Enzo Infantino, scrittore e figura di spicco nel panorama del volontariato e della difesa dei diritti umani

Enzo Infantino, originario di Palmi (RC), è una figura di spicco nel panorama del volontariato e della difesa dei diritti umani. Già Presidente della Fondazione “È Stato Il Vento” e referente per la Calabria della Rete delle Comunità Solidali e della Onlus ResQ People Saving People, ha dedicato gran parte della sua vita a missioni umanitarie all’estero, in particolare nei Balcani e in Medio Oriente. Infantino è noto per il suo impegno a favore dei rifugiati, avendo lavorato instancabilmente nei campi profughi e promosso numerose iniziative di solidarietà. Autore del libro “Kaijn e la tenda sotto la luna”, ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il suo lavoro, tra cui il “Premio Gens Aurea” e il “Premio Prato Città Aperta”. In questa intervista, esploriamo le esperienze, le sfide e le motivazioni che hanno guidato il suo percorso di vita.

Su Che Intervista! ospitiamo Enzo Infantino, conosciamolo meglio…

a cura di Antonio Capua


Benvenuto Enzo, come è iniziato il suo impegno nel campo dei diritti umani e delle missioni umanitarie?
Il mio impegno nel campo dei diritti umani è iniziato ai tempi della scuola superiore. Mi interessavano molto le lotte di alcuni popoli che rivendicavano il diritto alla esistenza e alla autodeterminazione. L’episodio che ha rappresentato l’inizio del mio percorso di attivista è legato ad una strage che avvenne in Libano alle porte di Beirut nei campi profughi di Sabra & Chatila. Nei giorni 16 e 18 settembre del 1982 le milizie falangiste con l’appoggio dell’esercito israeliano, che all’epoca occupava anche Beirut, ammazzarono più di tremila tra donne bambini e anziani inermi. Erano Palestinesi. Dal 2002 mi reco in Libano con l’Associazione di cui faccio parte per portare solidarietà a quel popolo e per chiedere giustizia per i martiri di quel massacro. Torneremo ancora nei prossimi giorni guerra permettendo.

Può raccontarci l’esperienza più significativa che ha vissuto durante la sua attività di sostegno ai rifugiati nei Balcani nel 1999?
Quella fu la mia prima esperienza in un campo profughi. Partecipai come volontario nell’ambito della missione arcobaleno. Allestimmo le tende per accogliere i profughi in un vecchio aeroporto militare di Valona in Albania. La missione calabrese si distinse per capacità organizzativa e soprattutto per umanità Di quella missione tra le tante storie incontrate ricordo quella del  bambino salvato da morte certa a causa di una grave infezione. Ci fu segnalato che nell’ospedale di Valona era ricoverato un bambino in pericolo di vita. Chiesi al capo missione di poter intervenire consapevole del pericolo a cui potevamo andare incontro, in quella fase storica Valona era nelle mani di bande criminali, organizzai la missione con i medici uscimmo dal campo con me alla guida della jeep. Arrivati in ospedale trovammo la stanza in cui era ricoverato il bambino. Di fronte a noi una immagine di grande sofferenza. I Genitori intorno al letto quasi rassegnati della fine del loro figlio che si presentava con un volto completamente deformato dalla infezione. Portammo il bambino nella infermeria del campo e dopo una settimana grazie alle cure da parte dei sanitari calabresi era fuori pericolo.

Quali sono le principali difficoltà che ha riscontrato nel lavorare nei campi profughi palestinesi e come ha cercato di affrontarle?
Bisogna andarci per capire fino in fondo in che condizioni sono costretti a vivere nei campi profughi i palestinesi. In più di 20 anni ho visitato quasi tutti i campi ubicati in alcuni paesi del Medio Oriente. Libano, Siria, Cisgiordania, Striscia di Gaza. Sono luoghi in cui la parola speranza non esiste. Le difficoltà non sono legate al nostro impegno ma alla mancanza per i residenti di quasi tutti i servizi a cui noi occidentali siamo abituati. All’interno dei campi operano delle ONG che assieme all’UNRWA (Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) provano a garantire alcuni servizi essenziali, come quello scolastico e sanitario. La nostra presenza in questi anni è servita per supportare alcune ONG come quella che opera in Libano la Beit Atfal Assumoud

