Note di vita e musica: alla scoperta di Lorenzo Dainelli, il clarinettista che incanta il mondo

Lorenzo Dainelli, giovane clarinettista italiano, ha conquistato le più prestigiose sale da concerto e orchestre d’Europa e non solo, grazie al suo talento straordinario e alla sua passione per la musica. Membro della Karajan-Akademie della Berlin Philharmonic, ha suonato con direttori di fama mondiale e calcato palcoscenici iconici come la Royal Albert Hall e la Carnegie Hall. In questa intervista, scopriamo il viaggio musicale di Lorenzo, le sue ispirazioni e le sue prospettive future, tra note, emozioni e aspirazioni.

a cura di Antonio Capua


Benvenuto Lorenzo, sei giovanissimo ma hai già un curriculum straordinario. Come ha avuto inizio il tuo viaggio musicale? C’è stato un momento o un evento che ha fatto scattare la scintilla?
Cara Noemi, innanzitutto ti ringrazio per questa intervista e per le domande interessanti e per nulla scontate. Spero di riuscire a rispondere in maniera sufficientemente esaustiva. I primi contatti con la musica sono senz’altro avvenuti grazie ai miei genitori. Nessuno dei due è musicista, ma sono sempre stati molto appassionati. In particolare babbo è sempre stato un grandissimo amante del jazz e fin da piccolissimi portava me e mio fratello a sentire concerti, tipicamente le domenica. Entrambi eravamo bimbi piuttosto vivaci, ma in quelle occasioni, nonostante fosse musica anche impegnativa, rimanevamo attentissimi e buonissimi dall’inizio alla fine.

Ho in mente ancora delle immagini vivide, come ad esempio di questo buffo signore con un cappellino etnico che suonava dei tamburi africani seduto per terra sul palco. In casa c’è sempre stata tanta musica, babbo collezionava CD e vinili, si ascoltavano Miles Davis, John Coltrane, Thelonius Monk, Sonny Rollins. Da piccolo mi affascinò in particolare il suono del sax, ed espressi il desiderio di imparare a suonarlo, così mi portarono alla banda del paese. Avevo sui 5 anni. Lì il maestro decise però che il sax era prematuro, le mie mani erano ancora troppo piccine e così, per agevolarmi, mi diede un clarinetto piccolo in mib, dalle dimensioni ridotte. Una volta imparato quello avrei poi conservato in futuro l’impostazione per suonare il sax. Alla fine però mi sono innamorato del timbro dolce e cantabile del clarinetto, ho iniziato il conservatorio e da lì è poi iniziato il mio percorso nella musica classica.

Hai suonato con alcune delle più grandi orchestre del mondo e sotto la direzione di maestri come Zubin Mehta e Gustavo Dudamel. Com’è lavorare con artisti di questa portata? Cosa ti hanno insegnato queste collaborazioni?
Queste esperienze sono state davvero un privilegio. Lavorare con direttori e musicisti di questo tipo, ognuno con il suo stile e il suo particolare bagaglio artistico, con approcci a volte diversissimi tra di
loro, porta inevitabilmente a imparare ogni volta qualcosa di nuovo. È bello osservare ciò che li anima, il loro gesto, il loro modo di guidare l’orchestra, osservare come alcuni direttori concedano di più, come altri invece mantengano un controllo più ravvicinato della compagine.

Bellissimo è anche capire il modo in cui gestiscono le prove, su cosa si concentrano, come risolvono un problema o un passaggio particolarmente ostico. Talvolta un piccolo gesto può sortire un effetto incredibile, se fatto con l’intenzione giusta. Lavorare in orchestre diverse invece mi ha insegnato l’importanza di sapersi adattare. Ogni orchestra è un microclima diverso, colleghi diverse, sale diverse. Bisogna essere in grado di reagire e adattarsi a quello che ci sta intorno, essere un tassello cangiante pronto a completare il puzzle.

Hai viaggiato molto grazie alla tua carriera musicale, esibendoti in sale leggendarie come la Carnegie Hall e la Royal Albert Hall. C’è una performance che ti è rimasta particolarmente nel cuore?
È senz’altro emozionante viaggiare molto, scoprire posti nuovi e aver modo di suonare in sale da concerto importanti. Una performance che però negli ultimi anni mi è rimasta particolarmente nel cuore è quasi sicuramente un concerto da camera di un paio di estati fa che ho organizzato nel paesino d’origine della mia famiglia, Campiglia Marittima, un borgo medievale a sud della provincia di Livorno. Era in effetti la prima volta che mi capitava di suonare propria a casa, e in queste situazioni sono sempre molte le emozioni che si mescolano, ci si sente particolarmente esposti, particolarmente vulnerabili. Ho invitato per l’occasione alcuni amici a suonare il “quartetto per la fine del tempo” di Messiaen, e si è creata in quei giorni un’atmosfera davvero speciale, è stato un po’ l’ideale di quello che per me significa fare musica insieme.

