Il viaggio poetico di Guglielmo Aprile: tra ispirazione, temi profondi e nuove prospettive

Guglielmo Aprile, nato a Napoli nel 1978, è un poeta e saggista di grande sensibilità e profondità. Dopo aver vissuto a Verona, oggi risiede a Ischia, dove continua il suo percorso letterario. Autore di numerose raccolte di poesia, tra cui “Il dio che vaga col vento“, “L’assedio di Famagosta“, e la più recente “Tutto l’oro del mondo“, Aprile ha ottenuto importanti riconoscimenti, tra cui il premio Mangiaparole e il concorso Narrapoetando. Oltre alla poesia, ha collaborato con riviste letterarie per saggi su autori del calibro di D’Annunzio e Caproni. In questa intervista, esploriamo le sue ispirazioni, il suo rapporto con la poesia e i progetti futuri.

a cura di Antonio Capua


Guglielmo, la tua ultima opera, “Tutto l’oro del mondo”, rappresenta un altro tassello nel tuo percorso poetico. Cosa ha ispirato la scrittura di questo libro e cosa vuoi trasmettere al lettore?
Il seme di fuoco da cui è germogliato questo libro va individuato in una sorta di folgorazione estetica che ho ricevuto dall’immersione nel paesaggio mediterraneo; lunghe nuotate nelle acque delle baie tirrene, escursioni a piedi per sentieri di mirti e di ginestre, serate in spiaggia a seguire le evoluzioni di Sirio, di Canopo e delle costellazioni di luglio: questo il grembo di esperienze che ha partorito i miei versi e che mi ha indotto a innamorarmi dell’estate, stagione in cui rinvengo le reminiscenze di una arcaica divinità pagana, destinataria da parte mia di una venerazione che fonde afflati erotici e insieme mistici. Lo scopo della mia scrittura è restituire il mondo a un’immagine di splendore e di purezza, esplorare l’inesauribile ricchezza dell’esistenza, a cui il titolo della raccolta allude con il simbolismo aureo; celebrare la gioia di respirare, di sorprendere una analogia tra il battito delle vene e il pulsare del vento, delle onde, degli astri in pellegrinaggio attraverso gli spazi; fare naufragio, in estatico annientamento, nel percepire la varietà di suoni e colori della creazione nel suo infinito manifestarsi, al culmine di quello stato mentale che l’Induismo indicava col termine di samadhi.

Hai vissuto in diverse città, da Napoli a Verona, fino a Ischia. Come hanno influenzato queste esperienze il tuo modo di scrivere e il tuo approccio alla poesia?
L’influenza è stata irrilevante: io mentalmente non vivo negli stessi luoghi che il mio corpo è costretto ad occupare, ma su un piano ideale, non intaccato dal nero flutto delle contingenze biografiche: ogni frammento di spazio la mia interiorità custodisce e ricrea, per cui, come gli antichi druidi, posso in qualunque momento immaginare di trovarmi ora a Bisanzio e ora su una scogliera delle Orcadi, ora sulle rive di Santorini e ora ai piedi di una piramide di Tenochtitlàn, eludendo i lacci con cui le leggi fisiche tentano di imbrigliare la mia innata vocazione al volo onirico.

Nel corso della tua carriera hai vinto diversi premi letterari, tra cui il concorso Narrapoetando e il premio Mangiaparole. Cosa significano per te questi riconoscimenti e come hanno influenzato il tuo percorso creativo?
Sono stati riconoscimenti effimeri: vedere il proprio nome nell’albo d’oro di un premio non salva dalla certezza di essere dimenticati. Siamo non più che granelli mulinati da una macina di inutilità; ogni nostro gesto è trascinato via dalla corrente e inghiottito dalla bocca mai sazia della cancellazione. Del resto, una mia naturale predisposizione all’ironia mi protegge dall’attribuire al plauso altrui un valore che esso non ha. L’unico riconoscimento a cui io tenga mi viene dagli alberi e dal mare, quando sento di aver tradotto le loro voci nelle mie parole umane.

