La sua è una ricerca silenziosa, profonda, che attraversa il visibile per lasciar affiorare l’invisibile.
Guidata da una sensibilità spirituale Loredana ha trasformato la fotografia in un gesto esistenziale, lontano dalle logiche della rappresentazione. Il suo percorso artistico è un cammino meditativo, un atto di resistenza contro l’ovvio, una testimonianza dell’enigma che abita ogni forma.

Introduzione a cura di Salvatore Cucinotta
Intervista a cura di Noemi Aloisi


Benvenuta su Che! Intervista, Loredana, come ti sei avvicinata alla fotografia?
La passione per la fotografia mi accompagna sin da quando ero bambina. È un amore che è cresciuto con me nel tempo, alimentato da una costante curiosità verso il mondo delle immagini. Ho coltivato questo interesse con dedizione, da autodidatta, lasciando che si evolvesse in armonia con il mio percorso personale e artistico.

Grazie ai Maestri “Franco Bertossa” e “Beatrice Benfenati” dell’Associazione ASIA di Bologna, hai appreso diverse pratiche, come ad esempio il Ki-Aikido, lo Yoga e la Meditazione di ispirazione buddhista. Che impatto hanno avuto nella tua vita queste pratiche e come mai le hai iniziate?
Durante il mio percorso artistico ho attraversato un periodo in cui la percezione delle immagini erano come bagliori improvvisi, istanti folgoranti, al contempo distanti e coinvolgenti.
Era come se la realtà , all’improvviso — si spogliasse delle sue apparenze consuete per rivelarsi sotto una luce selvaggia, primordiale, capace di incrinare le certezze del mio conoscere.
Avvertivo qualcosa di  sottile, che sembrava voler emergere, ma che puntualmente sfuggiva. Ogni tentativo di afferrarlo con la fotografia si dissolveva, come nebbia al primo contatto.
A mancare non era l’immagine, ma nell’immagine stessa a mancare era il senso stesso dell’immagine: le cose apparivano; si, ma custodivano dentro di sé un segreto muto, inaccessibile.
Poi, l’incontro con gli insegnamenti dei Maestri Franco Bertossa e Beatrice Benfenati ha aperto una fenditura luminosa nella mia ricerca. A loro va la mia più profonda gratitudine.
Hanno rivoluzionato il mio modo di guardare, portandomi a un vedere disarmato, privo dei filtri abituali del pensiero. Hanno acceso in me la capacità di sostare nel dubbio, di abitare quella sospensione in cui la mente smette di afferrare per lasciar emergere ciò che si manifesta nel suo Mistero.
Attraverso di loro ho compreso che l’immagine, quando nasce da un luogo originario, non deve spiegare né convincere, ma evocare. Deve aprire una ferita fertile, uno spazio in cui la domanda possa sorgere.
La fotografia è divenuta, così, non un semplice mezzo, ma un gesto essenziale, un atto esistenziale: il tentativo di restare, in quel confine senza un significato imposto. In questa visione, fotografare è ascoltare. È stare nel mondo con la disponibilità radicale di uno sguardo che può dischiudere a verità inaspettate.

Come ha influito il tuo percorso spirituale sulla fotografia?
L’arte fotografica, da semplice atto rappresentativo, si è trasformata per me in una pratica meditativa, un cammino attraverso cui riconoscere l’invisibile nel visibile, il Mistero che si cela nelle forme più ordinarie. Questa trasformazione ha ampliato profondamente il mio sguardo, spalancandomi prospettive prima sconosciute, come se il mondo, ogni volta, tornasse a svelarsi nella sua luce originaria —vera.

Ci sono dei soggetti in particolare che preferisci fotografare?
Non ho soggetti o temi privilegiati. Qualsiasi cosa può essere fotografata, perché ciò che mi interessa non è l’oggetto in sé, ma il momento in cui qualcosa — qualsiasi cosa — si manifesta con quella luce che la sottrae all’ovvio, rivelandola nella sua radicale inconoscibilità. È in quell’attimo che l’immagine si fa apparizione, non perché dica qualcosa, ma proprio non dicendo lascia trasparire l’Enigma del suo esser-ci. Dalle cose più umili a quelle apparentemente più elevate, nulla sfugge a questa condizione di fondo: ogni cosa, me compresa. Non cerco significati da afferrare, ma segni di un senso che si ritrae, che si nega. In questo orizzonte, la fotografia diventa atto: non rappresentazione, ma testimonianza dell’esser-ci di  ogni forma. È in questo sguardo disincantato, eppure profondamente presente, che riconosco il cuore della mia pratica artistica: cogliere ciò che si mostra non per spiegarlo, ma per lasciarlo essere nella sua irriducibile oscurità.

Quali attrezzature utilizzi per realizzare i tuoi scatti?
Non do particolare rilevanza all’aspetto tecnico. Sono convinta che il valore autentico di una fotografia risieda nel significato che riesce a evocare, non nello strumento con cui è stata realizzata. Quando si riesce a cogliere davvero il senso profondo di ciò che appare, ogni mezzo diventa adeguato — anche il più semplice o obsoleto.
È per questo che continuo a utilizzare la mia vecchia Nikon Coolpix P610: nonostante i suoi limiti, è con lei che riesco a entrare in sintonia con ciò che vedo senza mediazioni superflue.
È uno strumento familiare, quasi silenzioso, che mi permette di restare fedele a quello “sguardo” che guida ogni mio scatto.

