Maria Teresa Montuori: “Scrivo per dare voce alle mie emozioni”

Dai primi libri letti da bambina fino alla pubblicazione dei suoi romanzi, Maria Teresa Montuori ha sempre trovato nella scrittura un rifugio e un mezzo di espressione. Con “Assario” ha esplorato il fantasy, mentre con “Quattro Vite” ha affrontato temi delicati come la fede e l’identità. Studentessa di psicologia, appassionata di viaggi e attenta alle tematiche sociali, ha vissuto esperienze significative con i Missionari Saveriani, fino ad arrivare in Thailandia. In questa intervista racconta il suo percorso, le sue passioni e i progetti futuri, tra nuove storie da scrivere e il desiderio di fare la differenza.

Introduzione a cura di Salvatore Cucinotta
Intervista a cura di Noemi Aloisi


Benvenuta su Che! Intervista, Maria Teresa! La lettura ti ha accompagnata fin da piccola, con quali libri hai iniziato?
Grazie! Forse sarà un po’ un cliché, ma alle elementari ho iniziato con i libri di Geronimo Stilton e poi delle Tea Sisters. Uno dei primi libri che ricordo di aver letto è proprio “Che fifa sul Kilimanjaro”, preso in prestito dalla scuola, quella che ho amato di più invece è stata la serie “viaggio nel regno della fantasia”, forse una previsione della mia successiva passione per i fantasy. Ritengo di essere diventata una lettrice accanita alle scuole medie, quando ho aperto per la prima volta “Harry Potter e la pietra filosofale”. Da allora non ho più smesso di divorare libri.

Attualmente invece che genere di libri preferisci leggere?
La passione per i fantasy non mi ha abbandonata, saghe come Shadowhunters o Grishaverse riescono ancora ad occupare molto del mio tempo. Nonostante questo ho sviluppato negli ultimi anni una passione per i romanzi di formazione o che trattano di temi di attualità, che raccontano storie di vita vissuta, anche in forma autobiografica. A tal proposito uno dei miei preferiti è “io sono Malala”, credo sia un libro che tutti i ragazzi dovrebbero leggere.

Di pari passo alla lettura c’è la scrittura, infatti a tredici anni inizi a mettere per iscritto alcune storie. Una di queste diventerà “Assario”, il tuo primo romanzo. Parlaci di quest’opera.
“Assario” è una storia nata un po’ per gioco, la verità è che alle medie stavamo preparando la giornata dell’amicizia, ognuno aveva un compito preciso: realizzare cartelloni o delle presentazioni digitali e il mio era quello di scrivere una storia che parlasse di amicizia. Tuttavia avevo finito molto prima che si esaurisse il tempo che avevamo a disposizione e mi stavo annoiando, così ho iniziato a pensare ad un’altra storia da scrivere, ed è così che è nato Assario.
Il mio primo romanzo è un fantasy per ragazzi, racconta appunto di Assario, un pianeta creato molto tempo fa da streghe e stregoni per vivere in pace, non tormentati dagli esseri umani. La protagonista è una ragazza, Adele, che scoprirà solo a sedici anni di provenire in parte da quel pianeta, su cui vivono suo fratello gemello e suo padre.

“Quattro Vite” è il secondo romanzo, che tematiche affronti in questo libro e perché le hai scelte?
Ho iniziato a scrivere “Quattro vite” a sedici anni, i quattro personaggi principali sono degli amici immaginari che mi accompagnavano già da quando ero in seconda media, ma ho deciso solo nella tarda adolescenza di creare una storia tutta per loro. Non ero sicurissima di cosa volessi raccontare all’inizio, ma ricordo che era un periodo in cui cominciavo a farmi molte domande sulla chiesa e iniziavo a mettere in dubbio la verità di concetti che mi erano sempre stati insegnati come veri e indubitabili.
Un argomento verso il quale ero particolarmente sensibile era il discorso chiesa e omosessualità: non capivo e non capisco tutt’ora come si possa criminalizzare in tal modo l’amore. Ricordo che quando scelsi tra i miei quattro amici immaginari quello che sarebbe stato il protagonista tra i protagonisti, Tulipàn, uno dei pensieri che mi venne in mente fu: “voglio scrivere un libro che mostri che nella chiesa ci sono persone che non credono che l’omosessualità sia un abominio”. È da lì che è partito tutto.
Nonostante questa ispirazione originale, cioè di creare un protagonista omosessuale con una forte fede, non è questo l’unico tema trattato nel libro. Il tema centrale è, più in generale, il rapporto dei giovani con la chiesa e la ricerca di una famiglia: Tulipàn è all’inizio del libro un bambino che viene abbandonato in un orfanotrofio gestito da suore, ed è quello il secondo posto che imparerà a chiamare casa, nonché dove incontrerà quel Dio che lo accompagnerà per tutta la vita nella sua ricerca di un posto nel mondo.

Per quanto riguarda la scrittura, ci saranno nuove pubblicazioni?
Al momento non c’è nulla di ufficiale, ma ho un paio di lavori in corso: uno di questi è la biografia di una persona con una storia speciale, un altro è un secondo tentativo di scrivere un libro fantasy, anche se è in pausa da un po’, e il terzo è invece un po’ più complesso, parlerà di superare momenti difficili, probabilmente uno dei protagonisti sarà uno psicologo. Tuttavia c’è ancora molto da lavorare, l’unico che è vicino al completamento è la biografia.

