Marco Bosco: la musica, il teatro e l’arte della direzione orchestrale

Marco Bosco è un musicista, direttore musicale e pianista che ha costruito una carriera impressionante nel mondo del musical e del teatro. Con una formazione eccellente, culminata nei suoi studi al Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma, Bosco ha collaborato con grandi produzioni nazionali e internazionali, dirigendo e assistendo musical come Mary Poppins, Pretty Woman, e Chicago. Oltre al suo lavoro sul palco, è anche un appassionato docente nelle più importanti accademie di teatro musicale italiane e internazionali, dove trasmette la sua esperienza alle nuove generazioni. In questa intervista esploreremo il suo percorso artistico e professionale, le sfide della direzione musicale e il suo amore per il palcoscenico.

a cura di Antonio Capua


Marco, hai lavorato con alcuni dei musical più iconici come Mary Poppins e Pretty Woman. Come cambia il tuo approccio musicale a seconda dello spettacolo che dirigi? C’è un musical che ti ha richiesto un maggiore adattamento creativo?
Nel corso degli anni ho avuto la fortuna di lavorare a molti spettacoli, ognuno con sfide uniche da affrontare. Ogni produzione rappresenta un mondo a sé e richiede spirito di adattamento, creatività e immaginazione. Se però devo scegliere uno spettacolo in cui ho dovuto mettermi alla prova maggiormente sul piano creativo, direi “Serial Killer per Signora” (No Way to Treat a Lady) nel 2015, con Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia.

Le musiche di Douglas J. Cohen sono estremamente complesse, sia nella memorizzazione sia nella fruizione. Non sono immediate e rappresentano una sfida enorme, sia per i performer che per il pubblico. Questo mi ha spinto a lavorare intensamente per trovare soluzioni creative che potessero valorizzare al meglio il lavoro musicale e allo stesso tempo rendere l’esperienza più accessibile. È stato un progetto davvero stimolante e impegnativo, che ricordo con grande soddisfazione.

Hai diretto sia orchestre sinfoniche che ensemble più ridotti per colonne sonore di film e musical. Quali sono le differenze principali nel dirigere questi due tipi di formazioni? E quale preferisci?
La differenza tra un’orchestra sinfonica e una compagine più ridotta è enorme. Cambia tutto: l’approccio con i colleghi, con me stesso e con la musica.

Dirigere una grande orchestra sinfonica richiede massima concentrazione, idee molto chiare e assoluta determinazione. Ci si trova davanti 40 o 50 persone, professionisti che pendono letteralmente dalle tue mani, le quali diventano il prolungamento della tua espressione e della tua idea musicale. È una responsabilità enorme: da un lato verso il pubblico, dall’altro verso i musicisti, che si affidano completamente a te e seguono la tua guida, persino se volessi portarli metaforicamente dentro un baratro. È un’esperienza intensa e totalizzante.

In una compagine più ridotta, invece, cambia completamente il clima. Si crea un ambiente più intimo, fatto di complicità e scambio creativo. Con un numero limitato di musicisti si può instaurare una cooperazione continua, dove ognuno ha un ruolo di pari importanza e l’empatia diventa fondamentale, anzi, quasi dovuta. È un lavoro di squadra in cui la comunicazione e l’intesa personale fanno la differenza.

Mi chiedi quale preferisco? A dire il vero non ho una preferenza: sono due mondi completamente differenti, ma entrambi straordinari. Amo viverli e lasciarmi arricchire da ciò che ciascuno di essi può offrire.

Nel corso della tua carriera hai collaborato con produzioni italiane e internazionali. In cosa ritieni che si differenzino i due approcci al teatro musicale? Cosa possiamo imparare dalle produzioni internazionali?
La differenza di approccio al lavoro tra una produzione nazionale e una internazionale è abissale. Non voglio dire che una sia meglio dell’altra; al contrario, credo che entrambe possano imparare molto l’una dall’altra.

Le produzioni internazionali con cui ho avuto modo di lavorare si distinguono per un approccio più serio, organizzato e rodato. Hanno alle spalle un’esperienza consolidata nell’entertainment e una consapevolezza molto chiara di ciò che funziona e ciò che no. Inoltre, grazie alle solide basi economiche di cui dispongono, possono permettersi comodità che da noi spesso sono un lusso: scene e costumi sontuosi, una cura del dettaglio straordinaria e un organigramma ben strutturato con tutte le figure necessarie per garantire un’organizzazione efficiente e agile.

D’altro canto, ciò che manca spesso nelle produzioni internazionali è quel calore tutto italiano, quella sensazione di grande famiglia che si crea nei nostri team di lavoro. In Italia c’è un senso di collaborazione unico, dove tutti mettono del proprio per superare le difficoltà.

