Cecilia Lavatore, nata a Roma nel 1990, è una scrittrice e docente di Lettere in un Istituto Professionale Alberghiero. Collabora con “Il Messaggero” come editorialista, affrontando temi di cultura, spettacolo, società, violenza di genere, diritti dei lavoratori e generazioni a confronto. Autrice di romanzi e raccolte di racconti, tra cui “Citofonare Morabito, le voci di Corviale” e “Mia sorella è figlia unica”, Cecilia esplora le storie di lotte sociali e personali con una sensibilità unica. La sua passione per la scrittura e il teatro la porta a interpretare i suoi testi in eventi e festival, facendo emergere voci spesso dimenticate dalla società. Finalista alle nazionali italiane di Poetry Slam, continua a distinguersi come una delle figure più interessanti nel panorama letterario e teatrale italiano. In questa intervista, approfondiremo il suo percorso artistico, le sfide affrontate e le sue visioni per il futuro della letteratura e del teatro.
Su Che Intervista conosciamo meglio Cecilia Lavatore, scrittrice e docente…
Benvenuta Cecilia, come ha scoperto il suo interesse per la scrittura e quali sono stati i momenti chiave che hanno definito il suo percorso come autrice?
Ho scoperto il mio interesse, direi amore, per la scrittura grazie ai miei genitori che mi hanno abituata alla lettura. Sono cresciuta in una casa piena di libri, riviste e giornali. È stato naturale per me iniziare a scrivere. Anche la mia maestra delle elementari è stata importante. Mi ha sottovalutata per anni, era molto dura con me e ricordo questa sensazione di non piacerle. Poi un giorno della quinta elementare, di fronte ad un tema che scrissi su mia madre, restò senza parole. Non scorderò mai quell’espressione di stupore. Mi disse che dovevo assolutamente coltivare quel talento.
Ero solo una bambina ma capii che con la scrittura nella vita mi sarei potuta riscattare dai pregiudizi.
La professoressa Maria Grazia Guida del Liceo Cannizzaro è stata poi chiave nell’alimentare questa inclinazione. Abbiamo tutt’ora un rapporto di vicinanza, direi spirituale. In parte scrivo per continuare a non deluderla, per continuare ad incantarla. La penso spessissimo.
Al terzo anno di Liceo vinsi un concorso del Rotary Club a cui la mia scuola partecipava, alla premiazione fui invitata a leggere il mio monologo, era sullo stato d’animo di un atleta durante una gara. Ricordo questi volti adulti basiti, allibiti (credo che non ci si aspetti da me quello che poi dimostro). E poi ricordo l’applauso fortissimo. Quell’applauso mi fece fare una promessa a me stessa: non mi sarei mai dimenticata cosa potevo fare con le parole. Poi in realtà per molti anni l’ho dimenticato…fino alle voci di Corviale.
“Citofonare Morabito, le voci di Corviale” è stato scritto in soli tre mesi. Qual è stato il processo creativo dietro questo romanzo e come ha gestito la rapidità della scrittura?
È stato un processo direi febbrile e precipitoso, ma anche super divertente. Non volevo che mi sfuggissero quelle suggestioni, non volevo dimenticare gli occhi, i gesti, le armosfere.
I miei personaggi sono tutti ispirati a persone realmente esistenti che ho incontrato non solo a Corviale, ma anche nelle altre periferie europee e statunitensi che ho esplorato nei miei viaggi. Come tutti i miei libri, è stato scritto sulle note del mio telefono cellulare e in modo direi rocambolesco: accostata con la macchina ai lati delle strade, alle fermate degli autobus, nelle corsie del supermercato, nelle sale d’attesa, nel bagno della scuola dove insegnavo.
Per me l’arte è sempre qualcosa che irrompe nella mia quotidianità, è sempre una sorpresa alla quale obbedire, una priorità prepotente e invasiva.
Le “voci” di Corviale mi risuonavano dentro ed io gli davo una forma. Oggi se rileggo quel libro (cosa che non amo fare) lo trovo un lavoro estremamente acerbo, immaturo. Però credo che continui a piacere perché dentro c’è questa sorta di esplosione disperata di vitalità. È la rivincita, dei miei personaggi e un po’ anche la mia che iniziava…
Nei suoi lavori, lei racconta testimonianze di vite coraggiose e lotte contro le ingiustizie sociali. Qual è la storia che l’ha colpita di più e perché?
