Maricla Pannocchia è una scrittrice, copywriter e ghostwriter che ha scelto di vivere e lavorare in Cambogia, dove utilizza la sua passione per la scrittura per raccontare storie umane spesso trascurate in Occidente. Le sue esperienze, il suo attivismo e la sua visione critica del mondo dei travel Influencers sono temi centrali della sua missione. In questa intervista, esploriamo la sua visione della scrittura, del viaggio e del suo impegno a favore di una narrazione più etica e responsabile.
Benvenuta Maricla, cosa ti ha spinto a scegliere la Cambogia come tua nuova casa e come questa decisione ha influenzato il tuo lavoro di scrittrice?
Grazie per l’opportunità di raccontarmi. Ho sempre sentito un richiamo per questo Paese ma, quando vivevo in Italia, per tutta una serie di ragioni, continuavo a rimandare un viaggio qui. Quando, dopo il Covid-19, la Cambogia ha riaperto i confini ai viaggiatori occidentali, ho comprato un biglietto aereo di andata e ritorno. Il piano era di venire qui e vedere se la Cambogia era davvero il Paese di cui avevo sentito parlare per anni. Dopo qualche giorno, ho stracciato il biglietto di ritorno e ho deciso di rimanere.
Vivere qui influenza indirettamente il mio modo di scrivere perchè mi ha cambiata e continua a cambiarmi come persona. Di conseguenza, ciò si nota anche nel mio modo di scrivere e nei pensieri che condivido.
Hai raccontato storie di persone e situazioni spesso trascurate in Occidente. Come scegli le storie da raccontare e come ti approcci a queste realtà delicate e complesse?
Ho uno spiccato interesse per le storie di umanità, per i racconti dei singoli individui che spesso rimangono nell’ombra. A volte scelgo le storie perchè voglio capire meglio una determinata situazione e altre volte, semplicemente, mi capitano. Specialmente in viaggio, a volte parlo con questa o quella persona e spesso scopro storie interessanti.
Il mio modo di approcciarmi a queste realtà è piuttosto naturale. Sono una persona empatica, a volte mi viene il dubbio di essere una persona altamente sensibile, e questo aiuta nel relazionarsi a persone che, spesso, hanno vissuto o stanno vivendo gravi difficoltà (ma può essere anche un’arma a doppio taglio). Sembra brutto a dirsi ma, con il tempo, ci si abitua; in un certo senso, per abitudine o per scelta, per tutelarsi, ci si anestetizza, percependo una certa dose del dolore dell’altro ma facendo sì che tutta quella sofferenza non ci travolga perchè, se glielo permettessimo, faremmo del male a noi stessi e saremmo poco utili. Inoltre, vivo in un Paese con un passato, non troppo lontano, decisamente tragico e dove ci sono ancora molte situazioni difficili, quindi, in un certo senso, vivo costantemente circondata da persone che affrontano difficoltà e ho imparato a vedere oltre la mera definizione di “povero” o altro.
Il concetto di “volunturismo” è al centro di molte delle tue critiche ai travel Influencers. Cosa significa per te viaggiare in modo etico e come possiamo, concretamente, adottare un approccio più rispettoso verso le culture che visitiamo?
Il volonturismo è quando una persona paga una cifra per partecipare a un programma di volontariato che, solitamente, si svolge in “Paesi poveri”. Generalmente, si tratta di un mix tra viaggio/vacanza e volontariato. Ci sono poi anche persone che magari non pagano niente, o pagano poco, e sfruttano piattaforme come Workaway o Worldpackers per fare volontariato in cambio di vitto e alloggio ma, secondo me, il problema rimane.
Se uno vuole fare volontariato in ostelli o vivere esperienze simili, per me, non ci sono problemi. Questi cominciano quando il volontariato viene fatto “a beneficio” della gente del posto. Prendiamo una persona che, nel suo Paese, fa tutt’altro lavoro e che decide, per fare un esempio, di andare a insegnare inglese in Cambogia piuttosto che in un Paese africano, magari per una settimana o giù di lì. Sui social ci sono tantissimi video di persone che scelgono di vivere questo tipo di esperienze, che poi definiscono “autentiche”. Secondo me, per fare volontariato senza creare danni, è fondamentale avere a disposizione almeno un mese di tempo e avere delle qualifiche/competenze nel settore.