La musica classica può sembrare distante per i giovani di oggi. Secondo te, cosa può fare un musicista della tua generazione per rendere la musica classica più accessibile e appassionante?
Sono contento che tu mi abbia fatto questa domanda. Credo che la chiave sia soprattutto quella di veicolare la nostra passione per quello che facciamo, rendere evidente il nostro genuino entusiasmo nel proporre un determinato progetto, programma, essere profondamente comunicativi a un livello emotivo. Un professore che invita i suoi allievi a leggere, pur con le migliori intenzioni e ragioni, non sarà mai efficace quanto un professore che, magari emozionandosi, spiega perché un determinato racconto o romanzo l’ha commosso ad esempio. Nel secondo caso è molto più probabile che gli studenti vadano a cercare quel titolo per ritrovare quello stesso brivido.

Nel nostro caso credo sia molto simile. Una sonata di Beethoven o una sinfonia di Brahms non sono vecchi cappotti impolverati e troppo larghi, né pezzi da museo da mettere sotto una teca, ma vivono e racchiudono in sé orizzonti emotivi che ci riguardano e che parlano di ognuno di noi. È questo quello che dovremmo cercare di portare sul palco. Credo inoltre ci sia un grande equivoco quando si parla di rendere l’arte più accessibile. C’è la tendenza a sottovalutare molto il pubblico, che deve piuttosto essere messo nelle condizioni ideali per accogliere quello che viene proposto. Mi è capitato spesso di sentire il parere di amici non musicisti che a seguito di un concerto avevano particolarmente apprezzato dei pezzi contemporanei, musica che magari io stesso giudicavo astrusa o complessa. In altri casi mi è capitato di proporre brani piuttosto lunghi e difficili, ma avevo preparato una piccola introduzione, una breve guida all’ascolto di pochi minuti che ho fatto presentare prima del concerto.

Ho notato che creare un legame verbale col pubblico e dare qualche chiave di lettura è estremamente utile, anche perché annulla tutta quella prosopopea del “maestro” che sale sul palco con aria severa, compassata, distaccata. Il pubblico è molto più ricettivo di quel che crediamo, se le nostre performance mancano di quel fuoco sacro, di quella intensità emotiva necessaria a comunicare qualcosa di profondamente umano, per la musica classica possiamo far suonare le campane a morto.

Sei molto attivo anche come musicista da camera. Cosa ami di più nel suonare in piccoli ensemble rispetto alle grandi orchestre? Cambia il modo in cui ti approcci alla musica?
La musica da camera e l’orchestra non sono due cose poi così distinte. La differenza credo risieda più nell’aspetto umano forse, ovvero nella possibilità di entrare in connessione con i partner musicali in maniera più stretta, più ravvicinata, cosa che chiaramente è più difficile in una compagine di 80 musicisti. Suonare musica da camera è un po’ come sedersi a un tavolino e mettersi a chiacchierare. Per far funzionare il discorso serve una grande alchimia tra i membri del gruppo, una grande dose di ascolto e la capacità di reagire agli spunti che vengono dagli altri.

Durante i progetti da camera si crea poi una situazione particolare in cui per qualche giorno le esigenze e le abitudini di ognuno si sincronizzano. Si prova, si mangia insieme, magari si affronta insieme un viaggio, si crea sempre un’atmosfera molto intensa in cui la tensione di tutti è rivolta alla buona riuscita di quel determinato brano o programma. La grande orchestra invece funziona un po’ più come un parlamento, i ruoli sono un pochino più definiti, c’è la necessita di mettere d’accordo più voci e quindi serve qualcuno che diriga il discorso, che lo sappia indirizzare. Ascoltare e saper reagire nel modo giusto qui diventa ancora più importante quasi, inoltre non mancano anche nell’orchestra momenti d’intimità, in cui magari due strumenti dialogano e il resto fa da contorno.

Le grandi orchestre, proprio perché il dialogo di tutti è così equilibrato, sono in grado di esaltare questi momenti cameristici anche in una sinfonia di ampio respiro, e si creano momenti spesso magici. Il segreto sta nel capire quando la propria voce è protagonista, in rilievo, e quando invece è solo cornice o sfondo, adattando di conseguenza le sonorità.

Hai registrato opere importanti come la “Gran Partita” di Mozart per Deutsche Grammophon. Quanto è diversa l’esperienza di registrare in studio rispetto al suonare dal vivo in un grande concerto?
Una registrazione e un concerto sono esperienze estremamente diverse. Credo che oggi, anche alla luce di tutto quello che abbiamo vissuto negli ultimi anni, sia importantissimo riappropriarsi dell’esperienza della musica dal vivo. Parlo di classica ma non solo, è un pensiero che si applica ad ogni genere. Proprio per la sua natura di arte transitoria la musica vive solo nel momento in cui viene eseguita, è solo in quell’istante di brevissima concretezza che può esprimersi, prima e dopo in realtà non è.

Di essa poi permane nell’ascoltatore solo una memoria, il ricordo di cosa ha provato nel momento in cui l’ha sentita. Questo la rende un’arte soggetta a mutare, che comprende in sé una miriade di possibilità diverse che è bello accogliere e sperimentare. Registrare è un tentativo di cristallizzare questi momenti, cercando una sorta di equilibrio ideale, ed è sicuramente un lavoro stimolante, affascinante, che permette anche un livello di accuratezza e precisione notevole, ma che non potrà mai sostituire l’impatto e l’emozione di una performance dal vivo, sia per un ascoltatore che per un musicista.

