Con un percorso iniziato negli anni Ottanta, ha esplorato la poesia non solo come espressione artistica, ma anche come strumento di trasformazione personale e formativa. Il suo lavoro pionieristico, documentato nel volume “Avevo un pregiudizio”, ha integrato poesia e disabilità, dimostrando il potere trasformativo del linguaggio poetico. Attiva nei gruppi Poesiaincorso e Poesia dal mondo, ha contribuito a far dialogare culture attraverso pubblicazioni e incontri. In questa intervista, esploriamo il percorso di vita e poetico di una donna che ha fatto della poesia un ponte tra mondi diversi.
a cura di Salvatore Cucinotta
Benvenuta su Che! Intervista Maria Grazia Chinato e grazie per essere con noi oggi. Parlarci un po’ di te.
Grazie a voi davvero, è un piacere. Che dire di me? Penso di essere una donna piuttosto irrequieta, nel senso che sono continuamente alla ricerca di cogliere profondità; nelle cose, nelle relazioni, nelle anime verdi che vivono intorno a me. Cerco attimi d’intense relazioni e anche lunghi silenzi di solitudine. Sono cresciuta in campagna e ho sempre vissuto a stretto contatto con alberi, foglie, muschio, ninfee gialle degli stagni, salamandre e così via; i miei giorni erano pieni di queste esplorazioni. Ma sono cresciuta anche con i racconti fantastici di mio padre, la Divina Commedia che declamava a memoria, gli indovinelli e i giochi linguistici o storie che inventava con una lingua mista di dialetto, italiano, altri dialetti o faceva un misto, inventando un funambolico grammelot. E poi la scuola che ho sempre amato.
Il lavoro come psicologa clinica-psicoterapeuta e tutti quelli che ne sono seguiti: risolvere problemi nei gruppi di lavoro, nelle istituzioni inventando soluzioni che coinvolgessero tutti, insegnare all’università, fare ricerca, hanno influenzato molto il mio fare poesia, ma anche il contrario; entrambi gli ambiti sono creazioni e fanno parte di una ricerca continua di lasciar parlare le realtà che incontro, instaurando relazioni e adottando un linguaggio che generino possibilità di trasformazioni positive.
Ho sempre avuto la necessità di capire cos’è poesia per me e che rapporto ha con la mia vita, non volendo relegarla a parentesi quotidiana. Successivamente sono arrivata a volere una vita poetica, intesa come il più possibile attenta alle piccole cose, ai respiri relazionali, alle creature intorno. Cerco un atteggiamento e un linguaggio che consentano un nuovo emergere della vita.
La tua attività poetica affonda le radici negli anni Ottanta. Cosa ti ha avvicinato alla poesia e cosa ti spinge, ancora oggi, a scrivere?
L’esordio poetico è avvenuto intorno agli otto/nove anni, in realtà, (come per molti, credo), ma poi un increscioso episodio familiare me l’ha fatta abbandonare fino ai vent’anni circa, quando accanto al vivere relazioni amorose intense, ho cominciato la mia attività professionale in un servizio psichiatrico. Le circostanze tra l’infanzia e gli anni ottanta, sono state le medesime: l’incontro con la sofferenza e l’impossibilità di poterla contenere nel linguaggio quotidiano. Il trauma incarnato in corpi e vite diverse che incontravo nella professione, le forti emozioni che vivevo, tutto questo era, per me ‘materia viva’. E questa mi chiedeva di vederla, di avvertirla anche nei piccoli fatti, in piccole sequenze relazionali, mi chiedeva di dirsi con parole vive che esprimessero con forza la necessità di essere visti da altri, per esistere.
Così, mano a mano che cresceva la mia competenza professionale, cresceva anche la necessità di un linguaggio diverso, lontano da quello disciplinare e diagnostico, per dire quelle realtà.
Che cosa mi spinge ancora oggi a scrivere? Credo sia una pratica che si è configurata in me come ricerca continua, contemplativa e curiosa, senza la quale ancora non so vivere.
Il tuo libro ‘Avevo un pregiudizio’ racconta un viaggio tra poesia e formazione. Qual è stata la scintilla che ha acceso questa ricerca e quali sono stati i risultati più significativi?
Ho cercato di portare al linguaggio un’esperienza allora unica nel panorama della formazione: un laboratorio poetico (invenzione di una formatrice) con ragazze e ragazzi con disabilità cognitiva medio e medio-grave. Ero consulente all’équipe in questa struttura e i risultati poetici mi hanno indotto a fare una ricerca con i formatori e i ragazzi per capire come ciò poteva accadere: individuare le basi metodologiche ed epistemologiche della formatrice e indagare se la poesia aveva portato delle trasformazioni (ed eventualmente quali) nei ragazzi e all’ambiente scolastico intero.
Risultati? Molti, riassumerei dicendo che la trasformazione nei ragazzi si è rivelata nell’arrivo di una buona conoscenza di se stessi e dei compagni; a livello psicologico i risultati si sono visti in un buon aumento di autostima, d’autonomia, di fiducia in sé e nell’istituzione scolastica. E nell’ambiente scolastico la trasformazione è avvenuta in ogni formatore, in me e si è inoltre allargata ai familiari e agli operatori del territorio che seguivano questi ragazzi, abbattendo i nostri pregiudizi nei loro confronti conoscendoli più in profondità.
