Pat Porpiglia, scrittore: Dalla Calabria al Canada, un ponte tra Cultura e Comunità

Pat Porpiglia è uno scrittore, poeta e promotore culturale che ha costruito la sua vita tra due mondi: l’Italia e il Canada. Dopo aver conseguito una laurea in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Messina, ha vissuto per molti anni a Winnipeg, dove ha contribuito attivamente alla crescita della comunità italiana. Fondatore di associazioni culturali e sportive, imprenditore e consulente, ha sempre mantenuto viva la sua passione per la scrittura, pubblicando poesie, romanzi e racconti brevi. Ritornato in Calabria, ha proseguito il suo impegno per il territorio e continua a dedicarsi alla sua grande passione: raccontare storie che abbracciano le sue esperienze di vita, le radici calabresi e il vissuto di tanti emigranti.

Su Che Intervista ospitiamo Pat Porpiglia, conosciamolo meglio…

Benvenuto Pat, il tuo percorso parte dalla Calabria e attraversa l’oceano fino al Canada. Cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia e quali sono state le prime sfide che hai affrontato come giovane emigrante?
Il 27 dicembre del 1967 all’età di19 anni sono partito alla volta di Winnipeg, Manitoba, Canada.
Avevo già conseguito il diploma liceale che a quei tempi mi avrebbe consentito di potere trovare uno sbocco occupazionale nelle Poste oppure nelle Ferrovie. La mia partenza nel momento del boom economico italiano non è stata dettata dai bisogni e dalle necessità che avevano spinto i nostri nonni ad emigrare all’iniziò del XX secolo e i nostri padri a ridosso del secondo conflitto mondiale.
La mia è stata definita nel mio secondo romanzo “Storie di due mondi”:  “l’emigrazione della volontà  o della libera scelta.” Nel suddetto romanzo che mi vede protagonista insieme a tutti coloro, giovani e meno giovani, che in un determinato momento della loro vita hanno scelto di fare le valigie e di partire per costruirsi un futuro migliore fuori dai confini del proprio paese è stata “una voce dentro” che mi ripeteva in continuazione “Parti! Parti! Parti!”. Non potevo, essendo ancora le me spalle verdi e la mia mente ancora relativamente grezza comprendere le motivazioni nascoste dietro l’incitamento (l’avrei scoperto dopo 25 anni di lunga e ininterrotta permanenza in Canada al mio ritorno per la morte di mio nonno materno che mi era rimasto accanto con i suoi consigli e raccomandazioni) ma mi affascinavano soprattutto due cose: il fascino dell’ignoto e dello sconosciuto e la mia voglia di libertà.
Il sogno della mia mamma, possa R.I.P. era quello di vedermi laureato in medicina ma io non volevo pesare sulle scarne risorse economiche della famiglia.  Accolto come un figlio dai miei zii di parte materna sono stato iscritto a frequentare i corsi di Basic English Classes. Non soltanto ho superato tutti gli esami con lode ma addirittura sono stato scelto dai miei 25 compagni di classe, emigrati dai più svariati paesi del globo terrestre a tenere il mio primo discorso in inglese alla cerimonia di chiusura dell’anno scolastico. Una porta si spalancava davanti a me. I miei sogni incominciavano a prendere forma. Mi potevo iscrivere alla “University of Winnipeg”, laureandomi alla fine del percorso universitario come studente di merito. Gli inizi, in terra straniera, non sono stati facili perché non conoscendo la lingua non riuscivo a fare emergere il vero Pasquale, diventato Patrick perché così ha deciso il mio professore di Basici English Classes. C’è stato un momento in cui avevo avuto la voglia di lasciare tutto e rientrare. Un avvenimento inaspettato, diventato un racconto con il titolo “La svolta” mi ha fatto cambiare idea e mi ha aperto la strada verso una piena e soddisfacente integrazione nella società canadese. Sono entrato a fare parte della squadra di “soccer” (calcio) della Università di Winnipeg dove senza falsa modestia sono stato riconosciuto come leader, appunto la svolta. Venire a contato con popoli, etnie, culture, modi di pensare e di agire, imparare due lingue (essendo il Canada una nazione bilingue) non è stato facile ma mi sono accorto che ad aiutarmi ci sono stati   i principi e i valori della mia cultura aspromontana e soprattutto la mia voglia di inseguire e coronare i miei sogni.  Dunque, in conclusione l’odierna fuga intellettuale giovanile meglio conosciuta come “la fuga di cervelli” non è un avvenimento negativo perché la formazione umana, culturale, sociale che ne deriva è un arricchimento di inestimabile pregio. Mi piace definirmi, “un uomo di due mondi” fiero sia delle mie origini aspromontane che delle mie acquisite conoscenze e maturate esperienze nel mio amato Canada.