Ci può parlare della “Gaza freedom march” del 2009-2010 e del suo significato per la causa palestinese?
La Gaza freedom march è stata la più grande manifestazione internazionale in territorio egiziano l’anno prima della rivoluzione che provocò la caduta del dittatore Mubarak. A quella iniziativa partecipai unendomi alla delegazione italiana. L’obiettivo era quello di arrivare nella Striscia di Gaza in segno di solidarietà con il popolo palestinese ad un anno esatto della operazione militare israeliana denominata piombo fuso che provocò oltre mila vittime tra i civili. Il regime egiziano impedì la nostra marcia verso il confine con la Striscia di Gaza e bloccò al Cairo oltre 1500 attivisti arrivati da diversi paesi come gli Stati Uniti e Francia. Ricordo che per protesta contro quella decisione abbiamo manifestato nella piazza Tahir che divenne qualche mese dopo il luogo simbolo in cui gli egiziani si riunirono per costringere alle dimissioni Mubarak.

Ha partecipato a numerosi progetti di raccolta fondi, come quello per l’acquisto di una TAC per l’Ospedale “AL WADA” di Gaza. Come riesce a mobilitare risorse e sostenitori per queste cause?
Con l’Associazione “Per non dimenticare” di cui faccio parte organizziamo durante l’anno eventi che hanno come obiettivo la raccolta fondi per un specifico progetto nei campi profughi palestinesi. Nell’occasione della nostra visita nella Striscia di Gaza, che ha presentato non poche difficoltà a causa dell’ostracismo del regime egiziano, abbiamo deciso di aiutare l’ospedale Al AWDA per l’acquisto di una TAC.  Grazie alla rete di supporto in Italia della causa palestinese abbiamo consegnato al direttore dell’ospedale oltre 10 mila euro. Ricordo però che oggi a causa dei ripetuti attacchi dell’esercito israeliano l’ospedale Al AWDA come altri ospedali della Striscia di Gaza è stato messo quasi completamente fuori uso con conseguenze drammatiche per i civili vittime della guerra in corso tra Israele ed Hamas che fin qui ha provocato oltre 40 mila morti tra i palestinesi.

Quali sono le principali sfide che ha incontrato nel creare un ponte solidale tra la Calabria e i campi profughi in Grecia dopo la chiusura della rotta dei Balcani nel 2016?
L’esperienza in Grecia per me è stata una grande lezione di vita. Una occasione straordinaria di crescita. Nonostante l’esperienza maturata nei campi profughi palestinesi, essere stato a contatto con quella moltitudine umana, bloccata al confine tra la Grecia e la Macedonia mi ha insegnato tante cose. In primo luogo come un essere umano è capace di resistere nonostante le enormi difficoltà in cui è stato costretto a vivere. Stare in una tenda per mesi affrontando il freddo, la pioggia, il vento che portava via quel misero tetto, nell’indifferenza delle istituzioni europee ma per fortuna nell’abbraccio di migliaia di volontari che hanno offerto anima e corpo per alleviare quella sofferenza. Io sono stato tra quelli che hanno provato a non fare perdere loro la dignità di essere umani. Grazie a quella esperienza che è durata tre anni ho avuto la possibilità di costruire rapporti fraterni di amicizia con alcuni rifugiati provenienti dalla Siria. L’esperienza in Grecia inizialmente è stata una mia iniziativa personale ma che successivamente ha visto coinvolti tanti straordinari volontari calabresi con i quali abbiamo lavorato alacremente per alcuni mesi per costruire un vero e proprio ponte umanitario tra la Calabria e i campi profughi in Grecia.

