Giovanni Marzo ha iniziato il suo percorso musicale all’età di soli sei anni e da allora non ha mai smesso di coltivare la sua passione per il pianoforte. Con numerosi concorsi nazionali e internazionali alle spalle, ha saputo navigare tra le sfide del pianoforte classico, per poi abbracciare con entusiasmo il mondo del jazz. Oltre a essere un musicista versatile, Giovanni è anche compositore e insegnante, condividendo le sue conoscenze sia nelle scuole pubbliche che nell’ambito privato delle Officine Musicali, accademia diretta da Danilo Tasco dei Negramaro. In questa intervista, esploreremo il suo percorso artistico, la sua visione didattica e i progetti futuri.

a cura di Noemi Aloisi


Benvenuto Giovanni, hai iniziato a suonare il pianoforte a soli sei anni, come hai fatto a rimanere costante per tutti questi anni?
Ciao Noemi. Innanzitutto ti ringrazio per avermi contattato e devo ammettere che rilasciare un’intervista è sempre un qualcosa di affascinante e piacevole,  in quanto simboleggia il mettersi a nudo raccontando l’io esistenziale, facendo venir fuori una sorta di fanciullino di pascoliana memoria che è dentro di noi e che in qualche modo reclama incessantemente il suo spazio nel mondo. Rispondendo alla tua prima domanda, credo che la costanza sia il segreto di ogni successo sociale, didattico e musicale. Anche un’amicizia necessita di costanza, per non parlare dei rapporti d’amore. E la musica cos’è, in fondo, se non un amore con il proprio strumento? La costanza, dunque, è una “sine qua non” senza la quale nulla avrebbe senso. Essere costanti è un fattore cruciale che diversifica coloro che realizzano i propri sogni da chi resta intrappolato nell’inefficacia e nell’inconcludenza.

Hai vinto numerosi concorsi nazionali ed internazionali, come pianista classico, come gestisci lo stress in queste competizioni?
La gestione dello stress è una delle situazioni, musicalmente, più complicate e complesse. Non si compra in un supermercato, e neanche in farmacia. É figlia del tuo carattere emotivo e, come tale, varia da persona a persona. Il tutto si gestisce, innanzitutto, avendo alle spalle un grande maestro che ti mette nelle condizioni di arrivare all’appuntamento del concerto/concorso nelle migliori condizioni mentali e musicali. E poi bisogna suonare pubblicamente, incessantemente (ma coscienziosamente). In questo mi ritengo fortunato, in quanto sin da ragazzo, con i miei genitori, ho girato l’Italia per sostenere numerose esibizioni. Nel corso degli anni ho anche imparato, da approfondimenti attuati in ambito di ricerca presso l’Università di Padova, quanto sia importante la cosiddetta “visualizzazione positiva”, ossia dell’immaginazione di un’esibizione di successo che può aiutare a costruire la fiducia e a ridurre la paura.

Dopo gli studi classici sei passato al Jazz, cosa ti ha spinto a voler approfondire anche questo genere?
La scelta fu frutto del caso o del caos (ma sappiamo bene che anche l’Universo è nato dal caos primordiale). Ero innamorato del Conservatorio e delle anime che lo popolavano, volevo continuare a specializzarmi ed ad apprendere nuove cose in quel magico ambiente. Le armonie jazz hanno notevolmente cambiato il mio modo di attuare la pratica esecutiva e compositiva: da quel momento in poi ogni mio atto musicale, seppur ispirato al mondo classico nel quale mi riconosco in maniera assoluta e totale, ha avuto delle contaminazioni e delle aperture jazzistiche. L’ultimo mio brano andato in scena a Venezia presso la Giudecca in occasione della mostra Internazionale “Pareidolia. I see faces everywhere”, denominato “Carillon”, è la trasposizione pianistica di quanto esplicato poca fa.

Oltre che un musicista sei un compositore, da cosa ti lasci ispirare quando lo fai?
Ho sempre pensato che l’ispirazione fosse animata da due aspetti, uno passivo e uno attivo. Il primo è quello che ci rende oggetto di ispirazione, appunto parte passiva, mentre la fase attiva è quella nella quale incidiamo nella nostra anima, ed in quella altrui, l’idea appena nata per creare qualcosa di inedito che abbia un valore. Non esistono regole sul quando venire ispirati, e questa è proprio la parte più bella di tale argomento; ciononostante, posso sicuramente affermare che sono importanti gli stimoli emozionali, i quali aprono la porta del nostro essere e lasciano uscire la nostra massima espressione artistica.

