Elsa Zambonini, originaria di Belluno, ha passione per la scrittura che è cresciuta parallelamente alla sua attività didattica, portandola a esplorare temi legati alla sua terra e alle sue esperienze personali.
Il trasferimento a Istanbul ha segnato una svolta nella sua vita, permettendole di insegnare al Liceo Italiano e di immergersi nella cultura turco-levantina. Questa affascinante città, con la sua ricca storia intrecciata a quella di Venezia, ha ispirato la quadrilogia “Lo stivale d’oro di Istanbul”. Elsa, amante dei viaggi culturali ed esotici, continua a esplorare nuovi orizzonti attraverso i suoi romanzi e le sue collaborazioni con “La Gazzetta di Istanbul”. Attualmente risiede a Istanbul, dove tiene regolari conversazioni di lingua e cultura italiana presso il Circolo Roma, la più antica associazione culturale italiana in Turchia.
Su Che! Intervista ospitiamo Elsa Zambonini, conosciamola meglio…
Benvenuta Elsa, ci racconti della tua infanzia a Belluno e di come la tua esperienza educativa e professionale in Italia abbia influenzato il tuo percorso di scrittrice?
Sono nata e ho vissuto a Belluno fino al matrimonio, frequentando lo IULM di Feltre. Prima dell’insegnamento ho avuto anche una parentesi impiegatizia, avendo lavorato sette anni all’INPS. Di quel periodo conservo un ricordo costrittivo, e in genere quando descrivo degli impiegati come personaggi, sono persone tristi, legate, a volte anche negative. L’insegnamento mi piaceva decisamente di più anche se mi costringeva ad allontanarmi, mentre l’ufficio era vicinissimo a casa.
Belluno è circondata di rilievi, che ho visitato da giovane con frequenti gite a piedi, anche se non sono mai arrivata all’arrampicata. Dopo il terzo libro qualche riferimento alla montagna è stato d’obbligo.
Hai trascorso molti anni insegnando lingua inglese nelle scuole statali della provincia di Belluno. Come ha influenzato questa esperienza il tuo approccio alla scrittura e alla narrazione?
Per l’insegnamento i primi anni ho macinato molta strada. In uno in particolare avevo una cattedra formata da tre giorni a Pieve di Cadore (45 Km da Belluno) due ad Agordo (30 Km dall’altra parte) e uno a Sospirolo a 15. La cosa sarebbe stata fattibile, se non che quell’anno ci furono delle nevicate terribili con frane e morti sia nel Cadore che nell’Agordino. In particolare per raggiungere Pieve dovevo passare per la Cavalera una strada tutta curve e tornanti che adesso non c’è più. All’inizio, dalle due parti, c’era un’indicazione che recitava che la strada era ufficialmente chiusa e che tu la percorrevi a tuo rischio e pericolo. Molte volte ho trovato nel percorso delle piccole frane, che per fortuna erano cadute prima del mio passaggio. Ogni volta, quando arrivavo nei pressi di Longarone a pericolo superato, tiravo un grosso sospiro. Tutta la quadrilogia “Lo stivale d’oro di Istanbul” si svolge in una scuola, in quel caso il Liceo Italiano dove ho effettivamente insegnato. Ma anche qualche alunno dell’esperienza italiana ha ispirato i miei racconti.
Longarone e il Vajont sono luoghi significativi nel tuo romanzo “Acque del Bosforo Acque del Piave”. Qual è il legame personale che ti ha spinto a scrivere di questi luoghi?
Quel romanzo in particolare è dedicato alla memoria di Maria Antonietta Manarini, mia insegnante di lettere del triennio delle medie e di Marina Pontone, mia triennale compagna di scuola nella stessa classe, morte entrambe nella tragedia del Vajont. Fu una disgrazia che sconvolse tutta la provincia. Molte delle vittime si arenarono nella zona del Piave a sud di Belluno e furono messe in fila per il riconoscimento nel cimitero urbano. Fra le molte scuole nelle quali ho insegnato figurano anche le medie di Longarone, costruite in seguito vicino al fiume, e lì mi era stata assegnata la prima cattedra a tempo pieno. Nel frattempo però mi ero sposata con un cittadino turco, e ero incinta del mio primo figlio, passando all’insegnamento a Istanbul e in quella cattedra ci sono andata un solo giorno prima di entrare in maternità.
