Roberto Gugliotta, messinese di nascita, è direttore del quotidiano online IMG Press.
Ha collaborato con alcune delle più prestigiose testate nazionali, tra cui l’Indipendente, il Giornale, Corriere della Sera e l’Espresso. Autore di romanzi che affrontano tematiche come la mafia e la politica, Gugliotta ha sempre messo al centro del suo lavoro le storie degli emarginati, facendosi portavoce di una generazione spesso ignorata.
In questa intervista, esploriamo il suo percorso professionale, le sue opere e la sua visione del giornalismo e della scrittura, in particolare con il suo romanzo, “Ultimo di trentamila”.
Su Che Intervista! ospitiamo Roberto Gugliotta, conosciamolo meglio…
Benvenuto Roberto, la sua carriera è caratterizzata da un profondo impegno nel raccontare le storie degli emarginati e delle realtà più difficili. Da dove nasce questa sua passione per le voci meno ascoltate della società?
C’è attorno a noi un popolo silenzioso e sempre più vasto che non vediamo anche se è sotto i nostri occhi, di cui ignoriamo la provenienza, un popolo venuto in mille diversi rivoli chissà da dove, che ha vissuto chissà quali vite prima di abbattersi sui nostri marciapiedi, coricati sulle panchine o sui cartoni, con le loro corolle di sacchetti delle immondizie e di stracci, avvolti nelle loro coperte… Poi spariscono per qualche giorno dal loro posto e poi ritornano. Sono storie, vicende, drammi che meritano attenzione. Hanno bisogno di voce e dignità. Io, ci provo. Cerco di parlare, indignarmi, gridare anche per loro.
Come direttore di IMG Press e collaboratore di importanti testate nazionali, ha vissuto in prima persona l’evoluzione del giornalismo. Quali sono, a suo avviso, le trasformazioni più significative che ha osservato nel settore?
Non mi riconosco più con questo mondo: tempi, spazi e libertà – soprattutto libertà – aumentano la responsabilità delle parole, il loro peso, la loro gravità. Faccio fatica a capire, a esempio, certe trasmissioni televisive che di giornalismo hanno ben poco. Gli uni contro gli altri per soddisfare gli interessi di lobby, imprese, partiti… Quando ti aspetti la notizia, arriva la sviolinata, il buffetto: la verità è la verità non c’è molto da aggiungere.
Nel suo romanzo “Ultimo di trentamila”, il protagonista Giacomo Sereni vive una drammatica discesa verso l’annullamento di sé. Cosa l’ha spinta a raccontare questa storia e quali aspetti della vita di Giacomo Sereni riflettono la sua personale visione della società attuale?
Il mondo di Giacomo Sereni si regge su pochi assiomi basilari: c’è il bene e c’è il male, il crimine e l’onestà, il sacrificio e la lotta alle sopraffazioni. Carabiniere per vocazione, il suo idealismo si infrange contro l’esito del processo al generale Mario Mori e al Capitano Ultimo in seguito alla cattura del boss dei boss, Totò Riina. Uomo in crisi, tradito dallo Stato e distrutto dopo la morte della moglie, Giacomo decide di lasciare l’Arma. La storia di Giacomo è la storia degli anni più bui del nostro Paese (tra attentati, stragi di mafia, tradimenti e complotti) ma il guaio di chi dice, a parole, di voler combattere il crimine organizzato, sta nel fatto che non si ferma a leggere con attenzione e saggezza la società in cui opera al fine di costruire un’azione capace di dare le giuste risposte ma continua ad agire per inerzia. Eppure se solo si guardasse con occhi diversi ai fatti accaduti in Sicilia, di segni ce ne sono molti. Sono solchi e graffi, scritte e buchi: una vita fatta di buchi e graffi, ma anche di qualcosa che leviga e in un certo senso dà forma. Perché ci sono esigenze e emozioni che dobbiamo solo difendere, per il bene comune.
“Ultimo di trentamila” si muove tra cronaca e noir, dipingendo un duro affresco sociale. Come riesce a coniugare la sua attività giornalistica con la scrittura di romanzi che affrontano tematiche così complesse e intime?