Durante la tua esperienza a Winnipeg, hai avuto un ruolo importante nella costruzione della comunità italiana locale. Quali sono stati i progetti e le iniziative di cui sei più orgoglioso?
Gli anni universitari sono stati importanti nella mia formazione dandomi quella sicurezza e determinazione che mi avrebbero spinto insieme ad altri giovani immigrati a dare un valido e importante contributo alla crescita umana, sociale, professionale, artistica, culturale, politica e persino economica della comunità italiana di Winnipeg. La nostra prima iniziativa in campo culturale è stata la creazione della “Italian Student Association”. Il fine era quello di mantenere i contatti con le nostre radici, il nostro passato ma anche di promuovere l’immagine della nostra comunità. Era un organismo mediatore tra la comunità italiana e le istituzioni canadesi ai vari livelli. L’Associazione, registrata e riconosciuta ufficialmente dalle istituzioni canadesi, molto presto incominciò a muoversi su diversi fronti. In ambito culturale forniva, ad esempio, alla scuola Dante Alighieri docenti per insegnare non soltanto la lingua del nostro Sommo Poeta ma anche la nostra storia, le nostre origini, il nostro nobile e glorioso passato. Io stesso fui scelto a fare la mia prima esperienza come insegnante nell’Istituto.  
Tra le altre iniziative che mi vedevano coinvolto attivamente non poteva mancare, il coinvolgimento nel mondo del calcio vista la passione italica in questo sport. Ebbi l’onore e il privilegio di fondare la “Winnipeg Juventus Soccer Club”, squadra di calcio per la quale non soltanto ricoprii il ruolo di giocatore ma anche di presidente.  Avrei voluto chiamarla Winnipeg Inter, perché da sempre è stata, la squadra nero azzurra, quella del cuore, ma essendo in minoranza mi dovetti adeguare alla volontà della maggioranza dei soci fondatori di credo juventino. Mi è capitato di essere preso spesso in giro per avere accettato un tale incarico, vestendo i colori “nemici” bianconeri della “Signora.” Altre associazioni alle quali ho partecipato attivamente ricoprendo dei ruoli  importanti sono

Le Associazioni Culturali quali “The Italian Student Association; I Figli d’Italia; The Italian Action Committee

Le Associazioni Sportive Winnipeg Juventus Soccer Club; Italinter soccer Club; Bari Club; Roma Soccer Club

La Chiesa L’oratorio luogo d’incontro dei giovani. Il Prete che ci costringe a fare i chierichetti e a servire la messa in cambio di una sede dove svolgere le riunioni dell’Associazione degli Studenti Italiani.

La Casa d’Italia Un sogno diventato realtà la prima casa costruita a Sargent Avenue. Gli incontri per programmare la crescita sociale, culturale ed economica della comunità. Guardare le partite di calcio della serie A italiana e della nostra Nazionale.

Per finire tra le numerose iniziative che mi hanno visto orgoglioso protagonista vorrei aggiungere:

FESTIVAL DELLA CANZONE ITALIANA Una riproduzione del Festival di Sanremo, uno degli eventi musicali e canori più seguiti in Italia. I vincitori delle prime due edizioni sono stati Mauro Gallo e Vito Scarola.

CONGRESSO NAZIONALE DEGLI ITALO CANADESI Una maratona per raccogliere fondi per i terremotati dell’Irpinia. Insignito per l’impegno profuso del titolo di PTROCINATORE BENEMERITO nel 1980 dal Congresso Nazionale degli Italo Canadesi.

Sei stato coinvolto in molti ambiti: dalla cultura allo sport, fino al mondo imprenditoriale. Come sei riuscito a mantenere un equilibrio tra queste diverse attività?
Il mio coinvolgimento in molti ambiti (sociali, sportivi, culturali , politici e in seguito anche imprenditoriali) derivavano dalla passione per quello che facevo e la mia giovinezza. Le passioni anche quelle che di primo acchito sembrano difficili da realizzare al contrario sono facili da coltivare perché non comportano alcuna fatica ma gioia e piacere. C’era la soddisfazione nel pensare e nel vedere che le nostre iniziative, se portate a termine con successo e con la collaborazione attiva della comunità, sarebbero state il nostro bigliettino di visita sul quale c’era scritto che noi italiani eravamo i figli di un popolo dal passato nobile e glorioso e che avremmo potuto dare un valido contributo alla crescita culturale del Canada, paese che ci ospitava. Le nostre iniziative erano stimolate anche dalla promulgazione della “Legge sul Multiculturalismo” del 1971 voluta dall’allora premier del Canada, Pierre Elliot Trudeau che considerava le diversità culturali non un problema ma un arricchimento culturale. Il motto della legge era il seguente “Unity trhough diversity” – (l’unità tramite la diversità). Il mio coinvolgimento nell’attività imprenditoriale è dovuto a un atto di riconoscenza verso mio zio Giuseppe Bova, fratello di mia madre Fortunata Bova da tutti conosciuto in comunità come Uncle Joe. Dopo essermi laureato nel 1972 , grazie alla mia conoscenza della lingua inglese e francese, sono stato assunto alle dipendenze del ministero di Manpower and Immigration della Province of Manitoba per dirigere un programma denominato “Work & Study” indirizzato agli studenti delle scuole superiori che avessero avuto delle insufficienze scolastiche e che provenissero da famiglie economicamente svantaggiate. Il progetto si sarebbe svolto sia a Winnipeg che in una riserva indiana della cittadina locata a The Pas, nel nord della Provincia del Manitoba dove grandi laghi e immense foreste rendevano la natura ancora incontaminata e misteriosa. Lavorare alle dipendenze del governo del Manitoba era un sogno che si realizzava. Ottenuto un lavoro stabile sono anche andato a vivere da solo nonostante Uncle Joe, zia Franca e i mei quattro cuginetti diventati i miei fratellini erano dispiaciuti dalla mia decisone maturata in ossequio alla mia innata voglia di libertà.
Dovevo moltissimo a Uncle Joe e alla sua famiglia non soltanto per avermi ospitato ma anche perché zio Joe durante le estati dei miei anni universitari mi faceva lavorare nella ditta denominata “Milano Tile”, specializzata nella posatura di marmi, autobloccanti e soprattutto ceramiche per pavimenti e rivestimenti. Come tutti gli studenti canadesi durante l’estate dovevo guadagnare i soldi che mi servivano per continuare i miei studi universitari. Una sera Uncle Joe, il quale aveva litigato con i dirigenti della impresa Milano Tile Co. Ltd. mi venne a supplicare ad iniziare una nostra impresa. Ero veramente felice con il mio lavoro ma non potevo dire di no alla persona che mi aveva accolto e amato come un figlio. A mala pena mi aveva confidato di conoscere la lingua italiana mentre il suo inglese era ancora allo stato acerbo e in ogni caso non sarebbe stato in grado né di scrivere un contratto oppure ad andare a parlare con ingegneri e architetti per potere partecipare, una volta iscritti all’albo dei costruttori, alle gare pubbliche.  Così che è sorta la nostra attività imprenditoriale denominata “Torino Tile Co. Ltd”. Ci siamo ingranditi velocemente,  diventando in pochi anni la terza impresa più importante del Manitoba. Felice di essermi reso promotore, altresì, durante le mie visite alla Cersaie di Bologna dell’importazione di vagoni di piastrelle italiane e di avere reso le dimore dei manitobesi più belle debellando i linoleum e le piastrelle di plastica in uso a fine anni sessanta.

