Scrittrice, poeta, ricercatrice e traduttrice, Noemi è un’artista della parola che attraversa confini geografici e linguistici per dare voce a tematiche complesse e attuali. Dalle raccolte poetiche all’impegno accademico, la sua opera è segnata da una forte consapevolezza politica e sociale. In questa intervista, ci racconta il suo percorso, il potere della poesia come forma di libertà e resistenza, e il significato di scrivere e tradurre in più lingue. Un viaggio tra parole, identità e migrazioni, alla scoperta di una voce unica e potente nel panorama letterario contemporaneo.
Intervista a cura di Noemi Aloisi
Introduzione a cura di Salvatore Cucinotta
Foto Nuno Silas
Benvenuta su Che! Intervista, Noemi. Tra le molteplici attività che svolgi, la scrittura occupa un ruolo centrale. Quando e come è nata questa tua passione?
Grazie, innanzitutto: per il benvenuto e per l’interesse. Scrivo da quando ho memoria. Ho sempre creato storie, istituito legami tra musica e parole, tra immagini e memorie. Ho una formazione in campo letterario e linguistico, ma ho iniziato a scrivere molto prima e in modo indipendente, dalla preadolescenza. La mia prima raccolta di poesia riunisce testi scritti tra il 2007 e il 2020.
Sono innanzitutto sempre stata una grande lettrice.
Tra le tue pubblicazioni ci sono diverse raccolte poetiche. Cosa ti affascina della poesia rispetto agli altri generi letterari?
Mi definisco principalmente come poeta, nonostante mi occupi anche di scrivere prosa letteraria e saggi a livello professionale, nella mia attività di ricercatrice. La poesia ha un linguaggio più immediato, offre una maggiore libertà ed esula l’artista dalla descrittività che esigono i testi in prosa. Il mio libro di poesia bilingue “Cento Aghi nelle Ossa / Cem agulhas nos ossos” (Urutau, 2020) è stata la prima sperimentazione nel contesto dell’auto traduzione, che intendo come una pratica imperfetta.
Quali tematiche affronti nei tuoi testi?
I miei testi affrontano quello che mi inquieta come essere umano e come artista. E ovviamente anche ciò che mi dà gioia e sollievo. Mi preoccupo con le derive capitaliste della nostra società, con i conflitti sociali, ciò che ci opprime e ciò che ci può liberare. La mia poesia ha una vertente espressamente politica, anche nel suo aspetto più intimista. Parlare delle vite, e di alcune vite in particolare, è essenzialmente un atto politico. Nella poesia possiamo essere quello che siamo senza censure.
Quando scrivo di questioni che riguardano il corpo – specialmente il corpo femminile – sono consapevole del fatto che sarò interpretata come una poetessa minoritaria.
Quando uso un linguaggio sintetico e comprensibile, sarò interpretata come una poeta che non sa scrivere, come se un linguaggio forbito fosse sinonimo di abilità poetica. Quando parlo della mia storia familiare, sarò censurata.
Le mie poesie parlano di tutto questo, parlano delle esperienze di migrazioni multiple, della repressione e della liberazione attraverso il corpo, le relazioni, l’arte. Intendo la poesia come uno spiraglio sulla realtà, sulla vita quotidiana.
Alcune delle tue opere sono pubblicate anche in altre lingue, da che deriva questa decisione e quali lingue hai scelto?
Vivo all’ estero da oltre dieci anni, per cui lo scrivere in altre lingue è stata una scelta naturale. Quando si è immerse in un contesto linguistico e culturale in cui i codici della nostra lingua non servono, non funzionano, sono poco interpretabili, ricorriamo alla lingua di immersione. Scrivo anche in inglese, perché per quelli della generazione (i primi ad aver viaggiato nelle loro famiglie, ad avere un contesto e una formazione internazionale) l’inglese è, con tutti i problemi e le limitazioni che questo comporta, una lingua di apertura, di proiezione e di dialogo. Ultimamente sento la necessità di tornare all’italiano, di riprendere contatto con le mie radici, che sono certamente mobili e in trasformazione, ma che non possono prescindere dalla mia lingua e dal mio territorio e contesto di origine. Ci sono parti di noi che si perdono nella traduzione, che non riusciamo ad esprimere in altre lingue anche quando queste lingue son ormai nostre. Sento il bisogno di ritornare a quelle parti, a quello che è rimasto finora inespresso nella mia poesia.
