Direttore d’orchestra, direttore artistico e divulgatore culturale, Marco Seco è un punto di riferimento nel panorama musicale italiano e internazionale. La sua missione è chiara: portare la musica classica oltre i suoi confini tradizionali, coinvolgendo le nuove generazioni e valorizzando il legame tra la musica e altre arti. Con un approccio multidisciplinare, Seco ha dato vita a progetti culturali unici, come le rassegne immersive al MUDEC di Milano e le residenze musicali nelle periferie di Milano. In questa intervista, esploreremo il suo percorso e la sua visione artistica.
a cura di Salvatore Cucinotta
Benvenuto, Marco, e grazie per essere qui con noi. La tua carriera è un esempio di come la musica possa essere accessibile e innovativa. Com’è nata la tua passione per la musica e cosa ti ha portato a scegliere la direzione d’orchestra come percorso principale?
In modo naturale, ero molto giovane non avevo più di 6 anni quando ho partecipato a un concerto di pianoforte per la prima volta. Da lì in poi non ho mai pensato ad altro che ha fare il musicista. La direzione d’orchestra è stata una conseguenza agli anni di studio, durante gli studi di composizione nacque il fascino per il suono e passavo ore ad ascoltare le prove per riuscire a capire le possibilità espressive di ogni strumento e gli impasti tra loro. Durante quel periodo crebbe il fascino del repertorio sinfonico e lirico e sono stato sedotto dalla possibilità di plasmare una idea musicale collettiva. L’energia che si crea è l’opportunità di modularla ha un impatto emotivo paragonabile soltanto alla passione di un amore.
Sei direttore artistico della Fondazione LaFil Filarmonica di Milano e della Società dei concerti di Trieste. Come riesci a conciliare il ruolo di direttore artistico con la tua attività di direttore d’orchestra, e quali sono le sfide più grandi in questi due ruoli?
Sono ruoli che si avvicendano, soprattutto oggi dove ogni artista è anche direttore artistico e comunicatore di se stesso. Durante un periodo del novecento i ruoli erano più specifici, oggi siamo in un’epoca che guarda di più a modelli del passato, delle vecchie botteghe del settecento. La sfida è uguale, essere artisti per una società che ha bisogno della cultura per evolversi, comunicatori, divulgatori e attenti osservatori del bello.
Hai lavorato a progetti che combinano arte e musica, come la rassegna sul Surrealismo al MUDEC. In che modo la collaborazione tra diverse forme d’arte arricchisce la tua visione musicale e cosa significa per te creare dialoghi tra musica e altre discipline?
Sono convinto che l’interazione tra le arti sia uno degli aspetti fondanti della cultura del ventunesimo secolo, anche questo è un ritorno al passato, al classicismo ellenico dove ogni arte concorreva a trasportare le persone oltre sé stessi senza distinzione di pubblico, palco o repertorio. L’arte aveva una funzione sociale in ogni livello della vita del popolo, ed è la congiunzione delle diverse arti: musica, teatro, pittura, poesia, danza ad avere la possibilità di raccontare, trasmettere e imprimere un sentimento, addirittura un concetto morale, in ogni sfera emotiva del essere umano.
Uno dei tuoi progetti più significativi riguarda la divulgazione musicale nelle periferie di Milano. Quali sono stati i risultati più soddisfacenti di questa iniziativa e come pensi che la musica possa contribuire al cambiamento sociale?
La musica è un connettore sociale naturale, parla allo stesso modo a tutte le persone che l’ascoltano senza alcuna distinzione, e questo vale per chi ascolta ma anche per chi la fa. L’esempio più forte delle esperienze che abbiamo fatto in questi anni e che rappresentano al meglio quello che ho appena detto, è stato realizzare Antigone di Sofocle con il Teatro Punto Zero del Carcere minorile Beccaria. La incredibile forza espressiva dello spettacolo nasceva dalla connessione che c’era tra persone sensibilmente diverse ma profondamente collegate attraverso l’arte.