La tua formazione è iniziata in Italia ma ti sei perfezionato in Austria e Germania. Come ti ha influenzato il contatto con diverse culture musicali nel tuo modo di suonare e interpretare la musica?
Le influenze sono state moltissime, a livello interpretativo e anche nell’idea di suono, di timbro. Per spostarmi in Germania ho dovuto persino cambiare strumento, perché nelle orchestre tedesche si suona un clarinetto diverso rispetto al resto del mondo, Italia compresa, dove invece si suona il cosiddetto sistema francese. Inizialmente il cambio è stato davvero destabilizzante, perché si tratta di uno strumento diversissimo, con imboccatura e diteggiature che erano per me completamente nuove. La sfida è stata quella di cercare un punto di incontro tra le diverse qualità che mi piacevano dell’uno e dell’altro modo di suonare. Si trattava veramente di far convivere due anime, mantenere quindi una spiccata sensibilità verso il canto e la melodia, qualità molto italiana e a me molto cara, unita a una nettezza e una chiarezza tipica invece del modo tedesco. Credo che da queste ibridazioni nascano però sempre risultati particolarmente interessanti e affascinanti.

Sembri avere una grande affinità con la musica di Mozart, avendola eseguita più volte come solista. Cosa ti attrae di più della sua musica e in che modo ti rispecchi in essa come artista?
Innanzitutto è proprio a Mozart che dobbiamo il nostro primo concerto solistico di grande spessore, il K622, il concerto per clarinetto per antonomasia. Amava infatti particolarmente questo strumento ed è stato molto generoso con noi clarinettisti, regalandoci pagine di bellezza struggente. Quella di Mozart è una musica fragile, che ci chiede di essere trattata con cura, al contempo in grado di toccare con grande potenza. La sua è una bellezza che diventa quasi dolorosa e ci lascia sgomenti. Ogni musica che definiamo bella suscita nelle persone gioia e dolore, porta con sé sensazioni estatiche, ma spesso anche violente e oscure. In un sottile gioco di luci ed ombre Mozart dissimula l’inquietudine di vivere, la sua è una disperata richiesta d’amore. Attraverso una leggerezza e una tenerezza quasi infantili Mozart ci insegna forse più di altri il valore della vulnerabilità.

C’è un progetto o una collaborazione che sogni di realizzare nei prossimi anni?
Molti sono i progetti e le collaborazioni a cui vorrei dedicare più tempo. In cima alla lista c’è sicuramente la creazione di un piccolo festival di musica da camera nel mio paesino, Campiglia Marittima. Avevo già accennato nelle risposte precedenti al fatto che sto organizzando da un paio di anni alcuni concerti estivi. Mi piacerebbe che questa realtà potesse consolidarsi un po’, diventando un’occasione di incontro e proponendo sul territorio qualcosa di nuovo. Ho in mente un format molto spontaneo, il cui scopo sia prima di tutto quello di fare musica con gioia e passione, presentando al pubblico qualcosa di genuino, senza sovrastrutture. Ovviamente anche una piccola rassegna di concerti in cui invito principalmente amici richiede una buona dose di impegno e dedizione, e l’aspetto organizzativo decisamente non è il mio forte. Cerco però di sfruttare l’occasione per migliorarmi un pochino anche in questo senso, in modo da rendere questi eventi un appuntamento importante per appassionati di classica e non.

Essere un musicista richiede disciplina, ma anche ispirazione. Dove trovi la tua ispirazione quotidiana per continuare a crescere come artista e come persona?
Se parliamo di un’ispirazione a livello prettamente musicale, quindi di modelli che mi ispirano, devo dire che spesso vado ad ascoltare i grandi solisti del passato, Horowitz, Kogan, Oistrakh ad esempio. Mi colpiscono sempre l’estro, la personalità, la fantasia e la libertà con cui affrontavano la musica. Al di là di ogni aspetto tecnico c’era la vicenda umana al centro, l’uomo con le sue passioni e la sua sensibilità.

Oggi tendiamo a essere forse troppo analitici, tecnici, siamo più legati alla ricerca di un perché per ogni cosa, di conseguenza meno pronti ad accogliere il mistero, quella goccia di ineffabile che rende l’opera d’arte ben riuscita così efficace. Sono convinto poi che possa ispirarci un po’ tutto quello che c’è intorno a noi, l’arte con cui entriamo in contato, i film, ma anche un incontro estemporaneo e inaspettato, il confronto con un amico. Fondamentale è conservare un atteggiamento di apertura e di curiosità nei confronti del mondo. Le connessioni nel nostro cervello lavorano a un livello non lineare, non logico, non sempre afferrabile. Essere curiosi ci permette di accogliere idee e spunti, di accostarli, giustapporli, metterli in contrasto, rendendo così il nostro paesaggio interiore più colorato e ricco di sfumature.

Grazie Lorenzo per il tempo che ci hai dedicato e complimenti per il tuo lavoro.
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