Le tue opere, come “Il sentiero del polline” e “Falò di carnevale”, esplorano temi profondi e complessi. Quali sono i temi ricorrenti che ami affrontare nella tua poesia e cosa ti spinge verso di essi?
Falò era il punto di arrivo di un percorso poetico incentrato su un tema su cui oggi non provo più l’esigenza di tornare: la frustrazione per una vita non vissuta quanto desideravo, l’amara sensazione di aver sciupato il meglio, di essermi perso le occasioni per cogliere una felicità di cui avevo un concetto molto fisico, legato al sesso; fu un’opera spesso fraintesa da alcuni che l’hanno recensita, che hanno preso alla lettera e non in senso simbolico le immagini di cui era intessuta, ricavandone l’interpretazione che la mia poesia avesse un presunto “intento civile”: cosa non veritiera e che ancora mi è fonte di una certa irritazione al solo pensarci. Dal Sentiero in poi, invece, ho preso le distanze dall’ego, aprendomi a una prospettiva cosmica, dalla quale le rivendicazioni individuali mi appaiono puerili catene di quell’attaccamento che, secondo un certo pensiero orientale, è causa di tutto il patire umano.

Hai scritto numerosi saggi sulla letteratura italiana, da D’Annunzio a Caproni. Come la tua attività di saggista ha arricchito il tuo lavoro poetico e viceversa?
Il proposito di dedicarmi a una poesia che fosse mia è stato successivo e consequenziale alla lettura degli autori che ho studiato, e di cui mi interessava carpire i segreti artigianali, le tecniche ritmiche e retoriche con cui rendere armonioso il suono di un verso; un’attrazione non del tutto disinteressata, quindi: la saggistica è stata una scorciatoia per intrufolarmi nel laboratorio dei maestri. Ma erano lavori condotti con passione, forse anche deboli sul piano scientifico, molto lontani da quell’arida pedanteria erudita indispensabile per ottenere cattedre accademiche; tuttavia, se non mi ci fossi impegnato, non avrei saputo come convogliare in una forma personale il magma ribollente della mia emotività. L’amore per la poesia sbocciò quando ero ragazzo, ma per ragioni extra-letterarie: volevo somigliare a Baudelaire, vivere alla sua maniera: imitavo le sue pose, lo citavo, spesso a sproposito, e mi vantavo di ricalcare le sue orme verso la perdizione; fu in un secondo momento, quando mi liberai di questi ingenui manierismi decadenti, che iniziai a concentrarmi sui testi: e non più per farmi una maschera, ma per far emergere il mio vero volto al di sotto della stessa.

Il titolo della tua raccolta “Thanatophobia” allude alla paura della morte. Come affronti questo tema nella tua poesia e come pensi che la letteratura possa aiutarci a riflettere su questioni esistenziali?
Non riuscendo a credere, ho per la morte un orrore fisico; sono antiepicureo, non ce la faccio proprio ad accettare il mio prossimo non essere più: è un’ombra che mi segue di soppiatto ovunque, e che devo rimuovere per non impazzire; è così assurdo: essere venuti all’esistenza al fine di non esistere più: come si fa a non trovare una totale mancanza di senso nella creazione, se si riflette su questo? Il nichilismo che impregna le mie opere precedenti nasce dall’angoscia di un fuggitivo che non sa dove rifugiarsi da una condanna che lo incalza, e che egli vede ribadita dal cielo, dai sassi, dal riflesso del proprio volto in una pozzanghera. Angoscia che in passato mi inabissò nella malattia psichica; e forse, una qualche spiegazione all’innalzamento di tono riscontrabile nella mia poesia più recente va cercata nell’uso del farmaco antidepressivo, che estrae dalle corde del mio umore note di barbarica esaltazione.