La tua carriera letteraria è altrettanto ricca. Hai pubblicato romanzi, raccolte di poesie e racconti brevi. Quali esperienze personali o professionali hanno ispirato maggiormente le tue opere?
Scrivere è stata sempre la mia passione. Per scrivere bisogna avere alle spalle un vissuto interessante e variopinto oltre a una vivida immaginazione accompagnata ovviamente anche da una adeguata preparazione letteraria. Nella prefazione del mio romanzo “Il ribelle suo malgrado” ho scritto: “Ritornando indietro nel tempo con la memoria mi accorgo di avere avuto diversi nuovi inizi esistenziali; a me sembra d’essere stato più persone in situazioni, luoghi e circostanze diverse tra loro”.  Tra le ragioni che mi hanno spinto a iniziare a scrivere in età matura, potrei citare la mia voglia, aspirazione e smania di libertà intellettuale; cioè scrivere liberamente ciò che penso sulla società calabrese, nazionale e globale senza alcuna pretensione di onnipotenza e onniscienza oltre al sentito desiderio di ogni artista di essere un attento interprete del mio tempo e del mio mondo. Un mio carissimo amico all’uscita del mio, penultimo in ordine di tempo cronologico, libro ”La galera come casa” mi ha chiesto se stessi pigliando gusto a scrivere dei libri. La risposta, quasi scontata, è stata, naturalmente, sì, in quanto una persona gode, come già detto prima,  nel fare le cose che gli piacciono ed io ho maturato la passione di  scrivere.
Forse la domanda avrebbe dovuto essere un’altra: Quali sono le ragioni che ti spingono a scrivere?
Appunto perché un uomo, che fa tutt’altra cosa per mestiere, in piena età matura decide di trascorrere buona parte del suo tempo libero a scrivere?
Da una attenta riflessione ho tratto alcune considerazioni o per meglio dire sono affiorate alcune motivazioni. La prima risposta che mi era venuta in mente era stata che  provavo una grande gioia quando, dopo una giornata di lavoro, sedevo davanti al mio computer, nella mia piccola stanza, circondato dal verde di piante amorevolmente accudite da tutti i membri della mia famiglia, ai quali esprimo tutto il mio riconoscimento ed affetto per la pazienza dimostratami ed il  continuo incoraggiamento fornitomi durante la stesura del testo. La tranquillità e la serenità mentale che ricavo in questa oasi di pace mi aiuta a liberare la mia immaginazione, la mia fantasia e la mia poca o tanta creatività. Con la scrittura riesco, inoltre, a esprimere pensieri, concetti, stati d’animo, sentimenti e sensazioni che difficilmente riuscirei a trasmettere con le parole a causa della mia innata riservatezza. Comporre una poesia, scrivere una storia breve oppure cimentarmi con qualcosa di più impegnativo come scrivere un romanzo mi gratifica e dona un senso di compiutezza alla mia stessa esistenza. Credo, altresì, che sia insito in ogni essere umano il volere lasciare un’orma, una traccia, seppure flebile, del proprio passaggio su questa terra. Voglio condividere un mio segreto desiderio. Mi auguro che, fra trent’anni, quando io non ci sono più, un mio nipote veda un libro, magari ricoperto di polvere e le cui pagine sono ingiallite, sopra uno scaffale nella mia piccolissima libreria, e spinto dalla curiosità lo prenda in mano e accorgendosi che sia stato scritto da suo nonno lui/ lei possa dire, dopo averlo letto, con orgoglio: questo era mio nonno.
Un’altra motivazione importante deriva dal fatto che ogni artista sia esso uno scultore, un pittore, un musicista, un compositore e a maggior ragione un poeta o uno scrittore, crede di avere uno o più messaggi che vuole condividere con degli ipotetici lettori. Nella misura in cui questo o questi messaggi riescono a raggiunge il cuore o la mente di un implied reader, (il gruppo d’ipotetici lettori ai quali è indirizzato), questo è un chiaro segno indicatore della validità e del grado di gradimento raccolto dall’opera dell’artista.
Ad incoraggiarmi o meglio ancora a spronarmi a scrivere ci hanno pensato, hanno contribuito, poi le parole di scrittori famosi bravi: Carlos Ruiz Zafon e Orphan Pamuck e Leonardo Sciascia:

  • Carlos Ruiz Zafon nel romanzo “L’ombra del vento” scrive: “Un uomo cessa di vivere soltanto quando nessuno si ricorda più di lui o delle cose fuori dell’ordinario da lui fatte”. Badate bene che non dice straordinarie, ma fuori dell’ordinario. Per me scrivere un libro, credetemi, è certamente un esercizio fuori dell’ordinario;
  • Orphan Pamuck scrittore turco nato ad Istanbul nel 1953- Premio Nobel per la letteratura ad un giornalista che gli chiedeva le ragioni per cui scriveva ha così risposto: “Scrivere, per me, è una felicità folta e brillante, che mi nutre e mi possiede completamente. Io abbandono la vita quotidiana. Mi sembra di sognare. Vedo il mondo con gli occhi dei miei personaggi. Entro in un mondo dal quale non vediamo più il mondo dell’abitudine.”
  • Leonardo Sciascia il quale in molti dei suoi scritti, saggi e nel suo romanzo più conosciuto “Il giorno della civetta” ha espresso un concetto che mi ha letteralmente colpito. Egli sosteneva che nella sua Sicilia non fossero le indagini, le inchieste né tantomeno i processi a fare emergere la verità ma la finzione letteraria. Questo concetto spalancava un portone aperto davanti a me facendomi intravedere un’immensa prateria di opportunità letterarie. Ciò mi dava la possibilità di fare emergere attraverso la finzione letteraria le carenze, le disfunzioni, i problemi presenti nei nostri territori e nella stessa società non per il mero e puro gusto di una critica vuota, futile sterile e improduttiva ma al contrario per aiutare e persino spingere chi per compiti e funzioni ricadenti nella propria sfera di competenze dovesse trovare delle soluzioni vere ai problemi reali presenti nei nostri territori e nella stessa società. Ecco ciò che mi dato la spinta a scrivere la mia ultima raccolta di racconti “Il Sindaco mancato e altri racconti” e cioè il mio desiderio di ergermi ad interprete del mio tempo e del mio mondo nella speranza di migliorare la realtà che mi circonda.
  • Voglio aggiungere un’ultima considerazione.  Se qualcuno mi avesse chiesto quand’ero bambino: “Cosa vorresti  fare da grande?”  Non avrei risposto “Voglio fare il posto fisso” ma avrei sicuramente risposto: “Lo scrittore”. Scrivere un libro, dunque, é sempre stata la mia passione. Qualcuno mi potrebbe chiedere:
  • “Perché hai aspettato così a lungo?”

– “Perché – dunque – non l’ho fatto prima.”

Avevo paura di fare cattiva figura; pensavo di non essere all’altezza del compito. Poi con l’arrivo dell’età adulta e con qualche conoscenza letteraria acquisita e qualche esperienza umana maturata mi sono buttato nell’arena. Quando ho deciso di scrivere il mio primo romanzo “I Cavalieri erranti dell’Aspromonte”, volevo, soprattutto, cimentarmi con me stesso; cioè volevo vedere fino a quale punto sarei riuscito ad arrivare contando sulle mie sole forze, la mia intelligenza, le mie conoscenze e le mie capacità. Rigo dopo rigo, pagina dopo pagina, giorno dopo giorno vedevo aumentare la mia voglia di portare a termine la trama che avevo in mente. Dopo quasi un anno e mezzo il lavoro è stato completato. Ho riletto tutto d’un fiato la bozza del libro. Volete sapere quale è stata la mia immediata reazione? Stentavo a credere che io avessi scritto un romanzo. Mi sono chiesto: “Sei sicuro d’essere stato tu a scrivere questo romanzo? Questa costatazione mi ha spinto a credere che niente è impossibile nella vita. Si dice che dentro ogni essere umano ci siano delle genialità che possono rimanere inespresse per tutta la vita oppure possono essere sollecitate a venire fuori con la complicità del caso oppure con la voglia di fare. Diceva a tal proposito la scrittrice e poetessa Emily Dickinson: “Non conosceremo mai la nostra altezza fin quando non saremo costretti ad alzarci in piedi. Se siamo fedeli ai nostri compiti potrà raggiungere il cielo la nostra altezza”.

“Storie di due mondi” è un titolo significativo. Come descriveresti il legame tra le tue radici calabresi e la tua esperienza in Canada? In che modo questa dualità emerge nei tuoi scritti?
“Storie di due mondi” è un romanzo che vede come protagonista un giovane emigrante come me, nato in un piccolo borgo aspromontano, ed è indirizzato e dedicato a tutti i giovani che avevano voluto prendere in mano la propria esistenza per ergersi ad artefici del proprio destino. Giovani ancora allo stato grezzo; giovani pieni di entusiasmo e di idealismo ma dotati anche di coraggio e di determinazione i quali inconsciamente non dimostravano di avere paura dell’ignoto e del diverso, ma al contrario si sentivano attratti da esso. Pat Porbovo , il cui nome lascia intendere che io possa essere il protagonista , anche se molti dei fatti e degli aneddoti raccontati che insieme concorrono a formate la trama del romanzo li ho ascoltati dalla viva voce di giovani che come me avessero fatto esperienze e conoscenze in mondi e culture diverse, al suo ritorno al paese nativo spinto dalla voglia di saldare un debito di riconoscenza con i propri cari, con i propri amici e  con il suo amato paese  ma soprattutto per ripercorrere le tappe più importanti della sua vita. Lo vuole fare per comprendere sia le ragioni del suo successo sia l’uomo che fosse diventato e soprattutto il come e il perché. Il romanzo si trasforma da un viaggio tra due continenti e due culture in un viaggio dento; “a trip into the self”. In questa riflessione in quelli che lui definisce, “i luoghi della mia innocenza”, acquisisce la certezza che la sua piena integrazione nel mondo anglosassone era dovuta almeno in parte ai valori e ai principi portanti della cultura di appartenenza – la dignità, l’onestà, l’onorabilità, il rispetto, la lealtà, i forti legami familiari, la correttezza, l’affidabilità, la determinazione sconfinante spesso nella cocciutaggine, lo spiccato senso dell’amicizia). E’ grazie a questi principi e valori che noi italiani non abbiamo incontrato delle grosse difficoltà ad ambientarci prima, a prosperare poi fino a diventare uomini di successo durante il nostro soggiorno in terre lontane e straniere.  Tutto quello che era riuscito a costruire però era opera sua. E qual è il regalo più grande che può fare a sé stesso, un uomo che ha voluto appropriarsi della propria vita per ergersi ad artefice e ad architetto del proprio destino? La risposta è: la libertà, la quale non è quella di cui godono tutte quelle persone che per loro fortuna sono nate o vivono in nazioni liberali e democratiche che garantiscono i diritti fondamentali e civili di un essere umano. La sua era una libertà speciale ed assoluta: era quella dell’anima, del cuore e della mente. Questo tipo di libertà è inalienabile e non ha confini; essa può essere goduta in ogni parte del mondo anche in quelle nazioni governate da regimi totalitari e persino dietro le sbarre di una prigione (Nelson Mandela, Martin Luther King, Mahatma Ghandi) . Nessuno mai può strapparcela poiché è parte integrante del nostro essere. E’ la libertà che possiedono soltanto coloro che non sono stati costretti a bussare alla porta dei ricchi, dei potenti e dei prepotenti, coloro che non hanno dovuto chiedere e pertanto non devono ringraziare o essere indebitati con nessuno. Penso di poter affermare senza alcuna presunzione che il Canada mia ha cambiato in positivo, mi ha migliorato facendomi diventare l’uomo che sono: un uomo di due mondi. Ero partito giovanissimo da un piccolo borgo aspromontano, San Roberto, con un passaporto nuovo di zecca e un’anima verde e durante la permanenza canadese mi sono ritrovato con due passaporti e due anime che convivono pacificamente dentro di me. In questi anni ho anche imparato a conoscere e apprezzare la voce dentro della mia giovinezza che con sempre più insistenza mi aveva detto “Parti! Parti! Parti!”. E’ la voce che risiede dentro ognuno di noi che ci spinge ad allargare i nostri orizzonti, ad arricchirci di esperienze e conoscenze, a non aver paura di indirizzare la nostra prua verso e oltre le mitiche Colonne d’Ercole. È la stessa, identica voce che aveva spinto il nostro sommo poeta, dante Alighieri a scrivere i famosi versi:

Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.

Nel tuo romanzo “La galera come casa” affronti un tema complesso e delicato. Cosa ti ha spinto a esplorare questo argomento e quali messaggi speri di trasmettere ai tuoi lettori?
Il romanzo “La galera come casa” trae spunto da un fatto realmente accaduto in un paesino della Calabria dove un giovane di 23 anni, dopo essere entrato e uscito dalle patrie galere una dozzina di volte, frustrato, arrabbiato e avvilito, decide di dare fuoco a 5 macchine contemporaneamente e aspettare l’arrivo dei vigili del fuoco e delle forze dell’ordine per essere arrestato e riportato in galera. I temi trattati, anzi toccati trattandosi di un romanzo travalicano i confini regionali assumendo una valenza nazionale e persino universale: il bullismo nelle scuole; l’abuso sessuale sui minori; l’uso e lo spaccio di stupefacenti e il mancato recupero e inserimento dei detenuti nella società una volta scontata la pena, così come contemplato dall’art. 27 comma 3 della nostra Costituzione che specifica che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il titolo “La galera come casa” da non confondere con “La casa come galera” che ipotizza un ambiente familiare dove l’amore e la comunicazione tra i componenti familiari è scomparso da tempo, non è il luogo adatto dove coltivare dei sogni, anticipa che il protagonista avesse scelto la galera volutamente come casa, come dimora. La scelta è un vero paradosso, un controsenso, perché nessuno nel pieno possesso delle facoltà mentali vuole entrare in galera e da essa da sempre si vuole evadere oppure uscire al più presto possibile per riassaporare nuovamente i profumi, i sapori, gli orizzonti e i suoni melodiosi che offre la libertà. Il romanzo cerca di dare, anzi lascia liberi i lettori a dare una risposta alla domanda implicita nel titolo: “Perché Tommaso il protagonista fa questa scelta che fa rimanere basito e incredulo il suo giovane e ancora inesperto avvocato appena nominato d’ufficio?”. Un avvenimento traumatico, un incidente stradale inatteso e brutale in cui perdono la loro ancora giovane vita i suoi genitori, travolti e uccisi sulle strisce pedonali da un pirata della strada che si allontana senza prestare soccorso, sconvolge e ha delle ripercussioni negative sulla sua crescita umana e psicologica. Affidato ai nonni paterni e a seguito della loro morte a una casa famiglia all’età di 13 anni non riesce a sviluppare solide radici che gli potessero dare un senso di appartenenza a una casa a una famiglia, a un territorio, a dei principi e valori condivisi. Non essendo riuscito a costruire solide radici le sue azioni sono guidate dalla rabbia, dall’odio e dal desiderio di vendetta che  viene indirizzato non soltanto verso il pirata della strada ma contro tutto e tutti – famiglia, società civile e istituzioni laiche e religiose- Il romanzo suggerisce che c’è sempre un treno che si ferma almeno una volta davanti alla stazione della tua città e c’è sempre un santo che bussa alla tua porta. Bisogna aver il coraggio di salire su quel treno e bisogna, altresì, avere la bontà di fare entrare quel santo dentro casa, perché niente è statico e immutabile nella vira di un essere umano. Impossibile è un aggettivo che alberga nella bocca dei pavidi e degli imbecilli. Il libro indipendentemente dalla sua validità letteraria, che ogni artista giustamente augura a una sua creazione, ha avuto un merito: ha coinvolto, durante le varie presentazioni, intellettualmente ed emotivamente molti dei presenti, uomini e donne di buona cultura. Io amo il protagonista Tommaso Ferrari, un personaggio sfortunato, controverso che incarna uomini e donne che, a causa di una società a volte ipocrita, superficiale e sorda ai bisogni degli umili, degli oppressi, vengono abbandonati a un crudele e impietoso destino. Spesso come nel caso di Tommaso, rimasto orfano in una tenera età, gli ultimi e i penultimi della terra, coloro che hanno subito dei soprusi, dei torti, delle violenze, delle ingiustizie invece di essere aiutati, vengono addirittura spinti verso l’emarginazione e l’isolamento. Forse memore della mia esistenza, delle mie battaglie, del mio cadere e alzarmi tantissime volte, io l’autore ( mi sono tenuto lontano dall’interferire con la mia morale, con i miei giudizi e il mio sapere) avrei preferito che Tommaso avesse trovato uno scatto d’orgoglio e dimenticando la rabbia, l’odio e lo sfrenato desiderio di vendetta, quando ha avuto la fortuna di incontrare Danuta una ragazza nobile d’animo e innamorata, avesse potuto dimenticare per guardare oltre crogiolandosi nell’amore l’unico vero sentimento umano che può sconfiggere il male e accender il sole della speranza dentro il cuore. Il messaggio implicito nel romanzo viene reso evidente nel dialogo finale tra il giovane avvocato e Tommaso. Alla domanda del suo giovane e inesperto avvocato, nominato d’ufficio il quale rimane basito, sconcertato e incredulo nell’apprendere l’irrevocabile decisone del suo assistito di non volere essere difeso, Tommaso risponde: “Perché tra quelle mura mi trovo a mio agio. Mi sento rispettato perché provo un senso di appartenenza.  Sono in compagnia di miei simili con i quali condivido in egual misura le stesse pene e le stesse afflizioni. Fin quando rimango dentro, nessuno potrà mai farmi del male. Ogni volta che uscivo di prigione con la voglia di cambiare mi sono al contrario spesso sentito usato e persino abusato.” In conclusione aveva visto bene Don Milani il quale aveva detto nel romanzo che “Uno Stato che affida il destino di un Tommaso Ferrari alle patrie galere corrisponde ad un ospedale che rifiuta gli ammalati perché non sa come curarli.”