Nel corso degli anni, ho incontrato diverse Onlus che selezionano con molta cura gli aspiranti volontari e alcune richiedono che questi vivano già nel Paese e non siano dei semplici turisti. Io suggerisco sempre di chiederti, “Se andassi in viaggio in Francia o nei Paesi Bassi, mi farebbero fare questo tipo di volontariato?” Perchè è logico che, in Occidente, non ti fanno andare a insegnare inglese in una scuola se non sei debitamente formato e non ti permettono di scattare foto agli studenti e caricarle sui social, magari accompagnate da scritte come “questi bambini non hanno nulla ma sorridono.”
La prima cosa da fare, quindi, è chiederti perchè vuoi partire e scavare dentro di te per trovare la risposta onesta, che di solito non è la prima che ti viene in mente. Poi cerca un progetto adatto alle tue competenze e qualifiche e accertati di avere un bel po’ di tempo a disposizione. Inoltre, quando viaggi, puoi supportare le persone del posto semplicemente alloggiando in strutture gestite da famiglie locali, scegliendo i negozi o le bancarelle solidali e mangiando dove vanno i locals, di modo da far girare l’economia locale.
In qualità di copywriter e ghostwriter, collabori con privati e aziende. Come riesci a conciliare il lavoro commerciale con il tuo impegno personale nel raccontare storie autentiche e significative?
Io amo scrivere, quindi, che stia scrivendo un libro/un articolo per un cliente o un mio progetto personale, ho comunque la miccia della passione accesa. Avevo 7 anni quando ho scoperto di amare la scrittura, e di avere un certo talento per le parole, e ricordo che dicevo che “da grande” avrei viaggiato per il mondo mantenendomi scrivendo. Adesso lo faccio. Prima d’iniziare a lavorare come ghostwriter e copywriter per clienti stranieri o italiani residenti all’estero, ho scritto per passione per circa 30 anni, affinando la mia tecnica. Per questo, ora riesco a offrire testi di qualità in tempi decisamente veloci. Di conseguenza, mi resta molto tempo da dedicare ai miei passion projects. Quando sono in viaggio, solitamente scrivo la mattina presto e/o la sera, una volta rientrata dallo scoprire il posto.
Hai parlato di come, da adolescente, ti sentissi fuori posto in Italia. In che modo questa sensazione ha contribuito alla tua crescita personale e alla tua scelta di cambiare vita?
Non solo da adolescente. Ho vissuto in Italia sino a luglio 2022, quando sono partita per la Cambogia, e allora avevo 37 anni. Posso dire che, dalla nascita sino a lì, mi sono sentita come un pesce fuor d’acqua perchè abitavo in un piccolo paese della Toscana dove le persone hanno il paraocchi e tutto quello che è considerato “diverso” fa loro paura. Nessuno aveva le mie stesse aspirazioni o i miei stessi obiettivi. Non ho mai ricevuto alcun tipo di sostegno o supporto ma sono andata avanti lo stesso, perché sentivo che il mio posto era lontano da lì e che il mio palcoscenico era il mondo intero.
L’attivismo di Angelina Jolie ti ha profondamente ispirata. In che modo hai trasferito questa ispirazione nel tuo lavoro di scrittrice e nella tua vita quotidiana?
In realtà, non è stato il suo attivismo a ispirarmi. Mi spiego meglio: come dicevo in una risposta precedente, a 7 anni già sapevo che, da adulta, avrei voluto viaggiare per il mondo e mantenermi scrivendo ma sentivo anche di dover usare questo mio talento per le parole scritte per fare la mia piccola parte nel rendere il mondo un posto migliore. Nacque in me, quindi, il desiderio di viaggiare anche in posti come i campi profughi e simili, per incontrare persone che spesso vengono annullate dietro una definizione – come quella di “rifugiato”, appunto, che solitamente è vista con un’accezione negativa – e portare a galla le loro storie, le loro personalità, la loro umanità.
A 17 anni circa ho visto il film “Ragazze Interrotte”, con Angelina Jolie, e lei mi ha colpita per il suo essere autentica, vera (o, quantomeno, più autentica e vera dalla persona media). Seguendola, ho poi scoperto di come andasse nei campi profughi e in posti simili a fare quello che io sognavo di fare, ovvero raccontare le storie delle persone che incontrava. Ricordo che a quei tempi uscivano anche dei diari di viaggio da lei scritti e uno era sulla Cambogia. Lo lessi e qualcosa mi parlò. Da lì, ho iniziato a informarmi di più sul Paese. Angelina è stata per tanti anni il mio role model ma non ho deciso di girare il mondo per scrivere di storie poco conosciute in Occidente ispirata dal suo attivismo. Direi, piuttosto, che ho avuto un modello da seguire che già faceva quello che, per me, era solo un sogno.
