Oleg Mandić, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz, ha dedicato la sua vita a raccontare gli orrori della Shoah ed a trasmettere un messaggio di pace. Deportato a 12 anni, con la madre e la nonna, è uno dei pochi bambini a essere sopravvissuto a quel terribile luogo.
Tra i suoi lavori importanti la pubblicazione del suo libro “L’ultimo bambino di Auschwitz”.
In questa intervista ci parla del suo passato, della sua resilienza e del messaggio che continua a diffondere alle nuove generazioni.

a cura di Salvatore Cucinotta


Benvenuto Oleg, è un privilegio averti qui con noi. Hai dedicato la tua vita a raccontare gli orrori della Shoah ed a trasmettere un messaggio di pace.

Caro Oleg, puoi raccontarci un pò di te? Chi sei e come la tua vita è stata segnata dall’esperienza ad Auschwitz?
Mi chiamo Oleg Mandić e provengo da omonima famiglia dell’entroterra Istriano.
Nel secolo XIX: il mio trisnonno era un abiente contadino a Castua, il mio bisnonno medico primo direttore dell’Ospedale di Trieste.
Nel secolo XX: mio nonno era avvocato ad Abbazia e politico, papà professore all’Università di Zagabria.  La famiglia è di etnia croata, ma la cittadinanza cambiava da secolo a secolo.
Nasco nel 1933 ad Abbazia in Italia  a circa 20 chilometri più ad est di Sisak, oggi frazione di Fiume, ma allora suolo jugoslavo.
Per evitare la legge fascista che imponeva di dare ai nascituri di etnie non italiane nomi italiani, mi chiamarono Oleg, un nome russo (nonna era russa). Anche mio padre si chiamava Oleg.
Il nonno Ante (Antonio), ai primi del secolo, si era trasferito da Trieste ad Abbazia dove teneva uno studio legale e nel 1922 vi costruì la villa Mandić. Ma nel 1937 ebbe un foglio di via obbligatorio dall’Italia per attività antifasciste.
Papà e zio Igor laureatisi a Siena presero in mano le redini dello studio legale.
Io iniziai a frequentare le elementari a “Regina Elena”. Dopo il bombardamento tedesco di Belgrado il nonno tornò ad Abbazia e nel 1943, prima che venissero i tedeschi ad occuparla, insieme a mio padre se ne andò dai partigiani jugoslavi. Saremmo dovuti andare anche noi, mia mamma, nonna ed io, ma non facemmo in tempo.
Il 15 maggio 1944 i tedeschi ci imprigionarono. Dopo due mesi alle carceri di Fiume e Trieste, in un carro merci, ci spedirono ad Auschwitz. Al campo di sterminio.
Come per prigionieri politici italiani, il mio numero tatuato sull’avanbraccio sinistro è tuttora IT-189488.
Ci liberarono i russi il 27 gennaio 1945 ma mi ci vollero più di tre mesi per tornare. Rimasi coi russi ad Auschwitz fino all’ultimo, ed effettivamente il 2 marzo, quando la rampa dell’ingresso principale di Auschwitz calò alle mie spalle fui l’ultimo detenuto di Auschwitz a uscirne vivo! Cracovia e Mosca erano le tappe successive per tornare a casa.
Nel frattempo, a Belgrado, ormai liberata, nonno Ante faceva il capo dello stato jugoslavo temporaneo. Una volta tornato rimasi a Belgrado per più di due anni e poi a 25 anni a Zagabria mi laureai in Giurisprudenza con esame magistrale.
Fui il più giovane avvocato in Jugoslavia. Ma non durò a lungo.
Per 34 anni curai in Italia e Baviera gli interessi di un grande complesso editoriale di Zagabria. Dopo essere andato in pensione vent’anni fa, ho ripreso a promuovere le testimonianze di Auschwitz. Ho scritto una decina di libri e ricevuto diverse onorificenze italiane, croate e polacche.
Ed Auschwitz dirai? L’ho tenuta sempre nel cuore: mi ha senz’altro segnato la vita. Ci sono tornato ben 13 volte per accertarmi ogni volta che è proprio al “Male” di Auschwitz che dovevo ringraziare per avermi aiutato a trovare il “Bene” nella vita per poterlo così trasmetterlo a tutti.”

Ad Auschwitz hai vissuto una realtà impensabile per un bambino. Cosa pensi ti abbia aiutato a sopravvivere in un ambiente così ostile e crudele?
Devo dire che ho avuto molta fortuna. Infatti, durante la “selezione giornaliera” al campo di sterminio, non fui mai selezionato. Ma non solo questo. Quando ci fu la “marcia della morte” ho scelto di restare ad Auschwitz, malgrado era molto probabile che i tedeschi, prima di andar via, avrebbero ucciso tutti i 6.000 prigionieri rimasti. Decidemmo quindi di rimanere, ma loro non fecero in tempo ad ucciderci. Coi tedeschi andarono via 70.000 detenuti ma ne arrivarono a destinazione solo 25.000, riuscirono a scappare solo 10.000.
L’altro aspetto fu L’Amore materno. Pur essendo stato diviso fisicamente dalla mia mamma, nella mia immaginazione “sapevo” che lei era presente. In aria sentivo un continuo benefico fluido che attribuivo a lei. Il tutto mi dava ulteriore forza di resistere.