Dopo il trasferimento a Istanbul, hai continuato la tua attività didattica al Liceo Italiano. Come è nata l’idea della quadrilogia “Lo stivale d’oro di Istanbul” e quale parte di questa esperienza ti ha maggiormente ispirato?
Avevo un’amica, ora anziana, che era stata guida turistica del Consolato Italiano e aveva accompagnato personaggi piuttosto famosi in visita alla città. Innanzitutto Scalfaro in visita ufficiale, Andreotti quando era stato ministro degli esteri, e poi D’Alema, Fassino, Tronchetti Provera e consorte, Bruno Vespa, Enrico Montesano, Jerry Scotti e altri. Lei continuava a dirmi: se mettessi insieme tutti i miei ricordi dovrei scrivere un libro. Lo ripeteva, lo ripeteva e alla fine dissi: “e allora scriviamolo questo libro.” Purtroppo si mostrò poi poco collaborativa e di ricordi ne uscirono ben pochi. In compenso io avevo messo su una sceneggiatura che avrebbe dovuto far da cornice ai suoi racconti. Alla fine i racconti sparirono e la cornice divenne il libro vero e proprio. Comunque la mia amica divenne una dei personaggi principali del romanzo e la protagonista, un’insegnante del Liceo, aveva molto di me, anche se la sua storia è completamente diversa dalla mia.
Istanbul e Venezia sono due città con una ricca storia comune. Come riesci a intrecciare queste due realtà nei tuoi romanzi e quali aspetti di entrambe le città trovi più affascinanti?
In effetti non sono intrecciate. Nella quadrilogia di Istanbul compaiono Belluno e Treviso, oltre ad altre città straniere. A Venezia mi sono dedicata con La ragazza perduta… Ora sto scrivendo il seguito.
Sei un’appassionata di viaggi culturali ed esotici. Puoi raccontarci qualche aneddoto o esperienza di viaggio che ha avuto un impatto significativo sulla tua scrittura?
E chi può dire: questo ha influenzato questa parte di me e quest’altro un’altra? Siamo fatti di esperienze, di impressioni e di ricordi che si infiltrano in quello che scriviamo senza darcene notizia.
Posso dire di essere stata colpita dalla correttezza e gentilezza vera dei Giapponesi, mentre ho creduto molto meno a quella affettata dei Thailandesi. Sono stata sconvolta dalla visita a Hiroshima e da quella al Yad Vashem di Gerusalemme, come lo ero stata a Dachau. Ho visto bruciare i morti nelle pire lungo il Gange a Varanasi e ho visto dei santoni pelle e ossa vestiti solo di uno straccio sui genitali. Ho visto in Messico delle popolazioni di cultura precolombiana che parlano ancora la lingua Maya dopo aver visitato i loro siti archeologici. Ho visto i gorilla in cattività in Malesia, e le ragazzine cinesi di un metro e cinquanta che in piazza Tienanmen insistevano per fare le foto coi mei figli (uno e novantacinque). Ho visto le coppie ballare per strada nell’allegra Shanghai e danzare squisitamente il tango, sempre per strada, nell’elegante Buenos Aires. Ho visto delle donne festeggiare poveramente l’8 marzo a Asuncion (Paraguay) e molti altri dichiarare fieramente le loro ascendenze italiane in Uruguay. Ho sentito il battito ritmico dei becchi di centinaia e centinaia di cicogne riunite tutte insieme in febbraio, in un sito presso Rabat. Ho visto il carnevale a Rio, e una favela a San Paolo. Sono passata nella stessa giornata e con gli stessi vestiti, dai trenta gradi di Las Vegas agli zero (con neve) del Bryce Canyon (Utah), passando poi nella Death Valley. Sono stata su un aereo, il Bangkok- Istanbul, viaggiando con un motore in fiamme, per cui siamo tornati indietro e siamo stati fatti incredibilmente scendere dopo mezz’ora di attesa, mentre i pompieri cercavano di spegnere l’incendio sotto i nostri piedi. Ho visto le piantagioni di riso in Cina, di tabacco a Vinales di Cuba, di canna da zucchero a Trinidad e la città di Santa Clara con tutto il mausoleo dedicato al Che. Ho visto l’incantevole Halong Bay in Vietnam, e ho navigato sul