, una frase appuntata su un foglio spiegazzato. E lì l’improvvisazione è totale. Ci chiudiamo in studio, accendiamo i synth, attacchiamo i pedali e… via, si suona senza pensarci troppo. A volte nasce una magia inaspettata, altre volte solo rumore — ma ci serve tutto, anche il rumore. Poi, però, arriva la fase chirurgica. Prendiamo quel materiale grezzo e lo scolpiamo. Ogni suono deve avere un perché, ogni pausa deve respirare col testo. In pratica, potremmo dire che l’improvvisazione è la scintilla, ma la struttura è il motore. E se la prima ti accende, è la seconda che ti porta lontano.
La vostra musica racconta storie ed emozioni, ma qual è il tema o il messaggio che sentite di voler trasmettere al pubblico attraverso le vostre canzoni?
Ci piace pensare che la nostra musica non dia risposte, ma faccia domande. Quelle che magari ti tieni dentro da tempo, quelle scomode, quelle che arrivano di notte quando tutto si spegne. Il tema centrale, se proprio dobbiamo trovarne uno, è l’imperfezione umana. Le crepe. Le cose non dette. Le scelte sbagliate che rifaresti comunque. Vogliamo raccontare la bellezza che si nasconde nelle ombre, nelle fragilità. E soprattutto vogliamo dire a chi ascolta: “Ehi, va bene se non sei sempre a fuoco. Va bene se ti perdi ogni tanto. Anche noi lo facciamo.” C’è tanto di noi in ogni pezzo, ma non in modo autobiografico o narcisista. Usiamo la nostra esperienza come lente per guardare il mondo. A volte con rabbia, a volte con nostalgia, altre con quel cinismo tenero di chi ha visto troppo ma ancora ci spera. Il nostro messaggio, se vuoi stringerlo in una frase, è questo: “Non aver paura di sentire. Anche quando fa male.” E se anche solo una persona, ascoltando un nostro pezzo, si sente meno sola nei suoi pensieri… allora la missione è compiuta.
L’introspezione sembra essere una parte importante del vostro processo creativo. Quanto conta per voi scavare a fondo nelle emozioni e nella vita personale quando componete?
Conta tutto. È il centro. Per noi scrivere è come aprire una finestra dentro di sé, anche quando fuori c’è tempesta. Se non scaviamo a fondo, se non ci sporchiamo le mani con quello che sentiamo davvero, allora non stiamo facendo musica — stiamo solo facendo rumore. L’introspezione è il nostro carburante. Ma attenzione: non vuol dire piangersi addosso o chiudersi in sé stessi. Vuol dire avere il coraggio di guardarsi allo specchio senza filtri. Di ammettere le paure, le contraddizioni, anche le parti di noi che non ci piacciono. Quando componiamo, cerchiamo sempre il punto vulnerabile. Quel momento in cui una frase ti spiazza, in cui un suono ti ricorda qualcosa che avevi rimosso. A volte è difficile, altre volte quasi liberatorio. Ma se non sentiamo un brivido mentre lo facciamo, allora sappiamo che dobbiamo ricominciare da capo. La vita personale entra sempre. Non perché vogliamo raccontare la nostra storia, ma perché è l’unico modo per arrivare a una verità che può essere anche di chi ascolta. E poi, diciamocelo, le canzoni migliori non nascono nei giorni facili. Nascono quando tutto è un casino, e scrivere diventa l’unico modo per rimettere insieme i pezzi.
Il 2023 è stato l’anno della vostra nascita come band. In che modo pensate di crescere artisticamente nel futuro e quali sono le sfide che credete di dover affrontare lungo il cammino?
Il 2023 è stato il nostro primo respiro collettivo. L’anno zero. Quello in cui ci siamo guardati negli occhi e abbiamo detto: “Ok, facciamolo davvero.”