Direi la storia di Yusra Mardini e di sua sorella Sarah, le altlete siriane che hanno attraversato parte del Mediterraneo a nuoto per scappare dalla guerra, riuscendo a salvare altri venti migranti.
È stato il primo monologo di impegno sociale che ho scritto. Ma non l’ho scritto per l’impegno sociale in sé, ossia, non mi definisco un’attivista in senso stretto. L’ho scritto per la carica di ostinazione che ho sentito dentro questa vicenda, per la rabbia di queste due donne inarrendevoli di fronte alla mala sorte. Era una storia stupenda.
All’epoca non la conosceva quasi nessuno, non era ancora uscito il film, Yusra non era ancora una testimonial e Sarah non era ancora stata arrestata. Lessi un trafiletto sul giornale e pensai: “è lei la poesia”.
La sua collaborazione con “Il Messaggero” le permette di trattare temi di cultura, spettacolo e società. Come riesce a bilanciare il suo impegno giornalistico con quello letterario?
Con fatica, c’è tanto lavoro, tanto sacrificio. Per me la scrittura è croce e delizia. Trascorro ore tremende, tesissime, per riuscire a conciliare le mie diverse attività e i diversi ruoli che ricopro, è molto stressante, usurante, ma ne vale sempre la pena. Mi aiuta soprattutto la meditazione, mi riporta alla base delle mie giornate, al senso.
Il beneficio sicuramente è che il giornalismo alimenta la mia scrittura creativa: quasi sempre le storie che scrivo sono notizie di attualità alle quali voglio dare un twist diverso. Notizie che scelgo di approfondire con uno scavo umano e poetico.
Al tempo stesso la sensibilità che uso per la narrativa la provo a portare dentro gli articoli giornalistici, dove possibile. Ed è un valore aggiunto, una fascinazione in più credo.
Nel suo ultimo libro, “Mia sorella è figlia unica”, esplora storie di lotte al femminile. Quali messaggi spera che i lettori traggano da queste storie?
Questa è una domanda difficile perché non penso mai a quali messaggi potrebbero arrivare ai lettori. Sono storie vere e io le rielaboro. Dopodiché spero che la gente le senta tanto forte quanto le sento io. Ogni volta che interpreto Yusra Mardini o Mahsa Amini o Lea Garofalo, ad esempio, mi commuovo. Non penso al messaggio, mi commuovo e basta, perché l’arte non cambia il mondo ma può raccontarlo. E in questo racconto c’è la vita che sopravvive alla morte. C’è il bene che può essere più potente del male.
La sua esperienza come docente in un Istituto Professionale Alberghiero ha influenzato la sua scrittura? In che modo l’insegnamento arricchisce il suo lavoro di scrittrice?
Ha influenzato tutto il mio carattere, non solo la scrittura. Insegnare in una scuola come quella dove insegno io è qualcosa che mi ha scaraventata a terra, nella realtà. Io opero ogni giorno sul nervo scoperto del sistema. Non sarò mai più quella che ero prima di entrare di ruolo lì.
Ho perso tanta ingenuità, tante buone maniere, e anche tanti chili (ahaha) ma ho guadagnato in profondità e “leggerezza”. I miei studenti mi insegnano a vivere un giorno alla volta, senza fare drammi inutili, e a mi insegnano a guardare più lontano, oltre le piccole sconfitte quotidiane. E soprattutto con una dose di umanità e cuore che non conoscevo prima di loro.
Ho perso tanta ingenuità, tante buone maniere, e anche tanti chili (ahaha) ma ho guadagnato in profondità e “leggerezza”. I miei studenti mi insegnano a vivere un giorno alla volta, senza farne drammi, e a guardare più lontano, oltre le piccole sconfitte quotidiane. E soprattutto con una dose di umanità e cuore che non conoscevo prima di loro.
Il teatro civile e il teatro narrazione sono tra le sue principali influenze. Come ha integrato questi elementi nei suoi spettacoli e quali sfide ha incontrato?
Diciamo che quello che provo a fare è teatro narrazione, anche perché altro non so farne. Non sono un’attrice accademica, sono una perfomer e un’autrice. Forse pure “una pirata” agli occhi dei professionisti del settore… ma che dire, io vado avanti per tentativi.