Negli anni dell’adolescenza conosci i Missionari Saveriani di Salerno, cosa ti affascina di questa realtà?
Li considero praticamente la mia parrocchia.
Credo risulti evidente ormai che sono quella che si può definire una cristiana progressista, anche se qualcuno dirà che è un ossimoro. Spesso le parrocchie, che magari sono più attente alle tradizioni e tendenzialmente più conservative (anche se non è sempre questo il caso), stanno strette a quelli come me. Ciò che ho visto con i missionari saveriani è, almeno la maggior parte delle volte, quella che ritengo la vera chiesa.
“Fare del mondo una sola famiglia” è la frase che descrive la loro vocazione, e non si intende semplicemente unire i cristiani delle varie nazioni: si intende ad esempio andare in Marocco e collaborare con i musulmani, mostrando con la propria vita la bellezza dell’incontro con Gesù, ma senza la presunzione di avere una fede “superiore” o “migliore” della loro, perché dopotutto la verità assoluta, ammesso che ne esista una, la conosce solo Dio.
Fare del mondo una sola famiglia significa anche invitare agli incontri del gruppo giovani “amici atei e bestemmiatori, perché essere cattolici non è un requisito per lavorare insieme o per provare a crescere insieme”, come suggerito da una delle responsabili.
Ecco, forse quello che mi ha colpito dei saveriani, è l’ascoltare e accogliere chi la pensa diversamente senza la presunzione di saperne di più di loro.

Con i Missionari parti per la Thailandia e passi tre settimane a Bangkok, come è stata questa esperienza e di cosa ti sei occupata in particolare?
L’esperienza è stata meravigliosa e mi ha fatta crescere tanto. Le esperienze missionarie non sono esperienze di volontariato in senso stretto, soprattutto quando sono brevi, non si va tanto per “fare qualcosa” ma per conoscere, per imparare, per confrontarsi con altri mondi.
Principalmente in quelle tre settimane insieme al gruppo che era partito con me ho partecipato alle attività quotidiane dei padri della casa di Bangkok: è una comunità mista, laici e consacrati vivono sotto lo stesso tetto e sono missionari insieme. Le loro attività principali sono la visita alle persone delle baraccopoli: a volte per portare pacchi di cibo e altri beni di prima necessità, altre volte semplicemente per fare visita a un ammalato. Altre attività comprendono l’insegnamento dell’inglese nelle scuole delle baraccopoli, o momenti di confronto con i ragazzi buddisti.

Attualmente stai studiando scienze e tecniche psicologiche, cosa ti ha portata a scegliere questo percorso formativo?
In realtà ho fatto questa scelta tornata dalla Tailandia, credo il desiderio sia nato dal vedere come si rapportava con le persone delle baraccopoli una psicologa che partecipava all’esperienza con noi. Un bambino con un problema cognitivo può fare passi da gigante se seguito dalle persone giuste, e se questo bambino nasce in Italia ha una buona possibilità di riceverle. Vi faccio immaginare come va a finire se invece nasce in un villaggio povero, o in una baracca con l’equivalente di una discarica fuori casa, magari con genitori che non sanno che potrebbe essere aiutato, o che non possono permetterselo. Credo di aver avuto, in fondo, un desiderio molto semplice: volevo aiutare le persone e fare il loro bene, volevo aiutarle ad essere felici, e forse quell’esperienza mi ha mostrato uno dei tanti modi in cui questo desiderio si poteva realizzare. Una volta tornata in Italia ho metabolizzato il tutto e mi sono ritrovata a pensare: “forse voglio farlo in quel modo lì.

Sei una ragazza vicina alla spiritualità, hai mai praticato meditazione?
In realtà no, forse lo farò un giorno. La cosa più vicina alla meditazione che abbia mai provato è l’adorazione.

Hai molte passioni, al momento come ti vedi in futuro e quali attività vuoi portare avanti?
Inizierò con la risposta di qualsiasi studente in sessione: in futuro mi vedo laureata (spero!).
In realtà non so esattamente come mi vedo in futuro, ma mi immagino da qualche parte con un libro per leggere, un computer per scrivere, pantaloni comodi per quando mi viene voglia di mettermi a danzare senza nessun motivo in particolare, internet per ascoltare la musica e per continuare ad imparare cose nuove.
Con l’inizio dell’università mi sono trovata più volte a pensare che forse non potevo riuscire a fare troppe cose, e ho considerato varie volte di interrompere il percorso della danza. Ad un certo punto di questa riflessione però mi sono resa conto che non riuscivo ad immaginare la mia vita senza la danza, non riesco però neanche ad immaginarla senza la scrittura, senza l’università, senza la parte spirituale. Forse sono destinata a vivere cercando di trovare spazio per tutte queste cose, ma alla fine di tutto, la vita è una sola, quindi, finché si riesce, tanto vale provare a riempirla di tutte le cose belle che si riescono a trovare.

Grazie per il tuo tempo.
MTM: Grazie a voi per questo momento insieme e a tutti i lettori.

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