Cosa rappresenta per te l’atto fotografico?
È un gesto di attesa, di ascolto, di risonanza silenziosa con la non-ovvietà del mondo. Immaginatemi mentre cammino per le strade di una città. A volte una scena cattura il mio sguardo, ma non alzo subito la macchina fotografica. Rimango lì, osservo. Poi proseguo.
Se quella visione continua a risuonare dentro di me, se nei giorni successivi ritorna — non solo nella realtà, ma nel pensiero, nel ricordo — allora forse torno anch’io, e solo allora, forse, scatto.
Non inseguo immagini belle, decorative o accattivanti.
Ciò che cerco è un momento di verità: quell’attimo raro in cui la realtà si libera dalle maschere che la mente le impone e si offre, nuda, nel suo attimo originario.
È un’apparizione fragile, un’apertura improvvisa che dura un istante e poi si richiude.
L’atto fotografico, per me, è un modo per trattenere quel battito di Mistero nel tempo. È per me un gesto necessario, quasi inevitabile, per dare forma a qualcosa che altrimenti svanirebbe senza lasciare traccia. E quando accade davvero, quando lo scatto riesce a contenere quell’attimo autentico, la fotografia smette di essere immagine: diventa poesia, respiro, testimonianza. E’ in quel frammento che la vita si fa degna di essere vissuta.

Tra le varie esposizioni che hai fatto, ce ne sono state alcune di cui vai più fiera?
Sicuramente ricordo con piacere la partecipazione alla mostra    “La Versiliana 2012 – curata da  Oliviero Toscani  per il Fatto Quotidiano
Nel 2021 ho esposto a Milano con : L’essenziale è invisibile,  presso il Tempio del futuro perduto, all’interno del progetto curatoriale LEKORU
Più recentemente, nel 2024 – alcune mie opere sono state selezionate per Somewhere Mostra d’arte Internazionale, presso CMC Centro Culturale Milano, a cura di Massimiliano Sista fondatore di  ArteMida Experience

Le tue foto sono state pubblicate anche su diversi cataloghi, vuoi citarne qualcuno?
Certo. Nel 2022 una mia fotografia è stata inclusa nel catalogo Out of the Frame della The Glasgow Gallery of Photography ,  
Nel 2023 e nel 2024 sono stata pubblicata dalla  rivista ARTDOC Photography per le call Magazine  per la Call “ Image and Identity” eThe Unobserved
E nel 2025 una mia serie è presente col progetto  “Nus des sens della rivista internazionale  L’Oeil de la Photographie 

Hai mai deciso di vendere le tue fotografie o preferisci conservarle come un’espressione personale, senza condividerle commercialmente?
Separarmi da una fotografia è sempre un gesto denso, quasi viscerale. È come se strappassi via un frammento di me, una parte della mia pelle che ha assorbito luce, tempo, silenzio. Ogni scatto che lascio andare porta con sé un pezzo della mia interiorità, un’emozione sedimentata, un’esperienza che ha trovato forma nell’immagine.
Non è solo un oggetto che affido a qualcun altro — è un legame che si scioglie, un ricordo che prende il volo. Ogni distacco è un piccolo lutto, e allo stesso tempo un atto d’amore: offro qualcosa di intimo, qualcosa che ho vissuto profondamente, affinché possa continuare a vivere altrove, negli occhi e nel cuore di chi guarda.

Al momento stai lavorando a nuovi progetti, vuoi anticiparci qualcosa?
Attualmente sto sviluppando un progetto che indaga la condizione esistenziale dell’essere umano, addentrandosi nel territorio oscuro dello smarrimento che emerge quando si è costretti a confrontarsi con gli abissi interiori. Quegli abissi che non offrono risposte, ma domande profonde; che non consolano, ma disarmano. Sono fenditure silenziose in cui il senso vacilla e la coscienza si scopre fragile, esposta, priva di ancoraggi stabili. La mia ricerca attraversa la realtà nella sua frammentazione, perché è lì — tra le crepe dell’apparenza — che la percezione rivela la sua vera natura: non uno strumento per comprendere, ma un atto che continuamente disfa e riscrive ciò che credevamo di sapere.
Ogni immagine che produco si muove in uno spazio visivo sospeso, muto, dove il non detto pesa più del detto, e il visibile diventa un varco verso ciò che non è mai visibile.
È un lavoro in costante mutazione, un processo aperto che si plasma con il mio stesso divenire, alimentato dalle mie inquietudini, dai miei vuoti, dalle domande che restano senza risposta. Una ricerca che non cerca salvezza, ma autenticità nel naufragio.

Grazie Loredana! Complimenti per tutto!
L.S. Grazie a voi, è stato un piacere condividere parte del mio percorso.

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