Quello che funziona lo tengo. E me ne accorgo perché la gente ride, piange, è dalla mia parte, dalla parte dei miei personaggi.
Quello che non funziona, invece lo cambio e amen. Se in scena faccio un esperimento e non sento il calore che voglio, l’esperimento non ha funzionato. Stop. Me ne faccio una ragione.
Ho tolto dai miei spettacoli monologhi ai quali tenevo molto e valorizzato altri che non credevo sarebbero stati vincenti, ma il pubblico è sovrano.
Le sfide sono sempre innanzitutto con me stessa, con i giudizi severi che io mi do.
Il suo spettacolo teatrale “Libera” è stato un successo. Può raccontarci di più su questa esperienza e su come è nata la collaborazione con la cantautrice Marta La Noce e il regista Marco Zordan?
La Noce l’ho conosciuta in una serata a San Lorenzo un anno e mezzo fa. Eravamo entrambe nella line up di un localaccio, veramente la prima linea della gavetta… sapevo chi era, l’avevo già ascoltata cantare altrove e già mi ero innamorata della sua voce, c’è dentro una grinta ruggente. La Noce ruggisce quando canta, ha una carica pazzesca.
Non la conoscevo ancora di persona, però mi sono fatta coraggio e le ho chiesto di salire con me sul palco. Così abbiamo fatto click.
È stato l’inizio della nostra collaborazione, oggi ormai consolidata e soprattutto supportata dal nostro manager e produttore, Matteo Gabbianelli dei kuTso che ci accompagna nel percorso artistico.
A settembre uscirà il primo singolo del suo album registrato e prodotto nel suo studio, è intitolato “Libera” come lo spettacolo, ed io ho un featuring all’interno.
Marco Zordan invece è il regista che per primo ci ha aiutate a trovare una quadra tra la produzione di La Noce e la mia. Ed è stato anche il primo ad aprirci le porte di un teatro. Oggi ancora resta un punto di riferimento importante per noi.
È bello che il progetto sia al femminile ma includa anche un dialogo sano con la “controparte” maschile.
“Libera” è ancora in tour e ne siamo felicissime, grazie per averlo definito successo…non so se lo sia, sicuramente è una proposta che sta piacendo, oltre le nostre aspettative.
Lei è stata finalista alle nazionali italiane di Poetry Slam. Qual è il significato di questa competizione per lei e come ha contribuito al suo sviluppo artistico?
La Slam Poetry è molto stimolante per me, mi accende dei canali emotivi, mi fa sentire il contatto diretto con la platea, è un termometro dell’efficacia o meno delle mie perfomance. Mi piace lo scambio che c’è con gli altri poet*, questa contaminazione che abbiamo tra noi. La Slam è ad oggi un vero e proprio movimento, tra l’altro in crescita. Sono finalista regionale anche quest’anno, a settembre a Milano all’Arcibellezza si disputeranno le gare della Lips (Lega Italiana Poetry Slam). Non vedo l’ora di essere lì.
Ci tengo a dire che i voti e la competizione sono solo un pretesto, in questo caso non si fa per dire… è davvero solo un modo per catalizzare l’attenzione e continuare a portare in giro in ogni dove i nostri versi con energia ed entusiasmo.
La scrittura per lei è un’urgenza e un atto sacro. Come vede il ruolo della letteratura nella società contemporanea e quali speranze nutre per il futuro della scrittura e della lettura?
La sacralità dell’atto creativo ha un ruolo centrale nella società, rigenera le comunità, le riunisce. Scombina e ricompone i frammenti, rimescola le carte. Dissemina sgomento e lo sgomento fa finalmente giustizia. Un po’ come la messa in scena di Amleto per inchiodare la madre e lo zio. La finzione è più reale della realtà quando sa interpretarla.
È la ricerca della bellezza che ci salva dalla banalità del male. Gli ultimi, gli emarginati, i dimenticati non sempre si salvano con l’arte, quasi mai… ma l’arte si salva con l’urgenza dell’umanità di riemergere dall’ombra, non a caso le produzioni più belle vengono ancora dai bordi dimenticati delle nostre città, dalle periferie delle nostre esistenze collettive.
Grazie per queste domande bellissime.
Un saluto ed un ringraziamento a te Cecilia per il tempo che ci hai dedicato.
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