Da molti anni ho l’abitudine di camminare per le strade e capita di passare vicino a questi poveri corpi gettati sui marciapiedi, mentre dormono avvolti nei loro stracci o stanno seduti, immobili, insonni, con la schiena appoggiata al muro… Gli ultimi sono una presenza fissa nella mia vita e nel mio mondo, il popolo che sento più vicino, i miei muti compagni di viaggio. Nella mia vita professionale ho visitato istituti di pena, ospedali, case famiglia, periferie dimenticate dalla Stato: la scintilla per Ultimo di trentamila è scoccata in quelle immagini, in quelle storie, lo spunto invece è arrivato quando un giorno ho scoperto l’esistenza nel sito del Ministero dell’Interno, del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse… I numeri del Viminale stimavano. Al tempo, in trentamila gli scomparsi. Il romanzo racconta la storia dell’ultimo di questi trentamila. E così mi chiedo: quanti Giacomo Sereni incontriamo ogni giorno distogliendo lo sguardo e affrettando il passo? Sono qui, nelle nostre città, tanti, relitti agli angoli delle strade. Gli scomparsi, quelli che non contano, che prima avevano un nome e ora non più. Sono statistiche, numeri. Quello di Giacomo è il 30001. Lui ha scelto la moltitudine degli invisibili, l’abbandono e la rinuncia. “Non più carabiniere, non più marito, non più modello per gli altri”. Vite che si sfiorano fino a intrecciarsi, si perdono, restano e illuminano la storia amara e sorprendente di un’ anima in cenere capace, da quella cenere, di risorgere.
Nel romanzo, Giacomo Sereni viene profondamente segnato dal processo al Capitano Ultimo e dalla morte della moglie. In che modo questi eventi riflettono la disillusione nei confronti delle istituzioni, un tema che spesso emerge anche nel suo lavoro giornalistico?
La lotta alla mafia inizia e finisce con una foto in bianco dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ogni volta che osservo questa foto penso chi ha tradito questi uomini? Chi li ha mandati a morire? Una cosa so per certo, la foto consegna alla storia un momento perfetto, irripetibile perché diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto e da quelli che seguiranno. Borsellino, Falcone hanno segnato il percorso della mia vita. Ci sono momenti di cui capisci il senso solo anni dopo, e solo quando ne parli e così oggi credo si debba fare, tutti insieme, un grande esame di coscienza, perché se il malaffare ormai ci ha così avvinghiato, c’è probabilmente una responsabilità diffusa. Ciò che manca è l’idea che l’onestà sia una cosa buona, accanto alla giustizia, all’amore e alla solidarietà. Dobbiamo chiederci dove abbiamo sbagliato.
Nel corso degli anni ha collaborato con testate di grande prestigio come l’Indipendente, il Giornale, Corriere della Sera e l’Espresso. Quale di queste esperienze ritiene abbia maggiormente influenzato la sua crescita professionale e in che modo?
Ogni esperienza è stata utile nella crescita. Ogni sberla presa mi ha aiutato a capire come funziona il mondo del giornalismo. Ho avuto la fortuna di conoscere professionisti seri ma anche persone che mi hanno fatto vergognare di essere iscritto allo stesso albo professionale. Il giornalismo ti definisce e definisce le relazioni che avrai per il resto della vita professionale. Qualcosa ti rimane addosso, se passi attraverso certe esperienze che in qualche modo alla fine ti hanno deluso.
Essendo nato e cresciuto a Messina, quanto il contesto culturale e sociale della sua città ha influito sulla sua visione del giornalismo e sulla sua scrittura?