Nel tuo percorso, hai esplorato forme e stili diversi. Come descriveresti l’evoluzione del tuo linguaggio poetico dalle prime opere, come “Il dio che vaga col vento”, fino a oggi?
Molti autori, invecchiando, tendono all’essenzialità; io, al contrario, quasi per dispetto a quanti mi rimproverano una incontrollata opulenza formale, ho di proposito accentuato i miei difetti di stile, che io considero invece tratti espressivi distintivi della mia scrittura: non posso annullare ciò che sono per uniformarmi a un codice massificato, che al giorno d’oggi rende tutti uguali e pressoché indistinguibili fra loro i facitori di versi. Amo, senza vergognarmene, la forma piena e tornita, la parola ricca, sonante, che mi dia voluttà nel pronunciarla; prediligo il canto che inonda, che sommerge la materia in un flusso melodico e cromatico; voglio che anche il mio stile si adegui al turgore, allo sfarzo, alla procacità con cui al mio sguardo si mostrano i profili delle coste e delle valli, come curve di un gigantesco corpo femminile disteso in attesa di essere posseduto; e ciò è ancora più esasperato nelle ultime raccolte, che anche sul piano tematico si riallacciano a Il dio, lavoro di ormai quindici anni fa.

Hai collaborato con diverse riviste letterarie trattando anche la poesia del Novecento. Quali poeti del secolo scorso senti più vicini al tuo stile o alla tua visione della poesia?
Gli autori che ho preso a modello sono cambiati secondo le diverse fasi attraversate dalla mia scrittura. Da alcuni anni, guardo non più ai viventi, ma ad Ovidio, per la ricettività con cui coglieva il palpitare del mito dietro il sonno di alberi e rocce; a Lucrezio, per il respiro epico che sapeva dare alla raffigurazione degli elementi in tumulto; a Empedocle e Anassimandro, che dalla contemplazione delle acque della Jonia traevano cosmogonie e visioni di sapienza universale; tra i moderni, ad Holderlin, per l’idea che la tragedia del moderno derivi dalla perdita di contatto con gli Dei; a Keats, per la nostalgia di un prima del tempo in cui tra uomo e natura non c’erano diaframmi divisori; a Lawrence, per il suo empatico mimetismo con il sentire di ogni creatura vivente; a Thomas, per la tenebrosa energia di un verbo che conserva e dispiega sulla pagina una scintilla sprigionata dalle fucine della genesi; e ancora a Esenin, Garcia Lorca, Yeats; non mi ritrovo negli autori italiani di oggi, soprattutto quando parlano di natura: mi suonano convenzionali e melensi, mentre mi sento più vicino alla lirica latinoamericana del ‘900.

La poesia, oggi, sembra avere meno visibilità rispetto ad altri generi letterari. Cosa pensi sia necessario fare per avvicinare più persone alla lettura e all’apprezzamento della poesia contemporanea?
Ma i poeti che oggi vanno per la maggiore hanno quasi tutti un impiego nelle università: di cosa si lamentano? Gli onori non mancano loro, visto che il collante della comunità di cui fanno parte è lo stucchevole profondersi in reciproci attestati di stima; se il loro rammarico è la mancanza di popolarità, forse farebbero meglio a cimentarsi in attività che assicurino al pubblico un intrattenimento meno ammorbante dei loro sibillini gorgheggi metrici, nella maggioranza dei casi dei simulacri verbali usati per nascondere la nullità di anime incapaci di adorare il sole e di danzare nella tempesta.

Guardando al futuro, quali nuovi progetti stai esplorando? Ci sono temi o forme nuove che vorresti sviluppare nelle tue prossime opere?
Io voglio nulla di più o di meno che mettermi sulla scia di Eraclito: vedere nella natura i cenni con cui un qualche dio si nasconde e al contempo si rivela; e accordare la mia voce a quella che di continuo mi parla nel tuono e nelle mareggiate, nel ruotare delle galassie e nell’aprirsi di un fiore.

Per saperne di più:
Facebook | Amazon

Richiedi un’intervista esclusiva, una recensione del tuo libro o raccontaci la tua storia! Contattaci qui per iniziare!

Copy link