Giulia Bolatti è un’artista poliedrica, la cui carriera si intreccia profondamente con il mondo del teatro, del cinema e dell’insegnamento. Nata a Roma nel 1990, ha calcato il palcoscenico sin da giovanissima, affermandosi come attrice, regista e fondatrice della compagnia teatrale “Rakun Project”.
Oltre alla sua carriera artistica, Giulia ha sviluppato un metodo personale di insegnamento per gli attori, incentrato su consapevolezza corporea ed emotiva. In questa intervista, esploreremo il suo viaggio artistico, le sue passioni e la sua visione dell’arte drammatica.
a cura di Antonio Capua
Benvenuta Giulia, hai iniziato a recitare giovanissima. Cosa ricordi del tuo debutto a teatro a soli undici anni, e cosa ti ha spinto a continuare su questa strada?
È strano, perché anche se generalmente non ho una buona memoria, di quella prima esperienza ricordo tutto. In particolare, ricordo il momento esatto in cui ho messo piede sul palco per fare il primo ingresso. La sensazione delle luci sul viso e del pubblico in penombra mi accompagna ancora oggi, ventiquattro anni dopo. Appena lo spettacolo è finito sono andata da mia mamma e le ho detto: “Voglio fare questo per il resto della mia vita!”. Ne ero sicura e non ho mai avuto dubbi e da quel momento ho cercato di costruirmi le opportunità future. Non ho mai smesso di fare teatro, ho scelto il liceo classico perché pensavo mi avrebbe preparata adeguatamente e a maggio dell’anno della maturità ho fatto le prime audizioni. Ho affrontato la maturità sapendo di essere stata ammessa in accademia e a ottobre dello stesso anno ho iniziato il percorso di formazione.
Dopo anni di studi e collaborazioni con maestri di fama internazionale, come Flavio Albanese e Pierre Yves Massip, hai sviluppato un tuo metodo di insegnamento. Come descriveresti il tuo approccio personale alla recitazione?
È difficile riassumere in poche righe un metodo complesso e articolato, sviluppato nel corso degli anni e che attinge da influenze artistiche e non artistiche profondamente diverse tra loro. Se dovessi introdurre il mio metodo direi che è incentrato sulla consapevolezza scenica e attoriale. Vedo l’attore come un artista, con tutta la complessità che questo termine abbraccia. Con l’avvento dei social e con il progressivo decadimento culturale di cui siamo tutti vittima, si è perso il significato, artistico appunto, di questo mestiere.
L’attore è colui che intuisce, indaga, vive di curiosità e introspezione. Si conosce profondamente, abbraccia il proprio limite e ne fa una forza, elabora le complesse dinamiche emotive e umane e le restituisce al pubblico, innescando un sottile ma influente meccanismo salvifico così come solo l’arte è in grado di fare. Applico quindi un metodo rispettoso, pragmatico, onesto e divertente, che possa innanzitutto stimolare la persona dietro all’attore affinché la ricchezza umana possa poi riversarsi in scena in modo fluido e convincente.
Nel tuo metodo parli spesso di “corpo poetico” e “consapevolezza corporea”. Cosa intendi con questi concetti e quanto sono fondamentali per un attore?
Credo fermamente che qualsiasi attore raggiunga la qualità nelle sue interpretazioni quando comprende che la parola è solo l’ultima fase dell’interpretazione e probabilmente, quella meno importante. Ciò che conta oggi è l’apparenza, il giudizio esterno e il raggiungimento degli obiettivi. Questi meccanismi ansiogeni trasformano la recitazione in qualcosa di superficiale, retorico e soprattutto replicabile.
Ci si concentra solo sulla parola, sulla dizione, sulla voce, dimenticando tutto il resto. Invece è il corpo ad essere la vera essenza dell’interpretazione. Il corpo deve accogliere prima e far fluire poi, ciò che si innesca al suo interno e questo permette di usare la parola come mezzo di espressione delle emozioni. Quando si capisce questo meccanismo si abbandona la recitazione e si abbraccia l’interpretazione, comprendendo cioè il personaggio che si porta in scena e rendendolo complesso, sfumato e unico.
Hai fondato la tua compagnia teatrale, la “Rakun Project”. Quali sono le sfide e le gioie di gestire una compagnia e creare opere originali?
Credo che fondare una propria compagnia sia una delle soddisfazioni maggiori per un regista e per chi come me, segue il progetto artistico nella sua totalità. Creare un gruppo di lavoro sulla base della stessa sensibilità artistica vuol dire poter maturare il proprio linguaggio scenico e crescere artisticamente in modo libero e indipendente.
Nel 2023 sei tornata al cinema come protagonista in “Gli ospiti” di Svevo Moltrasio. Come differenzi la preparazione per un ruolo cinematografico rispetto ad uno teatrale?
Ritengo che la preparazione sia in assoluto la stessa. Un attore è un attore: palco o camera, non fa differenza. La costruzione di un personaggio, l’introspezione, il comparto emotivo, il corpo e tanti altri aspetti dell’interpretazione sono uguali sia in un caso che nell’altro.
Ciò che cambia invece è il mezzo di comunicazione e di conseguenza il tipo di proiezione recitativa. In questo caso ci sono delle vere e proprie differenziazioni tecniche sulla gestione della scena.
Il tuo primo spettacolo, “La Finestra”, lo hai scritto e diretto tu stessa. Quali sono state le ispirazioni dietro quella storia e cosa hai imparato da quella prima esperienza dietro le quinte?
La “prima volta” di qualcosa rappresenta sempre un punto fermo nella nostra crescita personale. Potrei dire molto su questo spettacolo, perché effettivamente mi ha insegnato cose preziose, anche banalmente dal punto di vista di gestione burocratica e organizzativa. Tuttavia, ritrovarmi alla regia di questo spettacolo ha segnato profondamente il mio percorso e gli anni a seguire.