Da queste parti un bravo giornalista fa poca carriera o ha molta più difficoltà di farla rispetto al giornalista che si lega a questo o a quel carro politico. Poiché il giornalista dovrebbe essere il cane da guardia del potere, è ovvio che non debba legarsi a un qualsiasi tipo di carro politico, né – se fa cronaca – accettare uffici stampa. Dopodiché, ciascuno potrà farsi l’idea che vuole, forse qualcuno pensa che sia giusto che i soldi di un gruppo industriale finiscano nelle tasche di un giornalista. Ma che credibilità avrà mai un giornalista che passa dalla cronaca ai salamini e alla birra? La faccenda diventa maggiormente complicata se si va sull’attualità, sul giornalismo, ci pensate… il fatto del giorno viene spaccato da un’intrusa che proclama giuliva: “Ci rivediamo tra poco”, e intanto passano “brioches”, merendine, biscotti… bevi la nostra birra e sai cosa bevi… A che cosa si deve questa invidiabile informazione? A essere i paladini degli ultimi? Io credo di no. Ma è solo la mia personalissima opinione. Ma se i giornalisti sono legati agli “uffici stampa” potranno mai svelare le trame oscure che legano la mafia dei colletti bianchi, quella che è nelle istituzioni, nelle università? A costoro vorrei ricordare che tutti noi dovremmo cercare di ricordare che la mafia è mafia perché ha rapporti con la politica e perché tenta di infiltrare la politica. Altrimenti, se non tenta di infiltrare la politica e non ha rapporti con la politica, non è più mafia: è semplicemente gangsterismo. Epperò, la tecnica è quella di non parlare di queste cose: c’è sempre qualcuno che vi raccomanda la scatoletta con disegnate sopra le prugne, o l’amaro medicinale, destinati ad assolvere delicate funzioni di regolatori dell’intestino.
IMG Press si distingue per l’attenzione a tematiche spesso trascurate dai grandi media. Quali sono i principi editoriali che guidano le sue scelte nella direzione del quotidiano?
Interrogarsi, indignarsi, capire sono la base delle mie riflessioni. Mi spiace dirlo ma è una razza piuttosto rara, quella dei giornalisti che fanno domande. In questa città da anni stiamo collaudando un nuovo genere letterario: l’intervista senza domande. È chiaro che le domande, quando sono vere domande, danno fastidio. Se un giornalista è un dipendente di chi deve intervistare è chiaro che è meglio che le domande non le faccia o che le faccia finte, tant’è che quasi sempre l’intervistato risponde “la ringrazio per la domanda”. In realtà quando rispondono grazie per la domanda vuol dire che hai sbagliato domanda, per come la vedo io. Per come la vedono loro, vuol dire che hanno fatto la domanda giusta, cioè quella che la persona voleva sentirsi fare o addirittura aveva chiesto di fare. Dipende tutto dal rapporto che c’è fra l’informazione e il potere. In fin dei conti a nessuno fa piacere essere criticati. È chiaro che se l’informazione facesse il suo dovere di sbugiardare i politici bugiardi, quelli o smetterebbero di mentire o almeno ridurrebbero al minimo le menzogne.
La mafia è un tema ricorrente nei suoi scritti, come nel romanzo “Mi chiamo Maurizio sono un bravo ragazzo ho ucciso ottanta persone”. Quali evoluzioni ha osservato nel fenomeno mafioso negli ultimi anni e quali sono le principali difficoltà che il giornalismo investigativo affronta nel raccontarlo oggi?
Ho conosciuto Maurizio Avola durante una intervista per il settimanale Sette – Il Corriere della sera -. E’ nato così il libro “Mi chiamo Maurizio, sono un bravo ragazzo e ho ucciso ottanta persone”. Romanzo testimonianza di una vita e di una logica mafiosa, dove Avola parla a ruota libera di decine e decine di uccisioni a sangue freddo, eseguite tutte rigidamente su commissione della famiglia Santapaola. E’ un libro che raccoglie la testimonianza di una vita che non riesce più a venire a patti con se stessa, rivelandoci il vuoto e il silenzio morale che si nascondono dietro la grottesca maschera dell’uomo d’onore. Dimenticare non è mai la soluzione e ricordare, anche gli errori, è l’unico modo per non sprecare una seconda occasione. E che cos’è la memoria storica se non raccontare i fatti più salienti delle vicende umane per non permettere all’oblio di prendere il sopravvento. Di più. Andare oltre e adottare la memoria critica che seleziona i ricordi in base a un atteggiamento rivolto a capire la vicenda umana, per come si è sviluppata, dando sì voce ai comuni protagonisti mai a degli eroi.
Guardando al futuro, può anticiparci qualche progetto su cui sta lavorando? Quali temi vorrebbe esplorare nei suoi prossimi lavori, sia come giornalista che come scrittore?
Ho delle storie in testa, qualcuna è già pronta per essere scritta e qualche altra è solo una suggestione. Se riuscirò a trasformare i pensieri in un romanzo avrò vinto la scommessa. Tra scrittore e uomo l’intesa è stabilita: ci si rispetta e se tutto procede per il meglio si decide di rimanere insieme fino all’ultima pagina.
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