Le tue poesie sono state pubblicate in diverse riviste anche straniere. Come sei arrivata a questo traguardo? Vuoi citarne qualcuna?
È stato un percorso naturale dovuto ai miei processi di migrazione: ho vissuto a Torino, Roma, a Calasetta, a Formentera Mallorca e poi, più recentemente, in Portogallo, Germania e Olanda. Ho anche viaggiato molto per via del mio lavoro e mi son sempre relazionata con vari contesti sociali e culturali. Ho pubblicato in antologie collettive come “Volta para a tua Terra 1 e 2” (Urutau, 2021 e 2022), per via di temi legati a immigrazione e xenofobia, nella “Gazeta de Poesia Inédita” e nelle riviste “Periferias” (Rio de Janeiro), “International Poetry Review” (USA), “ThirdShelf Journal” (Germania/Regno Unito), per citarne alcune. Molti son progetti di editoria indipendente, ma la International Poetry Review, per esempio,è una rivista edita dall’Università della North Carolina – Greensboro. Tendenzialmente opto per pubblicare solo in contesti editoriali che hanno le mie stesse preoccupazioni artistiche e sociali.
Come ricercatrice collabori con il Centre for the Humanities e con la NOVA/FCSH. Di cosa ti occupi in questi contesti?
Sono ricercatrice contrattata dello “CHAM – Centre for the Humanities”, dell’Università NOVA di Lisbona, dove ricopro anche ruoli direttivi, e son legata al centro di ricerca fin dal mio percorso di dottorato, quindi ormai dieci anni. Mi occupo di progetti editoriali africani, ma anche di produzioni letterarie e artistiche contemporanee e di resistenze.
Parlaci brevemente del tuo progetto “Mapping anti-colonial networks through literature. Transnational connections of African thinkers in the reconfiguration of space and thought (1950s – 70s)”.
É un progetto di ricerca su cui ho iniziato a lavorare in Germania e per il quale ho ricevuto finanziamento dalla FCT, l’entità governativa portoghese dedicata alla ricerca. Ha l’obiettivo di mettere in discussioni le rappresentazioni coloniali e di mappare reti coloniali attraverso le letterature degli anni 50, 60 e 70 del secolo scorso, come suggerisce il titolo. Mi occupo di resistenza anticoloniale e di guerre di liberazione dall’ impero portoghese (Angola, Capo Verde, Guinea Bissau, Mozambico e São Tomé e Principe), degli scrittori che circolano internazionalmente in quell’ epoca e di come stabiliscono reti di solidarietà e di lotta in altri paesi africani in cui si parlano, per esempio, francese e inglese, ma anche in Francia, in Italia, nella DDR e in altri paesi europei. A Roma, per esempio, nel 1959, si realizza il Secondo Congresso degli Scrittori e Artisti Neri, a cui partecipano i maggiori artisti e intellettuali africani dell’epoca. In Italia, nei decenni successivi, ci saranno grandi reti di solidarietà con i paesi in lotta. Mi occupo di queste dinamiche e di come pubblicazioni come Mensagem (Lisbona), Présence Africaine (Parigi e Dakar) e Black Orpheus (Ibadan) riflettono la circolazione dei testi, di queste idee di liberazione, ma anche delle problematiche coloniali che racchiudono.
Parli diverse lingue tra cui, francese, inglese, italiano, spagnolo e portoghese. Come le hai imparate e che consiglio daresti a chi vuole imparare più lingue?