Mekong che mi ha portato in Cambogia, dove ho visitato le prigioni del terribile Pol Pot, ma anche il meraviglioso sito archeologico di Angkor. Sono stata ad Haiti, ma solo in zona protetta dalle compagnie di crociera, perché troppo pericoloso uscirne, e in Siria e in Libano in tempo di pace, con il muezzin islamico e le campane cristiane che erano contemporaneamente in azione. Ho visto un tempio a metà moschea e a metà sinagoga, con al centro il monumento funerario di Abramo, sacro a entrambe le religioni, a Hebron in Cisgiordania. Ho visitato un kibbutz. Ho fatto delle foto con le donne-giraffa dai colli allungati da innumerevoli cerchi di metallo sul lago Inle in Myanmar, accecata dalla vista di infinite pagode. Purtroppo il paese è precipitato ora nelle spire di una terribile giunta militare. Io continuo a seguire su FB, quando è possibile, le vicende del nostro autista, un delizioso ragazzo che si cambiava la gonna ogni giorno, che viveva di turismo, e che ora è in serie difficoltà.
Al Circolo Roma di Istanbul, tieni conversazioni di lingua e cultura italiana. Come queste attività contribuiscono alla tua crescita personale e professionale come scrittrice?
Benché io viva in Turchia da molti anni, e anzi recentemente abbia perfino preso la nazionalità, ho ancora qualche difficoltà con la lingua e in genere seguo la vita politica e la cultura italiana attraverso la TV molto più di quanto non faccia per quelle locali. I miei alunni, la maggioranza di seconda e terza età, mi tengono ancorati agli avvenimenti e ad aspetti particolari della storia, degli usi e costumi turchi, che altrimenti mi sfuggirebbero.
Hai collaborato con “La Gazzetta di Istanbul” scrivendo racconti di viaggio. Come questa esperienza ha arricchito la tua carriera letteraria e quali sono le sfide di scrivere per un periodico rispetto a un romanzo?
Essendo i miei dei racconti, non ho dovuto preoccuparmi eccessivamente del taglio giornalistico e ho potuto puntare sull’aneddotica. Al massimo ho cercato di segnalare gli inconvenienti da evitare in certi luoghi e le cose migliori da gustare e da vedere in altri.
La tua quadrilogia esplora diversi temi legati alla cultura turco-levantina. Quali aspetti di questa cultura ti affascinano di più e come li integri nelle tue storie?
Nella quadrilogia dello Stivale (Nella copertina del primo la forma dell’Italia è a bagno nel Bosforo) sono presenti tre tipi di personaggi: gli italiani, i turchi e i levantini. Molti di loro, presenti qui da generazioni, non hanno mai visto la località italiana da cui sono venuti i loro avi. In genere si sposano fra loro o con levantini francesi, parlano un italiano un po’ adattato, ma anche francese e greco. Mantengono ostinatamente religione e tradizioni italiane. Molti non hanno mai voluto prendere la nazionalità turca, benché questo comporti degli svantaggi pratici. Un mio amico nato qui, che ora non c’è più, parlava un meraviglioso italiano tanto da permettersi di correggere la prima bozza dello Stivale. Ebbene, la sua famiglia che era qui da generazioni, non proveniva nemmeno dall’Italia, ma dalla colonia italiana di Kotor, in Montenegro e aveva un cognome che finiva in “inovich” che l’italianità non la faceva nemmeno sospettare.
Guardando al futuro, quali sono i tuoi prossimi progetti letterari? Possiamo aspettarci nuovi romanzi, magari ambientati in altre città o esplorando nuovi temi?
Io mi affeziono ai miei personaggi. Ho scritto una quadrilogia in cui, benché in ogni romanzo ci siano delle new entry, i personaggi principali sono fissi. Sto scrivendo il sequel di La ragazza perduta a Venezia. Per il futuro mai dire mai.
Grazie Elsa per averci dedicato un pò del tuo tempo e complimenti per la tua carriera artistica e professionale. Continua a seguirci su Che! Intervista.
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