Tra i numerosi riconoscimenti che hai ricevuto, c’è un premio o un momento che consideri particolarmente significativo nel tuo percorso letterario?
Tutte le mie composizioni letterarie: le 2 raccolte di poesie; le 3 raccolte di racconti e i 4 romanzi oltre la partecipazione con altri scrittori e poeti ad antologie mi sono care perché hanno un legame affettivo con il mio modo di essere e di pensare e con quello che io reputo debba essere il ruolo di un artista. Diceva Fëdor Dostoveskij nel suo romanzo “L’Idiota” per bocca di un suo personaggio il principe Mishkin “Soltanto la bellezza può salvare il mondo”. Ed egli si riferiva non alla bellezza estetica ma alla bellezza artistica e culturale. Il poeta inglese della corrente letteraria romantica John Keats sosteneva : “Art is beauty and beauty is art” – L’arte è bellezza e la bellezza è arte-. Di conseguenza siccome la poesia è arte quindi è bellezza. Queste definizioni mi hanno spinto a chiedermi in quanto poeta e scrittore, anche se per puro diletto e passione, quale dovessero essere i miei compiti e funzioni in merito. Riflettendoci sopra mi dicevo che mi veniva offerta la possibilità di mettere in atto il mio desiderio di trasformare in meglio la realtà che mi circonda. In un mondo funestato da guerre, carestie, migrazioni forzate e sconvolgenti cambiamenti climatici che non ci fanno più guardare il nostro futuro e quello dei nostri figli e nipoti con gli occhi verdi della speranza; in un mondo e in un tempo dove la cattiveria sovrasta la bontà e la misericordia; l’odio mette a tacere  l’amore; la violenza allontana la pace  e la bruttezza prende il posto della bellezza, sentivo che fosse mio dovere in quanto artista creatore di bellezza di farmi sentire attraverso le mie creazioni letterarie per dare il mio contributo, seppur modesto e limitato, alla realizzazione di un mondo migliore. Un artista, dunque, deve usare le proprie creazioni artistiche non al fine di glorificare la propria immagine o per irrobustire la propria autostima ma per creare bellezza, per scrivere e propagandare la pace, la bontà, la fratellanza, la giustizia. Premetto che ricevere un premio un semplice riconoscimento è sempre gratificante perché implica che le tematiche trattate e i messaggi impliciti in una creazione artistica hanno raggiunto il cuore e la mente di ipotetici lettori o i componenti di una giuria. Uno dei premi che mi è stato assai gradito perché rappresenta molto il mio modo di essere  e di pensare è stato quello che ho ricevuto di recente a Montebello Jonico R.C. Il mio racconto “Il Sindaco mancato” ha ricevuto il premio Nicolaos Arghiropolous nella sezione narrativa. Il libro è composto oltre che da un romanzo breve da due racconti – “Salviamo il Pianeta Terra” e “Rimango! Rimango! Rimango!” e da un racconto fantastico dal titolo “La principessa Chloe”. Il riconoscimento mi rendeva fiero e orgoglioso perché confermava che io avessi soddisfatto le ragioni sopra esposte che mi spingevano a scrivere. Ho anche dato ascolto a un detto anglosassone che recita “Stand up and be counted”- (Alzati in piedi e fatti contare-)  per fare sentire forte e chiara la tua voce quando c’è un problema che ti tocca da vicino come appunto i cambiamenti climatici le cui devastazioni sono ormai sotto gli occhi di tutti.  Scrivere il racconto “Salviamo il Pianeta Terra” non è stato facile perché il tema si presta meglio per essere trattato tramite una ricerca scientifica o un saggio. Non credo ci siano in giro, sicuramente non in Calabria, dei racconti o dei romanzi che trattano l’argomento. Mettendo in movimento la mia fantasia e immaginazione mi sono inventato una trama dove due personaggi, un poeta   che potrei essere io e una figura enigmatica e misteriosa che è nostro Signore Iddio i quali si incontrano nelle vesti di volontari per pulire le strade, le case e i negozi di una città devastata da un tremendo nubifragio. Essi dialogano sul malandato stato di salute del nostro Pianeta concordando con i versi della poesia di John Donne “No man is an island” . (Nessun uomo è un’isola) -che suggerisce che nessuno, uomo o nazione pensi di potersi salvare da solo. O troviamo la voglia di lavorare in sinergia adottando misure adeguate oppure saremo costretti a perire, a scomparire come umanità. Per finire la gioia più grande è arrivata dal racconto fantastico “La Principessa Chloe”. Chi è Chloe? Chloe è la mia adorata nipotina, l’unica e sola al momento. La sua nascita ha chiuso il cerchio della mia esistenza. Mi sono chiesto cosa avessi potuto fare per immortalare, per ringraziare questa meravigliosa creatura che è riuscita ad accendere il sole dentro il mio cuore insieme con una rinata gioia e voglia di vivere. Chloe è il premio che considero più significativo del mio percorso letterario.