L’incontro con i giovani con disabilità ha segnato una svolta importante nel tuo percorso. Come ha influenzato la tua visione della poesia e del suo potenziale trasformativo?
Quando ho letto le poesie di questi ragazzi sono rimasta fortemente sorpresa, meravigliata, anche turbata di fronte a una bellezza poetica e una profondità che non mi aspettavo; è stato bellissimo. E così, queste poesie hanno scalfito anche il mio ultimo pregiudizio nei loro confronti.
Ma così, ho anche imparato a vedere la poesia là dove si trova, immediatamente data, senza mediazioni letterarie o filosofiche, anche nelle azioni quotidiane, anche negli ambienti di lavoro, solo, come direbbe Bobin, nell’accadere. Ho imparato che occorre essere continuamente aperti alla possibilità che la meraviglia ci sorprenda e con essa la poesia, in tutti i risvolti del sentire, nell’immediatezza. Con forza ho trovato in queste voci come la poesia stia nel minuscolo e impercettibile scorrere della vita, stia nel nostro essere, semplicemente umani, un piacere empatico che stabilisce un contatto con l’incomunicabile.
Scrivere di quest’esperienza poi, mi ha obbligato a trovare una forma di scrittura che potesse sia rendere testimonianza, sia proteggere e anche far entrare chi legge nell’atmosfera di quel laboratorio e conoscere i ragazzi. La struttura del volume che ne è uscita, dopo anni di ricerca e lavoro, presenta più registri linguistici e l’articolazione di una storia a presenze molteplici che conserva lo spessore della ricerca, ma anche la bellezza del registro narrativo e poetico – nell’idea di rendere il libro esso stesso una specie di laboratorio capace di innescare vicinanza e cambiamenti di prospettive. E tutte queste sono state trasformazioni forti che senza la loro poesia e questo laboratorio non sarebbero avvenute.
Fai parte di due gruppi poetici, Poesiaincorso e Poesia dal mondo. Qual è l’importanza di lavorare in comunità per te e per il tuo percorso creativo?
Nell’uno e nell’altro, parliamo di esperienze lunghe più di quindici anni, il primo l’ho lasciato quattro anni fa. La bellezza è in molte sfaccettature: il lavoro poetico è personale, solitario, ma leggere le proprie poesie, composte da poco, in un gruppo è trovarsi in un piccolo mondo sodale, che non vuol dire certo privo di critiche, ma che senti accogliente. Nei nostri ritiri poetici portiamo le nostre ultime letture, contributi sulla poesia e godiamo di silenzi ‘operosi’ dove ognuno scrive. L’importanza di trovarsi in gruppo per me sta nel portare avanti una ricerca sulla poesia che concorra ad approfondire la poetica di ciascuno e poi godere delle nostre relazioni poetiche, conoscersi attraverso esse, non per altri rapporti. E questo arricchimento diventa molto grande con le donne di altri paesi e culture; incontrarle attraverso le loro poesie, andare con loro verso la forma poetica in italiano, è quanto di più profondo c’è nell’avvicinarsi anche alla loro cultura, attraverso voci vive di donne i cui corpi sono lì, vicino al tuo e le parole arrivano con i loro fiati, diritte all’anima; stare lì, l’ho chiamato stare in un confine abitato, insieme, tra le lingue.
Grazie a questo gruppo io sono arrivata alla mia lingua in poesia, il dialetto. E sono tornata là dove stava la mia lingua d’infanzia, espressioni che per prime ho imparato, parole che avevano più corpo che significato. E questo è successo perché mi sono esposta a poesie in lingue che non conoscevo; c’è stato un movimento sicuramente profondo che mi ha messo in moto un mondo di assonanze. Ero attenta al solo suono, alla musicalità, ai ritmi, agli arresti, al silenzio, a quelle impunture, quelle incrinature di voce che avvertivo quando ogni poeta leggeva le proprie poesie, erano ricche di sensazioni e davano un’emozione forte.
Tra le raccolte che hai pubblicato con Poesia dal mondo spiccano Le lingue si parlano e Puri suoni. Come nasce l’idea di intrecciare culture diverse attraverso la poesia?
Tre di noi avevano l’esperienza del vivere nel gruppo di Poesiaincorso, ed eravamo parte del Centro Interculturale “Casa di Ramia” di Verona dove s’incontrano donne del mondo e s’inventano attività da fare insieme e a una di noi (Elizabeth Jankowski) venne quest’idea. Ora, dopo anni di esistenza, di letture in città e fuori, nonché seminari, possiamo dire che la presenza di questo gruppo è anche un atto simbolico che si rivolge alle estraneità per trasformarle in scambi, nonché interessante presenza politica del vivere insieme.
Nel tuo libro Annotazioni di un’assenza affronti tematiche intime e profonde. Quali sono le principali ispirazioni dietro questa raccolta e come hai affrontato la stesura?