Nel corso della tua carriera hai diretto concerti in alcune delle sale più prestigiose d’Europa e degli Stati Uniti. Quali sono state le esperienze più memorabili e in che modo questi concerti hanno influenzato il tuo modo di dirigere?
Ogni sala ha una storia particolare, la tensione che si crea con i musicisti e con il pubblico di Berlino è molto diverso da quello di Miami e da ognuno di questi nasce qualcosa che prima non aveva esperimentato. Forse il tesoro più grande nell’avere l’opportunità di fare musica con tante persone e in tanti luoghi diversi è poter portare questa esperienza da un luogo all’altro, arricchire l’esperienza di un luogo con l’energia dell’altro.
Sei anche impegnato in progetti divulgativi per avvicinare le nuove generazioni alla musica classica. Come credi che la musica classica possa rimanere rilevante e attrattiva per i giovani nel mondo contemporaneo?
Innanzitutto attraverso la divulgazione, l’arte ha delle grandi “chiavi” che aprono delle porte che ci permettono di addentrarci intellettualmente e emotivamente ai grandi capolavori della storia senza tempo. Oggi ci manca un pezzo indispensabile che è la scuola, spesso le attività che facciamo servono a coprire l’enorme voragine delle istituzioni, confido in un domani dove l’educazione culturale e soprattutto quella emotiva farà parte del nostro percorso formativo basico.
La tua rassegna a Trieste ha visto esibizioni in contesti inusuali, come giardini e palazzi storici. Quanto è importante per te creare nuove modalità di fruizione della musica e che ruolo gioca l’ambientazione nel coinvolgimento del pubblico?
È indispensabile, dobbiamo ritrovare e rifondare gli spazi della cultura e della fruizione culturale. Oggi i 30 o 40 metri che separano allo spettatore dai musicisti in un teatro sono troppi per la fruizione moderna. Bisogna cercare luoghi che ci permettono di mettere al centro l’opera d’arte e potenziarne le possibilità espressive e comunicative.
Hai ideato un progetto speciale con Amplifon per portare la musica nelle RSA. Come è nata questa idea e quali sono state le reazioni delle persone coinvolte in questo progetto inclusivo?
Il progetto nacque durante la pandemia, Fondazione Amplifon doveva ripensare ai propri progetti per la situazione in cui ci trovavamo. Stavano sviluppando un modo per collegare i risedenti delle RSA con i propri famigliari, era totalmente isolati e non avevano l’apparecchiatura necessaria per comunicare efficacemente, ovviamente molti di loro avevano gravi problemi auditivi o visivi. Riuscendo a utilizzare questa apparecchiatura che è un potente monitor video dotato da una speciale amplificazione audio, abbiamo immaginato di sfruttare l’enorme rete, il progetto collega più di 200 RSA in Italia e si sta espandendo in altri paesi Europei, per condividere del materiale culturale creato appositamente per le persone degli RSA.
“Il segreto dei suoni” è un ciclo di incontri in cui i musicisti raccontano il lavoro dietro ogni interpretazione. Quanto pensi sia importante per il pubblico capire il processo creativo che sta dietro la musica e come questi incontri hanno cambiato la percezione della musica classica?
Come dicevo prima, l’arte ha delle grandi chiavi che se utilizzate dando la possibilità al fruitore di immergersi nella cultura in modo totalizzante. Il primo fattore perché questo succeda, è la capacità dell’esecutore. Conoscere e capire il modo in cui l’artista interpreta o crea l’opera d’arte instaura un’empatia molto forte con l’ascoltatore che permette a entrambi di potenziare l’opera stessa.
Quali sono i tuoi progetti più ambiziosi e quali sfide pensi di voler affrontare nel mondo della musica e della divulgazione artistica?
Il più ambizioso è sempre migliorare il musicista, la sfida più importante è evolversi continuamente per essere sempre più vicino a chi ci ascolta. L’arte è quella linea continua che alimentiamo nel presente per costruire un futuro migliore: bello, libero e nuovo.
Grazie del tuo tempo Marco e complimenti per la tua carriera artistica!
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