La regia è sempre stata nelle mie corde, me lo dicevano anche in accademia, ma non avevo mai avuto l’occasione di assumere questo ruolo in modo professionale, totale e quando l’ho fatto è stato un vero e proprio colpo di fulmine. Ho capito di avere potenzialità inespresse, ho capito che tramite la regia potevo mettere mano a tutte quelle caratteristiche peculiari che non avevo mai avuto modo di lavorare e così ho fatto. “La finestra” è stato il mio ultimo spettacolo da attrice. La recitazione è qualcosa che non ti abbandona mai, se nasci con questo tipo di esigenza espressiva continui ad essere un attore per tutta la vita, ma sento che con la regia ho davvero trovato il mio posto e ho gettato solide basi per il lavoro di insegnate che attualmente svolgo.
Il tuo recente romanzo “Memorialistica” segna un ulteriore passo nel tuo percorso creativo. Cosa ti ha spinto a esplorare la scrittura narrativa e quale messaggio desideri trasmettere attraverso le tue parole?
Scrivo da quando ho memoria. Ho iniziato con le poesie e poi, a dieci anni, ho scritto il mio primo romanzo. Inutile dire che rileggerlo oggi mi fa sorridere. È corto, confuso e abbastanza retorico, ma per essere stato scritto in quinta elementare ha comunque i suoi punti di interesse.
Diciamo che “Memorialistica” è stato un romanzo estremamente simbolico per la mia vita. È nato come sono nati tutti i miei spettacoli: per esigenza. Avevo in mente questa storia e ho capito subito che avrebbe dato il meglio in forma di romanzo. Volevo fosse un lavoro intimo, senza quindi far subentrare attori, che giustamente con il loro corpo, la loro voce e la loro visione si impossessano dei personaggi che scrivi. Ciò che ha reso peculiare la scrittura di questo romanzo però è stato il fattore tempo. Per anni l’ho dimenticato in un cassetto, poi l’ho ripreso e riscritto più volte fino ad arrivare alla conclusione che probabilmente non sarei mai riuscita a finirlo.
È arrivato il covid, poi la gravidanza e quella storia non mi abbandonava. Nel 2024 sono finalmente riuscita a finirlo e già solo questo mi ha riempito di orgoglio. Sicuramente se lo avessi terminato anni fa, senza tutte quelle trasformazioni e riscritture, sarebbe stato ancora più potente, ma il riscontro che ho avuto dai lettori mi ha confermato che era una storia che valeva la pena scrivere e non posso che esserne soddisfatta e orgogliosa.
L’insegnamento fa parte della tua vita da anni. Cosa ti affascina nel lavorare con attori emergenti, e qual è la lezione più importante che cerchi di trasmettere loro?
Come dicevo in precedenza, ciò che mi preme trasmettere ai miei allievi è che questo è un lavoro artistico, che chiede e regala molto. È una carriera faticosa che si persegue per amore, passione ed esigenza e questo è ciò che voglio vedere dai miei ragazzi. Chiedo loro il gusto del lavoro, il divertimento, la libertà e la creatività, perché tramite l’interpretazione si può arrivare dove gli altri normalmente non arrivano. Seguire un allievo è un vero e proprio percorso di vita: entrano in studio confusi rispetto al valore di questo mestiere, contratti da giudizi ricevuti, impauriti delle proprie capacità. Ne escono potenti, consapevoli e liberi. Ho quindi la possibilità di veder crescere ed evolvere delle persone e degli artisti e penso non ci sia soddisfazione più grande.
Hai vinto premi prestigiosi per la regia di spettacoli come “Piano B” e “Coriolano”. Come ti approcci alla regia rispetto alla recitazione, e quale delle due discipline senti più vicina alla tua essenza?
Il mio insegnante diceva sempre che la recitazione è una vocazione. Se entra nella tua vita non puoi ignorare la chiamata e se lo fai, la tua vita rimane insoddisfacente. Sono nata attrice, mi sono formata con un percorso accademico per massimizzare il mio potenziale e quindi lo sarò per sempre. Come dicevo prima però, la regia è entrata nella mia vita in modo prepotente, pieno, ricco e mi permette di esprimere la mia essenza nella sua piena totalità. La cura, l’empatia, l’accoglimento, sono tutti aspetti della mia personalità e che mi appartengono da sempre. Quindi potrei dire che attraverso l’interpretazione nutro me stessa e attraverso la regia invece, mi dono agli altri e in questo senso penso che le due cose possano convivere serenamente.
Sono una regista che punta al riconoscimento dell’attore e delle sue potenzialità. Chiedo molto agli attori, chiedo di partecipare, di entrare pragmaticamente nel processo creativo e non sono uno di quei registi che monta movimenti e espressioni. Come dico sempre: “Se devo dirti come farlo, mi alzo e lo faccio da sola”. Credo fermamente che quello tra regista e attore sia un rapporto di fiducia. Il regista affida all’attore il personaggio, l’atmosfera e il messaggio e insieme si collabora per portare in scena la versione più significativa di quel testo.
Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici e personali? Come speri di evolvere ulteriormente come artista e come insegnante?
Mi manca la recitazione. Con il film “Gli Ospiti” ho risvegliato la me attrice. Ho risvegliato tutta una serie di consapevolezze e talenti che tramite l’insegnamento posso esprimere solo in parte. Vorrei quindi recitare in un nuovo film e spero che questo desiderio si avveri. In ballo c’è molto e proprio perché nasco attrice sono scaramantica e quindi… non mi sento di dire altro!
Grazie Giulia per il tempo che ci hai dedicato e complimenti per il tuo lavoro.
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