Abbiamo acceso i synth, imbracciato le chitarre, buttato fuori i primi pezzi senza sapere dove ci avrebbero portato. Ma una cosa era chiara da subito: non volevamo essere una meteora, volevamo costruire qualcosa che avesse un’anima e un tempo lungo. Per il futuro, la crescita artistica per noi non passa solo per il “suonare meglio” o “scrivere di più” — passa per il diventare più veri. Più coraggiosi. Vogliamo spingerci oltre i confini del nostro sound attuale: sperimentare suoni ancora più contaminati, magari inserire strumenti acustici dove oggi ci sono sequenze elettroniche. E, chissà, forse anche scrivere qualcosa in altre lingue, per aprire porte che ancora non abbiamo nemmeno visto. Le sfide? Tante. La prima è quella di restare fedeli alla nostra identità mentre il mondo della musica corre, cambia, si reinventa ogni giorno. Non è facile. Il rischio di perdersi dietro le mode o i numeri è sempre dietro l’angolo. L’altra sfida è quella più personale: tenere viva la scintilla tra di noi. La chimica che abbiamo adesso è un dono, ma come tutte le cose vive, va nutrita. Con rispetto, confronto, spazio e silenzi. E poi c’è il live, che per noi è il banco di prova definitivo. Vogliamo portare sul palco la stessa intensità che c’è nei dischi, ma senza copiare nulla. Ogni concerto dev’essere un’esperienza, un viaggio dentro quella nebbia che chiamiamo Ferguson Fog. Insomma, vogliamo crescere senza smettere di cercare. E se il cammino sarà faticoso… beh, meglio così. Le strade più belle sono sempre quelle in salita.
Il vostro progetto unisce la tradizione del cantautorato a tecniche musicali innovative. Qual è il vostro rapporto con il passato musicale e come vedete il futuro della musica?
Il nostro rapporto col passato musicale è di profondo rispetto, ma zero nostalgia sterile. Veniamo da lì — dalle voci spezzate dei cantautori anni ’70, dalle chitarre luride del rock ’90, dai dischi graffiati ascoltati in loop in cameretta — ma non vogliamo imitarli. Li ascoltiamo, li studiamo, ci lasciamo ispirare… e poi li tradiamo. Perché è così che funziona l’evoluzione: onori le radici, ma cresci verso il cielo. Il cantautorato per noi è il cuore. Il racconto, la parola messa lì con intenzione, la canzone che non ha paura di essere nuda. Ma oggi, nel 2025, non basta più solo una chitarra e una voce. Il mondo suona in mille modi, ed è giusto che la musica li esplori. Per questo nel nostro sound c’è spazio per i glitch, i synth analogici, i campionamenti, la programmazione. È una fusione tra emozione e tecnologia, tra pancia e cervello. Quanto al futuro della musica… lo vediamo liquido, ibrido, senza generi fissi. Crediamo che l’identità musicale del futuro non sarà fatta di etichette, ma di intenzioni. Ci sarà chi userà l’AI per comporre, chi tornerà al nastro magnetico, chi farà concerti immersivi e chi tornerà alle ballate acustiche — e tutto questo potrà convivere, se fatto con autenticità.
La sfida sarà distinguere il vero dal costruito. Ma finché ci saranno artisti disposti a scavare dentro e a sporcarsi le mani, la musica non morirà mai.
E noi, nel nostro piccolo, vogliamo farne parte. Con le nostre luci fioche, le nostre nebbie sonore, e quella voglia di raccontare che non smette mai di bussare. Se vuoi, ti mando una playlist di brani che secondo noi rappresentano perfettamente questo ponte tra passato e futuro. Magari ci trovi anche qualcosa che non ti aspetti.
Avete già un pubblico che vi segue e vi apprezza. Cosa significa per voi il rapporto con i vostri ascoltatori e come pensate di coinvolgerli sempre di più nelle vostre creazioni?
Per noi, il rapporto con i nostri ascoltatori è il cuore pulsante di tutto ciò che facciamo. Sono la nostra fonte d’ispirazione e il nostro motore creativo. Vedere le loro reazioni, ascoltare i loro feedback e sapere che la nostra musica riesce a connettersi con loro a un livello profondo ci dà una carica indescrivibile. Ci piacerebbe sfruttare i social media in modo autentico, dialogando direttamente con loro e magari lanciando iniziative come remix collaborativi o interpretazioni creative delle nostre canzoni. Alla fine, crediamo che il coinvolgimento sia una strada a doppio senso. Quanto più apriamo le porte del nostro mondo, tanto più possiamo ricevere energia, idee e amore da parte loro.
Grazie ragazzi! Complimenti per la vostra carriera artistica!
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