Sei un esperto di software musicali e workstation elettroniche, come sfrutti questa abilità?
Accanto alla produzione di composizioni pianistiche, collaboro con musicisti che operano nel campo della pop music. Ho sempre amato le contaminazioni, metafora dell’accettazione di un qualcosa che è diverso da noi. La cosa più complicata, in termini di software e workstation elettroniche, è quella di rimanere al passo con i tempi: la tecnologia progredisce e cambia alla velocità della luce, ed è veramente difficile starle dietro.

Ti occupi di didattica sia nella scuola pubblica che presso le Officine Musicali, un’accademia privata, in cui la direzione artistica è curata da Danilo Tasco, il batterista dei Negramaro. Ti piace insegnare? Cosa speri di trasmettere ai tuoi studenti?
Partiamo dal principio: insegnare deriva dal latino insignare (composto da in + signare) e significa “imprimere dei segni” o “incidere”: ogni docente dovrebbe aver scolpito nella mente e nel cuore questo significato. Il mio muovermi didatticamente, difatti, parte da questo assunto imprescindibile. Al contempo, negli anni e con l’esperienza, ho appreso che il fine ultimo dell’ insegnare è il cambiamento. Non vi è apprendimento senza cambiamento, inteso come una modificazione comportamentale nell’interazione con l’ambiente circostante che conduce a stabilire nuove configurazioni di risposta agli stimoli esterni. Equivale, cioè, ad aprire una nuova finestra nell’universo musicale ed artistico, a varcare le colonne d’Ercole del sapere o al percorrere vie nuove e, fino a quel momento, inaccessibili. Ai mie discenti cerco di trasmettere proprio questo: cerco di lasciare un segno nel loro cuore attuando una politica del cambiamento.

Dopo il Conservatorio ti sei laureato anche in Relazioni Internazionali, da cosa deriva questa scelta?
Deriva proprio da quanto detto nella risposta n°3: contaminarsi vuol dire aprirsi alle relazioni. Ho voluto approfondire questa tematica presso l’Università del Salento, laureandomi con il massimo dei voti e con lode. Studiare ed aggiornarsi serve sempre: un docente, difatti, è solo uno studente con qualche anno in più.

Attualmente stai lavorando a qualcosa in particolare? Magari in vista di Natale o del nuovo anno?
Attualmente sto componendo dei brani per la prossima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e, al contempo, colonne sonore da sottoporre all’attenzione di un regista RAI (col quale vanto numerose collaborazioni) per una fiction televisiva in produzione. Ho sempre amato l’idea della connessione tra arti diverse e, rispetto alla prima fattispecie, il mio scopo è sempre stato quello di avvicinare il visitatore alle opere, provando a stimolare la sua sensibilità emotiva, la sua curiosità e la sua familiarità con la pittura, per consentire loro la massima predisposizione mentale alla visione delle opere. Riguardo al comporre musica per film/fiction, invece, la musica ha il potere immenso di influenzare il racconto, di sovvertire il messaggio visivo, di rivoluzionarlo. I due livelli, sonoro e visivo, diventato in tal senso un tutt’uno, una fuga bachiana in cui i temi e contro-temi si susseguono, si richiamano, si intrecciano e si completano a vicenda.

Preferisci esibirti come solista o con altri strumenti?
Sono due dimensione esistenziali/musicali completamente diverse ma che consentono, attraverso una sapiente miscela nell’arte pratica, di poter convivere con reciproco guadagno.

Ci sono altre passioni oltre alla musica?
Sono un grande appassionato di sport. Ho praticato calcio nella mia adolescenza (lasciato, poi, per far spazio agli studi musicali) e attualmente sono un grande appassionato di atletica. Compatibilmente con il mio fare musica, mi alleno per la mezza maratona. Ho sempre pensato che lo sport rappresenti un’importante metafora della vita e del fare arte. Per raggiungere risultati importanti, nell’atletica come nella vita, c’è bisogno di tanta umiltà quanto di coraggio: è importante saper apprendere dai propri errori, mettere a frutto le proprie capacità e allenare l’abilità di preservare, senza lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà. La corsa, inoltre, mi consente di stare solo con me stesso, mettendomi in contatto con l’io interlocutore e ascoltando cosa mi passa dentro: potrei definire l’esperienza del correre come un momento di introspezione. Nello sport, come nella musica, la sconfitta rappresenta un’esperienza ordinaria, tanto nei giochi individuali (metafora del pianoforte solistico), quanto negli sport di squadra (metafora delle performance in ensemble). Fallire, sbagliare o perdere sono elementi con in quali si deve imparare a convivere. L’importante è scoprire la nostra capacità di rispondere alle difficoltà, rialzandoci e riprovando con maggior vigore ed energia.

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