Sei stato nel reparto di Mengele, un medico tristemente noto per i suoi esperimenti su bambini. Cosa ricordi di quel periodo e come sei riuscito a sopravvivere?
Sono capitato nel reparto di Mengele per puro caso e ci rimasi per cinque mesi. Anche questo, per me, fu fortuna. Due mesi dopo l’arrivo ad Auschwitz scoprirono che pur avendo compiuto i dieci anni ero colla mamma nel lager femminile, mentre sarei dovuto stare nel campo maschile. Per effettuare il passaggio dal campo femminile a quello maschile dovetti passare una visita medica. (Stranezze tedesche: ogni giorno venivano uccise più di mille persone, ma ad un ragazzino per passare da un reparto ad un altro ci voleva la visita medica!?).  Durante la visita, probabilmente per paura, ebbi la febbre alta. Ciò interruppe i “buoni” propositi tedeschi che dopo lunga discussione stabilirono, che trattandosi di un caso particolare, mi avrebbero sistemato temporaneamente da Mengele nel suo reparto gemelli, dove c’erano anche ragazzi maschi fino a 18 anni di età. Inoltre, il suo reparto gemelli stava proprio vicino, nel revier (ospedale) femminile. E fui dimenticato!
Da Mengele mi trovai bene. Lui, l’infermiera e sempre una ventina di coppie gemelle inferiori a 18 anni. Ogni tanto qualche coppia se ne andava senza ritornare, ma nessuno ci faceva caso. Io ero il solo a restare. La sistemazione era nettamente superiore a quella del campo: La sveglia non era alle 4:00 ma dopo le 6:00, non c’era l’appello, non bisognava andare a lavorare, i pasti decisamente superiori a quelli del campo, talvolta di domenica ci davano anche il pane bianco. Mengele, arrivava sempre rasato, uniforme stirata, stivali luccicanti. L’infermiera gli porgeva il camice bianco. Nel rivolgersi a qualcuno non alzava mai la voce. A me stava forse anche “simpatico”. Degli esperimenti che stava facendo sui gemelli all’epoca non ne sapevamo niente.

Dopo la liberazione del campo, hai scelto di rimanere in silenzio per dieci anni. Cosa ti ha portato, poi, a rompere quel silenzio ed a raccontare la tua storia al mondo?
Lavoravo come giornalista per il quotidiano di Zagabria. Tutti sapevano di me e della mia storia. Ma io restavo in silenzio a riguardo di quanto avevo subito anni fa durante la guerra.
Un giorno stavo discutendo col capo redattore nel suo ufficio quando un collega apre la porta rivolgendosi al capo: …Non dimentichi l’anniversario dell’Olocausto la prossima settimana… Io mi sentii alzare il sangue alle tempie e pronunciai sottovoce fra me e me: Questo mi sa di colpo basso… Non l’avessi mai fatto… Il capo scattò rivolgendosi a me con rabbia: Tu, Mandić, sei un ingrato. Noi, qui, tutti sappiamo cosa ti è capitato anni fa durante la guerra e lo comprendiamo infinitamente. Ma ci sono limiti a determinati ragionamenti sbagliati. Il tuo trauma bellico pensi che appartiene soltanto a te. Invece NO! Sbagliato! Appartiene a noi tutti. Ai tuoi colleghi, al popolo, all’umanità… A quelli che sono stati con te e non hanno avuto la tua fortuna di sopravvivere.
Le sue ultime parole mi hanno accompagnato mentre uscivo dalla stanza sbattendo la porta.
Ero strabiliato e offeso. Rimuginai per qualche giorno di quanto era successo. A poco a poco, ripensandoci meglio, capii che ero nel torto. Se volevo produrre del “positivo”, dovevo cominciare a parlare al mondo per far conoscere quanto avevo patito. Una settimana più tardi scrissi il mio primo articolo sull’argomento: “Colpevoli senza colpa”.  E da allora non mi sono più fermato!

Hai detto che tornare ad Auschwitz, sorprendentemente, ti riporta il buonumore e la gioia di vivere. Come spieghi questo paradosso? Cosa ti dà la forza di tornare lì? 
Per diversi anni dopo Auschwitz tentai di visualizzare nel mio subconscio qualcosa che fosse più orrendo di quanto già vissuto. Non ci riuscii. Di conseguenza era chiaro che nei tempi a venire non avrei mai potuto subire più orrori di tali dimensioni. Mi si profilava una vita serena! Ciò nonostante la vita non ci risparmia niente: succedono guai e sciagure.
Quando mi capitavano tornavo alle origini, ad Auschwitz, dove tutto era iniziato o come io lo “definivo”: “Ad Auschwitz per ragioni terapeutiche!” A casa tornavo “sereno”. A casa dove in tutti questi 80 anni non ho mai sognato Auschwitz ne fatti o cose che lo riguardino.