Ho avuto la fortuna di studiare in scuole pubbliche italiane con progetti pilota a livello linguistico. Alle elementari, studiavamo inglese e francese. Al liceo, dopo due anni di scientifico, son passata al linguistico, dove ho aggiunto lo studio dello spagnolo. Ho poi vissuto in Spagna molto giovane, lì ho imparato come autodidatta anche il portoghese, che ho poi portato avanti a livello universitario. Ho lavorato molti anni come traduttrice in campo automotive e mi son trasferita in Portogallo nel 2014. Per imparare le lingue è necessario muoversi, e parlarle. Da quando vivo in Germania, sto imparando il tedesco. Nella mia esperienza, le lingue si imparano con il contatto con le altre persone, ma certamente l’istruzione può dare un contribuito notevole.
Nel tuo lavoro di traduttrice, su quali tipologie di testi ti concentri?
Traduco testi nella mia area di ricerca, generalmente nel contesto di progetti indipendenti senza scopi lucrativi. In collaborazione con la Casa de Angola na Itália e con l’autore, ho tradotto Le Avventure di Ngunga dal portoghese all’ italiano. È un romanzo breve, che veniva usato nelle scuole dei movimenti di liberazione angolani durante la guerra e che è diventato poi un testo fondamentale nel post indipendenza dell’Angola. Ho anche tradotto in inglese e francese Sulla dannata terra! Storia dello sciopero di Nardò, di Francesco Piobbichi. Il libro racconta per illustrazioni il contesto dello sciopero organizzato dai braccianti migranti nelle campagne pugliesi, nell’estate del 2011. Il titolo riprende un’opera fondamentale del pensiero contemporaneo: I dannati della terra, di Frantz Fanon, scrittore martinicano naturalizzato algerino. Il lucro derivato dalle vendite è stato destinato alla Mediterranean Hope.
Vivi tra Lisbona e Lipsia, cosa ti ha portato a scegliere questi luoghi, vorresti stabilirti da qualche parte in futuro?
Mi son trasferita a Lisbona nel 2014 per motivi di studio. Lì, ho frequentato un anno di magistrale, ho lavorato come guida turistica, e ho iniziato il mio percorso di ricercatrice con un dottorato in Studi Portoghesi, con specializzazione in Storia del Libro e Critica Testuale. Dopo la pandemia, e dopo alcune esperienze di post-dottorato, mi son trasferita in Germania, a Bayreuth, per lavorare come ricercatrice visitante all’ Università, in un centro di Studi Africani. Da lì, mi son trasferita a Leiden (in Olanda), sempre per via dei legami professionali con l’università. Ho accettato una posizione a Lisbona, ma continuo a vivere tra il Portogallo e Lipsia, una città di dimensioni simili a Torino (la mia città di nascita) e con una buona offerta culturale, a poco più di un’ora di distanza da Berlino. Tutti i miei movimenti di migrazione son stati motivati dalla ricerca di condizioni degne di vita, lavoro, il che non è scontato nella vita di una giovane donna immigrata: un livello di istruzione elevato certamente aiuta, ma non ci protegge da una serie di vulnerabilità e dal dovere accettare una serie di compromessi. Nel mio caso, la pandemia in Portogallo è stato un momento particolarmente difficile, perché il paese, nonostante molti aspetti positivi e che mi ha certamente dato molte opportunità, non dispone di uno stato sociale in grado di garantire il dovuto sostegno in casi emergenziali.
Dico spesso che vorrei tornare in Italia, e desidererei che il paese offrisse opportunità ai suoi artisti e ricercatori. La libertà di espressione e di ricerca è sotto minaccia, e interpreto lo scrutinio delle Università, degli studenti e ricercatori, ma anche la censura nei confronti degli artisti, come un fattore di allarme contro il quale dobbiamo però continuare la nostra mobilizzazione.
Grazie per il tuo tempo Noemi! Tienici aggiornati!
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