Devo dire, però, che negli ultimi vent’anni ho visto un enorme progresso nelle produzioni nazionali. L’organizzazione è sempre più solida, il numero di figure professionali formate è in costante crescita, e stiamo adottando un linguaggio sempre più internazionale nel fare musical. Si sta creando una vera e propria prassi esecutiva, e questo ci sta avvicinando molto agli standard internazionali.

Quello che possiamo imparare dalle produzioni estere, con grande umiltà, è il coraggio. Il coraggio di osare con titoli ambiziosi, quelli che richiedono un enorme sforzo produttivo ma che, se ben fatti, possono portare risultati straordinari al botteghino. Ecco, in Italia credo che manchi ancora un po’ di quel coraggio.

Hai ricoperto molti ruoli importanti come assistente alla direzione musicale, pianista e vocal coach. Quale di questi ruoli ti ha insegnato di più e come si intersecano tra loro nel processo creativo di uno spettacolo?
Il ruolo che più ha marcato il mio percorso artistico è stato, senza dubbio, quello di Assistente alla Direzione Musicale. Ho avuto la fortuna di lavorare al fianco di direttori musicali estremamente preparati e competenti, che mi hanno insegnato questo mestiere direttamente sul campo.

Il direttore musicale e il suo assistente hanno un ruolo cruciale durante l’allestimento di uno spettacolo. Sono loro a dare vita alla colonna sonora, che è il cuore pulsante di ogni musical. Inoltre, una volta che lo spettacolo va in scena, hanno la grande responsabilità di “traghettare” tutti – come un moderno Caronte sul fiume Stige – fino alla fine dello spettacolo, garantendo che tutto scorra in armonia.

Il loro lavoro inizia fin dagli allestimenti, dove collaborano strettamente con i pianisti. Questi ultimi sono i primi esecutori di ciò che diventerà l’arrangiamento orchestrale definitivo durante le rappresentazioni. In questa fase, è fondamentale che il direttore musicale e il suo assistente aiutino i performer a comprendere ciò che dovranno ascoltare in scena, per prepararli al meglio.

Un’altra figura chiave è il vocal coach, che supporta gli artisti durante la preparazione, aiutandoli a superare eventuali difficoltà tecniche e a raggiungere la resa vocale ideale per il personaggio che andranno a interpretare.

Questi ruoli sono strettamente interconnessi, come ingranaggi di un orologio. Solo lavorando insieme in perfetta sintonia si può creare quella “sinfonia” che rende uno spettacolo un’esperienza indimenticabile.

Oltre al tuo lavoro di direttore musicale, sei un insegnante dedicato. Cosa ti spinge a dedicarti alla formazione e cosa speri di trasmettere ai tuoi studenti, sia dal punto di vista tecnico che emotivo?
La prima cosa che mi muove profondamente nel voler insegnare è la passione autentica per il mio mestiere. Ogni lezione, per me, è molto più di un semplice trasferimento di conoscenze: è un’occasione per creare un ponte tra la mia esperienza e il percorso unico di ogni allievo. Insegnare non significa solo trasmettere la tecnica musicale o guidare verso la corretta interpretazione di un brano; è, prima di tutto, un atto di condivisione.

Cerco di portare in ogni lezione il bagaglio di esperienze che ho maturato nel corso della mia carriera, raccontando casi reali, affrontando situazioni concrete e proponendo soluzioni ai problemi che ho incontrato. Credo che l’apprendimento più significativo avvenga quando gli allievi non solo comprendono la teoria, ma riescono a immergersi nella realtà pratica del mestiere, facendo tesoro delle sfide e delle vittorie che io stesso ho vissuto.

Mi piace pensare alle mie lezioni come a un dialogo continuo, dove il sapere tecnico si intreccia con la mia storia personale, creando un ambiente ricco di ispirazione e crescita. Per me, il dono più grande è vedere i miei allievi crescere, non solo come artisti, ma anche come individui arricchiti da un rapporto profondo e autentico con la musica.

Hai lavorato su produzioni classiche come Traviata di Verdi e Carmen di Bizet. Come affronti la sfida di mantenere l’integrità di queste opere pur aggiungendo il tuo tocco personale come direttore musicale?
Quando lavoro su produzioni classiche come La Traviata di Verdi o Carmen di Bizet, il mio approccio parte sempre dallo studio approfondito dell’opera. Mi immergo nel mondo sonoro del compositore, cercando di comprendere le intenzioni originali e il contesto storico in cui è nata la musica. Questo processo è fondamentale per rispettare l’integrità dell’opera.

Allo stesso tempo, credo che ogni direttore porti inevitabilmente qualcosa di sé nella sua interpretazione. La mia sensibilità entra in gioco nel modo in cui scelgo di valorizzare determinati momenti, nel rapporto con i cantanti e l’orchestra, e nella capacità di far emergere l’umanità e la modernità che ancora risuonano in queste storie senza tempo. È un equilibrio delicato, ma è anche ciò che rende vivo il processo artistico.