Hai visitato e raccontato storie di campi profughi, famiglie colpite dall’Agente Arancio e rifugiati in vari Paesi. Qual è stata la storia più difficile da raccontare e cosa ti ha lasciato a livello personale?
Non saprei scegliere una storia su tutte. L’esperienza al campo profughi spontaneo al confine turco-siriano, nel quale sono andata per una missione di una settimana, a gennaio 2022, con la Onlus italiana Support and Sustain Children, è stata sicuramente l’esperienza che mi ha toccata di più. Anche se qui in Cambogia entro spesso in contatto con persone che vivono situazioni molto difficili, niente ha ancora eguagliato quello che ho provato in quelle tende, vedendo persone e tanti bambini a cui sono negati i più basilari diritti umani.
Anche incontrare delle persone vittime dell’Agente Arancio (nome in codice di un erbicida usato dall’esercito degli Stati Uniti tra il 1961 e il 1971, nel corso della guerra del Vietnam) è stato molto toccante. Fra tutte, ricordo una donna che ha circa la mia età, nata con una grave disabilità mentale e motoria perchè il padre è stato esposto all’Agente Arancio. Questa donna dev’essere costantemente accudita dai genitori, come se fosse una bambina molto piccola, ed è stata privata dell’opportunità di vivere una vita dignitosa.
Vivendo a Siem Reap, sei immersa in una cultura molto diversa da quella occidentale. In che modo questa nuova realtà ha arricchito la tua scrittura e il tuo modo di percepire il mondo?
È difficile spiegarlo a parole ma sicuramente l’ha fatto. Io amo viaggiare ma, dopo un po’, “devo” tornare in Cambogia perché non ho ancora trovato un altro Paese che mi faccia provare quello che sento qui. Quando sono in Cambogia, fra i cambogiani, mi piace la persona che sono. I locals sono molto gentili, aperti e accoglienti. Io parlo pochissimo il Khmer, la lingua del posto, ma, specialmente quando vado nei villaggi, dove quasi nessuno parla inglese, se dico “buongiorno”, “come stai?” o “mi chiamo…” in Khmer, vedo l’espressione sul volto della persona cambiare.
I cambogiani non sono tutti santi, le mele marce esistono anche qui e questo Paese non è perfetto ma, in fondo, quale nazione lo è? A livello energetico, io qui ricevo costanti iniezioni di positività. Lo stile di vita, qui a Siem Reap, è molto più rilassato rispetto a quello italiano. Anche il costo della vita è decisamente più basso e questo fa sì che possiamo concederci qualche sfizio senza troppi problemi. Non sono buddista ma credo da sempre nella reincarnazione e il loro modo di celebrare la morte mi risuona molto di più di quello occidentale. Proprio ieri sono andata in una pagoda, dove c’erano solo persone del posto che facevano una piccola cerimonia per Pchum Benh, una festività religiosa tramite la quale le persone benedicono le anime dei loro cari defunti e degli antenati, che dura 15 giorni, e, usando le mie poche parole in Khmer, ho detto che abito qui e ho chiesto se potessi rimanere ad assistere. Loro hanno detto sì, sorridendo. Mi sono messa in disparte e sono rimasta lì per mezz’ora. Ovviamente non ho capito una parola ma il punto non è quello. Quello che per il viaggiatore occidentale è motivo di “ooh”, come vedere una sfilza di monaci, pian piano qui diventa normalità ma è una normalità che ti fa sentire bene, più connesso con te stesso e con il tutto, più in pace. Abbiamo il complesso archeologico di Angkor Wat praticamente sull’uscio di casa e la Cambogia fa un atto secondo me molto generoso: dopo minimo due anni di residenza qui, noi expats possiamo richiedere un pass speciale, a costo zero, che dura un anno e ci permette di accedere ai templi gratuitamente, come i cambogiani (io ho il mio da qualche mese!). A Siem Reap c’è molto da fare, è un’ottima meta anche per chi ama il wellness ma non vuole spendere le cifre esorbitanti dei retreats e affini in altri Paesi.