Il suo libro “Kaijn e la tenda sotto la luna” racconta le storie dei rifugiati. Quali sono i messaggi principali che vuole trasmettere attraverso queste narrazioni?
Il libro è stato scritto grazie al fondamentale supporto della mia cara amica Tania Paolino. E’ stata lei a sollecitarmi a raccontare le storie che ho conosciuto nei campi profughi in Grecia.
La scrittura del libro è stata una forma di catarsi. Il filo conduttore è il campo profughi di Idomeni in Grecia al confine con la Macedonia. Li per mesi sono rimasti bloccati oltre sedicimila esseri umani. Il loro rifugio erano delle tende vivevano nella speranza che l’Europa aprisse le porte. Fuggivano da contesti di guerra e persecuzione. Con Tania abbiamo provato a raccogliere il loro grido di dolore e denunciare quelle drammatiche condizioni di vita. Ho imparato molto dalla loro capacità di resilienza. Kajin in curdo significa “Dov’è la vita-“ E’ la figlia di una coppia di fraterni amici fuggiti dal Aleppo perché minacciati dai terroristi di Jabhat al nusra un gruppo salafita legato ad Al Qaida. È stata concepita nel campo profughi di Idomeni e nata in un ospedale di Salonicco. Il giorno in cui è nata Kajin ero in ospedale con i genitori. Successivamente la famiglia è stata trasferita in Francia . Mosa e la moglie hanno avuto un altro bambino a cui hanno dato il mio nome. Il messaggio è questo dove c’è sofferenza emergono i valori migliori dell’uomo: la solidarietà e l’amicizia.  

La sua attività le ha valso numerosi riconoscimenti, come il “Premio Gens Aurea” e il “Premio Prato Città Aperta”. Come considera l’importanza di questi premi per il suo lavoro?
I riconoscimenti sono l’occasione per raccontare ciò che accade in quei luoghi. Cerco sempre, come faccio negli incontri con gli studenti, di trasmettere le emozioni che ho vissuto. C’è una umanità che va raccontata rispetto alle ragioni per cui è costretta a migrare. Spesso questa umanità si porta dietro pregiudizi che non hanno nessuna ragione di essere. Ovviamente fanno piacere i riconoscimenti ma che io dedico soprattutto alle persone costrette a fuggire dalle guerre e che io ho avuto la fortuna di incontrare nel mio cammino

Oltre all’impegno umanitario, si è distinto anche nella tutela dell’ambiente e della legalità in Calabria. Come vede l’interconnessione tra questi diversi ambiti di attività?
Negli anni ottanta il governo nazionale aveva deciso, dopo il fallimento del quinto centro siderurgico, di realizzare una mega centrale a carbone nell’area industriale di Gioia Tauro. Abbracciai quella lotta assieme a tanti giovani e studenti. Organizzammo come il movimento studentesco tante manifestazioni che legate ad altre iniziative furono in grado di sollevare le coscienze dei cittadini della Piana di Gioia Tauro che con un referendum popolare bocciò con il 98% l’installazione della centrale. Quella lotta condizionò la mia vita. Ho continuato ad impegnarmi nelle lotte ambientaliste, per la legalità e la giustizia sociale anche quando ho dovuto pagare un prezzo durissimo a causa di un attentato subito nel mese di ottobre del 2021

Nel 2013 ha promosso un coordinamento per la memoria di Rossella Casini, vittima della ‘ndrangheta. Quanto è importante per lei la memoria storica nella lotta contro le mafie?
Fare memoria significa non dimenticare coloro i quali sono caduti da innocenti nelle guerre di mafia. L’esercizio delle memoria significa riscattare la dignità di una intera comunità che non piò essere giudicata per un passato macchiato da criminali senza scrupoli che hanno insanguinato le strade della mia città tra la fine degli anni 70 e i primi anni 90. In quel periodo furono commessi dei crimini orrendi in cui caddero ammazzati persone che non avevano nulla a che fare con la faida. Penso alla povera Rossella Casini e al mio fraterno amico Pino Borrello per i quali ho chiesto e ottenuto che venissero ricordati con l’intitolazione di una via e di una piazza.

Grazie Enzo per la tua intervista, un saluto dal nostro staff.
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