Uno dei messaggi che hai sempre condiviso è quello di non alimentare l’odio. Perché credi che sia così importante promuovere la pace e il perdono dopo aver vissuto una delle esperienze più terribili dell’umanità?
L’odio coinvolge tremendamente anche colui che odia.  Avevo 16 anni quando ho capito che non potendo parlare e capire il tedesco e, sapendo delle malefatte successe, crebbe nel mio intimo un’avversità verso tutto quello che fosse contrassegnato come “germanico”. Dentro di me stava nascendo l’odio. E non ne fui entusiasta! Mi ci volle più di un anno per riuscire ad uscire da questi “schemi mentali”. 
Da allora non ho mai odiato nessuno. 
Promuovere la pace e il perdono? Le ragioni sono molte, ma la più ragionevole è senz’altro quella che, perdonando si sta meglio col proprio cuore in pace e senza paura che dietro l’angolo ci sia qualcuno che ti sta prendendo di mira.

Hai scritto il libro “L’ultimo bambino di Auschwitz”. Cosa speri che i lettori possano imparare dalla tua testimonianza e quale messaggio vuoi lasciare alle nuove generazioni?  
Nel mondo e nella vita c’è l’eterna lotta fra il Bene e il Male. Testimoniando il Male cerco il Bene anche nelle minime parti dalle quali lo faccio germogliare. Io l’ho trovato addirittura ad Auschwitz. Cercatelo anche voi il Bene, vedrete che lo troverete.

Nonostante gli orrori vissuti, ci sono stati momenti o persone che ti hanno dato speranza durante il tempo passato nel campo? 
Momenti SI! Quando dopo Natale del ’44 le katjuše russe hanno cominciato ad illuminare il cielo con i missili sparati a raffiche di 16 per volta era chiaro che il “fronte” si avvicinava e con questo anche la fine delle nostre sofferenze. 

Persone NO! In un posto dove sia la Fede che la Speranza non esistono più quello che resta è solo  “l’istinto di sopravvivenza”.
Ed e’ la cosa piu’ terribile che possa succedere.
Niente amicizie, niente conoscenze, ognuno per conto suo, tutto intorno nemici. Regna il super egoismo. Le abitudini civili e le leggi sociali sono dei vaghi ricordi.
Se qualcuno ti ha “organizzato” (nel linguaggio del campo non esisteva il verbo rubare!) le scarpe mentre dormivi, non era lui un ladro, ma eri tu un incapace e stupido!

Auschwitz è parte della tua vita, ma hai anche vissuto molte altre esperienze. Come hai affrontato e gestito il ricordo di quei giorni durante la tua vita? 
Mi ci sono voluti dieci anni per mettermi in pace con quanto mi era successo.
Per fortuna ero nell’età di quando ognuno di noi si forma la propria individualità.
Io sono riuscito ad utilizzare il “mio passato” a mio vantaggio.
Ho avuto una bellissima vita grazie al fatto che all’inizio di tutto quanto c’e’ stato Auschwitz! Non ero immune ai “bassi” della vita, ma quando accadevano li comparavo con quanto mi era già capitato nei teneri anni giovanili e così riuscivo sempre ad uscirne avvantaggiato.
Consiglio: quando vi succede qualcosa di brutto nella vita non lo mettete nel dimenticatoio. Accantonatelo soltanto. Vi servirà quando vi succederà un’altra cosa grave per poter confrontare. E vedrete che la seconda volta ne uscirete “molto prima” pronunciando il seguente pensiero: se me la sono cavata allora, adesso sarà molto più facile…

Cosa pensi che si debba fare per evitare che l’umanità dimentichi l’Olocausto e per promuovere una cultura di pace e comprensione?
Noi che abbiamo subito l’Olocausto non ci saremo più. Ci saranno eventualmente i nostri ricordi ed i pochi residui. Ci saranno scritti e filmati. Ma tutto ciò purtroppo non basterà per evitare la dimenticanza. D’altra parte il peggio è che da molte parti ci manca addirittura la volontà di farlo. Oggigiorno anche ad alti livelli c’è poca cultura di pace e comprensione.
Cosa si dovrebbe fare per evitare il peggio è la domanda del secolo. Ma neanche io, da ottimista puro, mi azzardo a fornire formule vincenti. Puo’ darsi che insistendo sulle nostre attivita’ attuali (il Bene) si riesca a diminuire un pò il lato negativo (il Male) di quanto ci profila il futuro. Lo Speriamo tutti…”

Grazie Oleg, lo staff di Che! Intervista è stato onorato di diffondere la “preziosa testimonianza” scritta della tua “storia”.

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