La Cambogia e la vita qui mi hanno cambiata come persona. Ovviamente, per sovrascrivere i vecchi schemi mentali, frutto di 37 anni passati in Italia in ambienti disfunzionali, ci vogliono tempo e un duro lavoro su me stessa ma questo meraviglioso Paese e la sua gente mi plasmano in positivo ogni singolo giorno. Come conseguenza, anche la mia scrittura è cambiata perchè in ogni mio pezzo, anche in un breve articolo, metto sempre una parte di me.
I tuoi articoli e i tuoi libri spesso cercano di sensibilizzare le persone sui temi dell’umanità e della diversità culturale. Quale messaggio speri che i lettori portino con sé dopo aver letto i tuoi testi?
Al momento sto lavorando, con una professionista americana, alla pubblicazione di un romanzo per ragazzi, che ho scritto in inglese, in cui credo molto e che parla proprio di tematiche umanitarie e umane. Poi, oltre ai testi per i clienti, scrivo anche articoli riguardo a storie di persone che incontro qui in Cambogia o in viaggio. In un certo senso, anche i post social – soprattutto quelli su Facebook, dove scrivo di più che su Instagram, che è una piattaforma più visiva – possono avere un certo impatto.
Io spero che, seguendomi ed entrando, seppur virtualmente, in contatto quasi quotidiano con queste realtà spesso molto distanti dalla quotidianità della maggior parte degli italiani, le persone possano guardare al di là di una definizone e capire l’importanza dell’usare correttamente le parole perchè queste contribuiscono a descrivere una certa persona o una certa situazione in maniera positiva piuttosto che negativa. Spero anche che più persone inizino a usare i social in maniera più sensibile, smettendo di pubblicare contenuti che promuovono quel volontariato non etico di cui parlavamo prima, che spesso porta avanti la narrativa del salvatore bianco. Bisogna fare più attenzione alle diagnosi da quattro soldi perchè servono anni per capire un Paese – io qui conosco expats che ci vivono da oltre 15 anni e, giustamente, mi dicono “ancora non abbiamo capito del tutto la Cambogia” – non bastano una o due settimane di viaggio. Abbiamo il lusso e il privilegio di avere uno dei passaporti più forti al mondo e, per come la vedo io, dobbiamo camminare per le strade degli altri Paesi ma, prima di farlo, è necessario scendere dal piedistallo, lasciar perdere i video con le smorfie per attirare visualizzazioni, i titoli clickbait e i contenuti tutti uguali (“quanto ho speso in Vietnam in una settimana”, “Pov: stai camminando per strada e vedi questi bellissimi bambini” e via dicendo) che possono essere potenzialmente pericolosi e che possono instillare, nella mente di chi viaggia poco o di chi, per qualunque motivo, non può viaggiare affatto, una descrizione del mondo a dir poco irreale, basata su lenti occidentali e sull’ego di ciò che, perlopiù, siamo: persone bianche, provenienti da contesti molto privilegiati, se comparati a tanti altri.
Infine, nonostante spero che i miei contenuti possano ispirare le persone a viaggiare in modo più umano e a condividere contenuti più responsabili e meno sensazionalistici sui social, penso che ognuno debba guardare a sè. Io ambisco a crescere e a migliorare. Ognuno faccia il suo.
Cosa consiglieresti a chi, come te, si sente intrappolato nella propria vita attuale e vorrebbe fare il salto per cambiare tutto e inseguire i propri sogni?
Ovviamente, io ora non mi sento per niente intrappolata. Quando vivevo in Italia, però, sì, lo ero. Come ho accennato, io vivevo in contesti disfunzionali e, per questo, ho impiegato molto tempo ad andarmene e a inseguire quei sogni che avevo da sempre. Sembra banale, ma credere in sè stessi è importante. Al giorno d’oggi ci sono anche molte più opportunità per viaggiare o per cambiare definitivamente vita, rimanendo in Italia o all’estero, rispetto a quelle che c’erano quando avevo 20 anni. Nel mio caso, ho deciso di fare il salto quando proprio ero “scoppiata”, semplicemente capii che, se fossi rimasta lì, a vivere quella vita che non consideravo neanche tale, sarei morta dentro. E ho deciso di andare a vivere davvero. Ognuno deve guardare a sè stesso, alle proprie caratteristiche, alla propria situazione e alla propria personalità ma, se ti senti ingabbiato nella tua vita attuale, sappi che, con coraggio, forza di volontà e una base che ti permetta di stare tranquillo, è possibile cambiare.
Grazie Maricla per la tua intervista e continua a seguirci su Che! Intervista