Dopo essere tornato in Italia, hai ricoperto ruoli importanti sia a livello locale che regionale, come consigliere comunale e esperto sindacale. In che modo queste esperienze hanno influenzato la tua visione della società e si riflettono nei tuoi scritti?
Al mio rientro definitivo in Italia nel 1983 dettato da ragioni familiari, sorretto dalle mie conoscenze acquisite ed esperienze maturate, mi sono rimboccato le maniche, come si suol dire, per crearmi dei nuovi appaganti inizi. Per prima cosa mi sono trovato un lavoro presso una società di trasporti internazionali che aveva bisogno di una figura professionale che parlasse l’inglese. Da subito ho contattato, tramite l’aiuto di mio fratello, un ingegnere, a cui avevo venduto la mia metà della società di costruzione Torino Tile Co. Ltd, il vice console italiano a Winnipeg per certificare tutte le materie che avevo superato per ottenere la laurea alla Winnipeg University. Ricevuta la documentazione ho concordato un piano di studi con la segreteria dell’Università degli Studi di Messina dove ho ottenuto in poco tempo la laurea di dottore con il voto   110/110 e lode in Lingue e Letterature Straniere. Ho avuto la gioia di poter discutere la tesi di laurea presenti i miei due figli Giorgio e Nadia. Ho insegnato l’inglese, vincitore di concorso, in provincia di Brescia e precisamente a Franciacorta e Lago d’Iseo. Insegnare era sempre stato uno dei miei sogni. In contemporanea, avendo superato, altresì, un concorso nella Pubblica Amministrazione ho optato a prendere servizio presso l’Agenzia per L’impiego della Calabria perché era molto meglio remunerato. Le esigenze economiche della famiglia sono state da me ritenute più importanti dei miei desideri. Lavorando presso l’Agenzia per l’impiego della Calabria dove ho svolto anche i compiti di esperto nel campo della formazione professionale, sono stato scelto dai 36 dipendenti quale Rappresentante Sindacale Unitario. Ruolo che ho svolto con zelo, dedizione e competenza non avendo alcuna remora a difendere i diritti legittimi degli iscritti. La mia discesa nell’arena politica è stata dettata da due convinzioni maturate nel tempo. La prima è dovuta alla fortuna di avere avuto come professore di Scienze Politiche alla Winnipeg University, Lloyd Axworthy. Candidatosi, venne eletto nel Partito Liberale guidato da Pier Elliot Trudeau nel distretto elettorale che comprendeva la Piccola Italia, anche grazie all’aiuto della nostra famiglia e della comunità italiana. Gli devo molto come professore e come amico. Frequentava la nostra famiglia dove veniva a gustare i ravioli fatti a mano da mia zia Peppina e a bere il vino fatto da zio Peppino con l’uva che veniva importata dalla California. È stato il professore Axworthy che mi ha spinto ad interessarmi attivamente in politica. Egli aveva espresso, durante le sue interessanti lezioni, un concetto sul ruolo della politica che mi ha completamento colpito. Egli sosteneva che tutti i cittadini in un paese liberale e democratico hanno il diritto di fare politica mentre alcuni hanno il dovere di fare politica. Ricordo che sorpreso da questa sua definizione gli chiesi in senso ironico: “Professore Axworthy chi sono dunque gli eletti della politica?” Egli mi rispose che erano tutti coloro che svolgevano delle professioni importanti in società grazie agli aiuti ricevuti dai genitori che li avevano sostenuti economicamente, grazie agli aiuti dello Stato che aveva messo a loro disposizione aule, professori e persino borse di studio, di cui io stesso ero stato un beneficiario, ai meritevoli. Questi professionisti avevano il dovere di restituire parte di quanto avevano ricevuto partecipando attivamente in politica per promuovere il benessere collettivo. Ad invogliarmi a scendere nell’arena politica in prima persona ricevendo la gioia di essere eletto come consigliere comunale è stata, altresì, una definizione che recitava “Fare politica è il regalo più grande che un cittadino possa fare alla ai propri territori e alla stessa società; dare sé stessi liberamente, spontaneamente e gratuitamente per il benessere collettivo”. Queste mie molteplici attività hanno influenzato la mia visone della società e si riflettono nei miei scritti? Senza alcun dubbio. È risaputo ed è comunemente accettato che c’è una base autobiografica in ogni singola creazione artistica. Ripeto nuovamente che le opere letterarie sono frutto non soltanto di una fervida immaginazione, di una adeguata preparazione culturale ma anche e soprattutto di una vita vissuta intensamente e pienamente.  Ebbene, se devo essere sincero non credo di essere riuscito se non almeno in piccola parte a cambiare la realtà che mi circonda e questo si riflette nei mie scritti soprattutto in quelli di protesta anche se a dire il vero in tutti i miei scritti, eccezion fatta per il racconto “Angela prostituta per necessità,” viene accesa alla fine del tunnel una luce, la luce della speranza, del riscatto che può essere vista da tutti coloro giovani e meno giovani che abbiano voglia di mettersi in gioco contando sulle proprie qualità e virtù soprattutto se riescono ad elevarsi al di sopra della mediocrità.