La tua carriera è stata ricca di collaborazioni con registi di alto profilo. C’è un regista con cui hai lavorato che ti ha particolarmente influenzato nel tuo modo di vedere la musica e il teatro?
Sì, senza dubbio la regista che mi ha particolarmente influenzato è Chiara Noschese. Con lei ho capito l’importanza assoluta delle parole nel teatro musicale.

Ricordo in particolare un episodio di qualche anno fa, mentre lavoravamo a Sister Act. Passammo un intero pomeriggio con l’attrice che interpretava Suor Maria Roberta per montare la canzone The Life I Never Led. Ci soffermammo su ogni singola parola, su ogni sfumatura, analizzando ogni dettaglio con una cura quasi maniacale. Quello che inizialmente sembrava un lavoro complicatissimo – soprattutto per l’attrice, che doveva memorizzare una lunga sequenza di gesti e azioni – si trasformò poco dopo in qualcosa di assolutamente naturale.

Una volta uniti musica, parole e movimenti, l’interpretazione prese vita come se fosse una manifestazione spontanea delle emozioni del personaggio. È stato un momento magico e illuminante: ho compreso quanto sia fondamentale, nel teatro musicale, che ogni elemento narrativo e musicale trovi il suo equilibrio perfetto.

Se devo nominare un regista che ha completamente rivoluzionato il mio modo di intendere la musica nel teatro musicale, non posso che dire Chiara Noschese. Il suo approccio ha lasciato un segno indelebile sul mio percorso.

Con la tua Broadway Musical Orchestra hai esplorato anche il repertorio di colonne sonore. Qual è la sfida più grande nel portare la magia del cinema sul palco dal vivo, e come si differenzia dal dirigere un musical tradizionale?
La sfida più grande nel portare la magia del cinema sul palco dal vivo è sicuramente l’altissima aspettativa del pubblico. Le colonne sonore, soprattutto quelle dei grandi classici, hanno un carattere ‘nazional-popolare’: sono amate da tutti, profondamente radicate nell’immaginario collettivo, e spesso legate a momenti personali o emozioni forti. Questo crea una sorta di responsabilità: sai di dover rendere giustizia a quelle musiche che per molti sono intoccabili.

Rispetto a un musical tradizionale, dove la musica si sviluppa all’interno della narrazione teatrale, le colonne sonore richiedono un approccio diverso. Bisogna riuscire a evocare l’atmosfera del film e trasportare il pubblico in quel mondo immaginario senza l’ausilio delle immagini. È un lavoro di grande precisione e sensibilità, che implica sia il rispetto delle orchestrazioni originali, sia la capacità di ricreare quella magia nel contesto unico del live.

Il segreto sta nel trovare un equilibrio tra fedeltà e interpretazione, cercando di cogliere l’essenza emotiva di quelle musiche e farle rivivere in modo autentico, senza deludere le aspettative di chi le conosce e le ama.

La musica per te è un’arte o una scienza? Come riesci a bilanciare l’aspetto tecnico con quello emotivo quando dirigi una produzione complessa?
È una domanda difficile, almeno per me, perché scegliere tra arte e scienza nella musica sarebbe come chiedere di affidarsi a uno solo dei cinque sensi, senza poterli usare insieme. La musica vive proprio nell’incontro tra tecnica ed emozione: non puoi avere l’una senza l’altra.

Quando dirigo una produzione complessa, il bilanciamento nasce dal rispetto per entrambi questi aspetti. La preparazione tecnica è fondamentale per costruire una solida base: studiare la partitura, capire le dinamiche, lavorare con l’orchestra e i cantanti per raggiungere precisione ed equilibrio. Ma è altrettanto importante lasciare spazio all’interpretazione emotiva, a quel qualcosa che dà vita alla musica e la rende capace di toccare il pubblico.

In definitiva, per me la musica non è mai solo arte o scienza, ma il risultato di un dialogo costante tra i due.

C’è un musical o una composizione che sogni di dirigere, o una nuova sfida che ti piacerebbe affrontare nel tuo percorso artistico?
Se dovessi scegliere un musical che sogno di dirigere, sarebbe sicuramente Wicked. Ricordo ancora la prima volta che lo vidi a Londra: fu un’esperienza quasi magica. Mi sentivo come se fossi nel posto giusto, immerso in una storia che parlava anche di me. In molti aspetti, mi sento simile a quei personaggi, soprattutto al percorso di Elphaba, la sua lotta per essere accettata e fedele a se stessa. È un musical che smuove qualcosa di profondo, un intreccio di emozioni difficili da descrivere a parole. La forza dei suoi temi – il coraggio di essere diversi, l’amicizia, e il sacrificio per le proprie convinzioni – mi colpisce ogni volta.

Dirigere Wicked sarebbe una sfida immensa, ma anche un’opportunità incredibile per raccontare questa storia con la mia sensibilità. Chissà… ‘Anything Can Happen if You Let It‘.

Grazie Marco e complimenti per il lavoro che svolgi con tanta passione
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