E’ un diario poetico dell’assenza di mia madre, anzi della sua presenza, del suo perdurare ‘fisico’ dentro di me. E’ mancata a una bella età, credevo di essere pronta e non mi aspettavo il dolore sordo che è arrivato. La poesia nomina quello che mi succedeva nella quotidianità: i momenti d’irrealtà, gli sfasamenti temporali, le incapacità e le intolleranze, ma anche i luoghi, i gesti, gli odori d’infanzia, il suo carattere e le sue passioni. La forma diaristica mi si è imposta subito, e poi l’ho scelta come forma definitiva, stando su una lingua semplice, diretta, per essere quanto più prossima alle cose, a mia madre, alla sua vita quotidiana e alla nostra, insieme. Anche la lingua della poesia ho voluto rendesse conto dell’assenza facendo spazio al vuoto: le pagine scritte sono immerse in molto spazio bianco; così l’afasia e il vuoto diventano evidenti in molte pagine dove c’è solo un verso, o un frammento di verso.
Poi finisco con poesie in dialetto che invece si dispiegano nella pagina dando conto della mia modificazione in questo processo di attraversamento del dolore, ma anche del ricomporsi della mia eredità materna, il senso dell’origine e del mio luogo.
Hai lavorato come docente universitaria e psicologa clinica. Come queste professioni hanno influenzato la tua scrittura poetica e la tua visione della poesia come strumento di formazione?
Mi è sempre piaciuto incontrare gli altri, contribuire con altri a piccoli o grandi cambiamenti e sia insegnare sia lavorare come psicologa me l’hanno permesso, è stato sicuramente affascinante e molto creativo perché mi hanno consentito di approfondire vicinanze con persone e istituzioni molto diverse, fare ricerca da sola e con loro, scrivere e portare altri alla scrittura intorno al loro lavoro. Credo che maturare questo tipo d’incontri mi abbia molto arricchito, sia umanamente che professionalmente e la poesia è dentro a tutto ciò, sia come veicolo di confronto e scambio, sia come mia poetica; una poetica delle relazioni.
Hai tenuto convegni e letture pubbliche in diversi contesti. Cosa significa per te condividere la poesia dal vivo con un pubblico e quale messaggio vuoi trasmettere?
Condividere con altre persone presenti è il senso dell’incontro, condividere la poesia è per me stare dentro un movimento di partecipazione. Non voglio trasmettere nessun messaggio, solo mi piacerebbe far accadere quella magica, piccola ma profonda sensazione di comunione. Proporre poesia è un arricchimento spirituale, o come ha detto Zanzotto, forse la poesia ‘ostinata a sperare’, è forza spirituale nel movimento che fa di accrescere la realtà.
“Loro due” è il tuo ultimo libro. Com’è nato e quali sono state le tue sensazioni?
La raccolta racchiude poesie nate dal febbraio 2020, tempo di pandemia. In quel periodo fatto di sospensione del corpo dalle relazioni, il tempo, le sue molte tracce, le emozioni, è stato, per me un tema che si è imposto con molta forza. Loro due è un racconto di un incontro trattenuto da fili poetici che legano desiderio, parole e assenze, nel tempo in cui la morte compare vicina. Tempo di tempi che si sovrappongono: reale e immaginario corre tra questi protagonisti e li fa vivere e rivivere e tuffarsi in un presente continuo. Loro sono due, ma anche molti ‘due’. Forse si è trattato d’inseguire la vita e stare in un tempo che mi appartenesse ancora, quello che li comprende tutti, è qui, è un tempo fermo, assoluto e ciclico. Il lungo lavoro che è seguito alla prima stesura è servito a far emergere un’erotica delle relazioni (come ha ben evidenziato Annarosa Buttarelli) e lo stretto legame con la natura (i platani, i cieli, il pruno del mio giardino, gli argini) che mi ha insegnato a ritrovare una misura del senso pieno del vivere, per affrontare la sofferenza alla continua trasformazione delle cose.
Quali progetti stai coltivando e come pensi che la poesia possa continuare a essere un mezzo di dialogo e trasformazione?
Rispetto al fare poesia, sto continuando a lavorare a un progetto iniziato molti anni fa che vorrei finalmente finire; riguarda alcune donne fortemente provate dalla vita che al mio sguardo rincorrono, o forse già impersonano -per natura, scelta, per impossibilità d’altro o obbligo- delle condizioni quali la volontà, la parola, la libertà, un corpo parlante, e altre.
E poi voglio continuare a presentare il mio LORO DUE in giro, incontrare tramite la poesia altre e altri, stare in quel movimento intimo e universale che la poesia, a volte, sa creare tra noi, togliendoci dalla solitudine per godere della parola che è soprattutto presenza. Godere insieme di questi attimi di comprensione che arricchiscono l’anima e aiutano dialogo e trasformazione; per questo sto anche progettando incontri poetici nella mia città in luoghi inconsueti.
Grazie Maria Grazia del tuo tempo! Complimenti per la tua carriera!
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