Con una carriera così variegata, dalla letteratura all’impegno sociale, cosa ti spinge ancora oggi a scrivere e quali sono i tuoi progetti futuri?
Scrivere è stata e continua ad essere la mia passione anche se devo ammettere di avere raggiunto l’età in cui comincio a diventare un po’ stanco fisicamente e mentalmente. Continuo ad essere attivo socialmente e partecipo con assiduità ad eventi culturali dove penso di potere dare ancora un mio contributo a promuovere l’arte e la cultura che io ritengo sia alla base del pensiero e delle azioni di una formazione sociale e della stessa società. Tanto più estesa, vasta e ramificate è la cultura sopra un territorio, tanto più incisive, efficaci ed efficienti sono le ide, i progetti e le stesse azioni di un capofamiglia, di un primo cittadino, di un assessore e dei rappresentanti delle istituzioni e della società civile. La cultura capace di forgiare una identità comune a un popolo e a un’etnia. In poche parole l’arte e la cultura giocano un ruolo di straordinaria importanza nella crescita non soltanto culturale ma anche umana sociale, politica e persino economica di un territorio. E’ da qualche tempo che mi sono messo a scrivere quello che dovrebbe essere la mia ultima composizione. Ho iniziato a scrivere le mie memorie che pubblicherò in quantità ridotta perché sarà una specie di testamento per i miei figli, per i miei familiari e per i miei tanti amici senza i quali la mia vita, ho detto e persino scritto, che sarebbe stata vuota, futile e insignificante, in poche parole indegna di essere vissuta. Il titolo dovrebbe essere: “Le mie memorie tra realtà, finzione e qualche rimpianto”.

Guardando indietro, quale consiglio daresti ai giovani calabresi che, come te, aspirano a costruire una vita e una carriera all’estero senza dimenticare le proprie radici?
Ho sempre pensato che l’idea di un paese autarchico (chiuso nei propri confini), la cui unica ambizione è quella di trattenere in casa i suoi “cervelli” sia non solo una colossale sciocchezza, ma anche il disconoscimento di uno dei tratti fondamentali della storia dell’umanità. Il nostro problema, specie nell’Italia del sud, non è che i giovani più brillanti vadano via in cerca di nuove opportunità, ma che qui non arrivino giovani brillanti da altre parti del mondo. Insomma, un paese che non è attrattivo, ed è incapace di valorizzare le intelligenze, siano o no indigene, in un mondo che sarà sempre più caratterizzato dalle migrazioni, rischia di giocarsi il futuro. “Un Paese che non riesce ad assicurare prospettive e un futuro ai giovani talenti di cui dispone è un paese condannato alla decadenza.” (Giorgio Napolitano). Altro che fuga di cervelli! Mio nonno al quale ero particolarmente legato, il giorno prima di partire per il Canada, tra i suoi tanti consigli e raccomandazioni mi ha detto: “Ricordati mio caro nipote che un uomo può diventare tutto ciò che vuole”. Egli intendeva dirmi che tutto quello che io avrei fatto nel bene e nel male nella vita sarebbe stata opera mia.  Aggiungeva, altresì, che un uomo vero deve saper affrontare le circostanze avverse della vita con la stessa grinta e lo stesso ottimismo che sfoggia in quelle favorevoli. E non bisogna avere paura di inseguire i sogni e avere successo. Ai giovani suggerisco, dunque che invece di piangersi addosso, di lamentarsi, di addebitare ad altri le ragioni dei loro insuccessi di non aver paura di mettersi in gioco. Nonostante viviamo ancora in una società dove l’intraprendenza, l’intelligenza, le capacità e le qualità personali, le virtù e i meriti non sono ancora sati usati quale metro di misura per fare emergere i migliori consentendo loro ad occupare le posizioni più importanti in campo politico, dirigenziale e persino imprenditoriale per loro ci sarà sempre un ruolo importante da giocare in seno a qualunque società. Ecco, la capacità di sognare, di guardare avanti, di gettare il cuore oltre l’ostacolo è l’ingrediente fondamentale di ogni storia di successo. Penso che il mondo globalizzato abbia oggi l’opportunità di vivere pienamente di quella contaminazione di culture, lingue, saperi e sapori che caratterizzerà sempre di più l’umanità del terzo millennio. Il cittadino del mondo globalizzato sarà sempre di più un cittadino del mondo senza smarrire, anzi rafforzando, le caratteristiche fondamentali delle sue radici. Pensare globale mantenendo la propria identità, e saper distinguere e valorizzare le nuove opportunità che si apriranno per noi e le generazioni future con la stessa capacità visionaria di uomini come i nostri padri e i nostri nonni che in tempi difficili non si erano rassegnati a una esistenza di miserie e privazioni; non si erano consegnati a un immobilismo autocommiserante ma si erano adoperati per accorciare la distanza tra la realtà sociale e i loro sogni. Ecco la vera sfida del futuro.

Grazie Pat per l’interessante intervista dettagliata e complimenti per tutto!
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