Pietro Grossi è una delle voci più interessanti della narrativa italiana contemporanea.
Con uno stile essenziale e potente, ha saputo raccontare storie intense e universali, guadagnandosi l’attenzione di pubblico e critica. Dal suo esordio con “Pugni”, raccolta di racconti che ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti, fino al suo ultimo lavoro “Qualcuno di noi”, pubblicato da Mondadori nel 2025, Grossi ha costruito un percorso letterario originale e raffinato. In questa intervista, esploriamo la sua visione della scrittura, il rapporto con i suoi personaggi e il suo percorso professionale.
a cura di Salvatore Cucinotta
Benvenuto su Che! Intervista, Pietro, e grazie per aver accettato questa intervista. Partiamo dal principio: cosa ti ha spinto a diventare scrittore e quali sono stati i tuoi primi passi in questo mondo?
Il cosa mi abbia spinto a diventare uno scrittore è uno dei misteri della mia vita. Non tanto il cominciare a scrivere: ho cominciato come credo abbiano fatto tutti, un po’ per gioco, un po’ per curiosità. Fin da piccolo, per qualche ragione, mi sentivo bene davanti alla maccina da scrivere. Ciò che, ripensandoci, mi fa sorridere è che fin da subito pensai che questo era quello che volevo fare nella vita: ricordo a nove anni di domandare a mia madre se mi avrebbe permesso di pubblicare il romanzo che stavo scrivendo, come se dipendesse da lei (per inciso, lei lo avrebbe accordato), e in prima media di dire in classe con grande sincerità che questo sarei voluto essere, uno scrittore. I primi passi sono poi venuti un po’ per caso. A farmi entrare nel mondo dei libri è stato Enzo Siciliano: era direttore del Gabinetto Viessuex, a Firenze, e andava spesso a mangiare al ristorante di un mio amico. Parlarono di me, di un mio manoscritto, Enzo volle leggerlo e decise di inserirlo nella nuova collana di una piccola casa editrice di Firenze. Fu così che ci conoscemmo, e che poi prendemmo a passare insieme diverso tempo.
Il tuo percorso è stato caratterizzato da una grande varietà di esperienze, dalla scrittura alla traduzione, dal cinema alla pubblicità. Come hanno influenzato questi ambiti la tua narrativa?
È sempre difficile capire cosa e quanto ha influenzato ciò che fai. Direi che più che puntare su luoghi o esperienze singole, ciò che più mi ha influenzato è stato fare cose diverse e avere così una visione vasta del mondo. Anche della realtà, in un certo senso. Talmente vasta che spesso mi disorientava, e questo è un tema laterale del libro stesso, ma per quanto non sempre facile vivere in un luogo di cui hai poche coordinate, mi ha quasi obbligato a spingermi continuamente avanti, alla ricerca di qualcosa che non sempre trovavo, ma che mi portava a scoprire cose nuove.
“Pugni” è stato un libro di svolta per te, finalista al “Premio Strega” e vincitore del“ “Premio Campiello Europa”. Come hai vissuto il successo e cosa ha significato per la tua carriera?
Il successo mi ha confuso, e per ragioni molto complicate che cerco di spiegare nel libro, ma che qui è molto difficile riassumere. Diciamo che negli anni precedenti all’uscita di Pugni mi ero costretto a credere che la misura di quegli spazi di cui parlavamo poco prima era molto più angusta di ciò che credevo. Fin da piccolo avevo sempre immaginato la vita come una grande avventura, fino a inventarmene parti intere. Poi, quando realtà e finzione si stavano confondendo e mi spingevano verso una forma di delirio, decisi che avrei tenuto i piedi per terra, e presi a costruirmi una vita – per così dire – tradizionale. Poi uscì Pugni, che esaudì ogni mio sogno, moltiplicandolo a dire il vero. Ecco, non era tanto il successo in sé a confondermi, quanto più il fatto che d’un tratto una parte di me prese di nuovo a credere che tra sogno e realtà ci fosse più terreno in comune di quanto mi ero abituato a credere. Dovetti, in sostanza, riprendere un’ennesima volta a trovare delle coordinate. Anche a trovare dei nuovi sogni, che non è sempre facile.
Nei tuoi libri affronti spesso temi profondi come il confronto con se stessi, il cambiamento e la ricerca di un equilibrio interiore. Da dove nasce questa tua sensibilità narrativa?
Non so se è tanto una sensibilità narrativa quanto una curiosità. La questione dell’equilibro interiore, avendone di solito posseduto poco, mi ha sempre affascinato. La serenità e la pace sono stati d’animo che quasi non conosco, ma li vedo talvolta intorno a me in alcune persone, e provo per loro enorme interesse. Ecco, direi che è questo ad attrarmi: la curiosità per luoghi che conosco poco. D’altronde è questo che, di solito, fa un romanziere, va a frugare in luoghi nascosti e sconosciuti.
Hai vissuto in diverse città, da Firenze a New York, da Roma a Milano. In che modo i luoghi che hai abitato si riflettono nei tuoi romanzi?
Non so bene in che modo si riflettano nei miei romanzi o racconti in generale, ma so in che modo si riflettono su questo, visto che appaiono tutti. Rileggendo molte volte il libro, mi sono reso conto come ogni luogo in cui avevo vissuto corrispondeva in un certo senso a uno stato d’animo, o forse ancor più a uno stato della mente. C’è l’ovattata realtà di Firenze che mi ha cullato ma da cui ho sempre fatto di tutto per fuggire, c’è la concretezza di Torino, la follia di New York, la dedizione al lavoro e anche però una sorta di alienazione milanese, e poi il silenzio della campagna. Il libro non esisterebbe, letteralmente, se non fosse per ognuno di questi luoghi.
Il tuo ultimo libro, “Qualcuno di noi”, affronta tematiche complesse e attuali. Puoi raccontarci qualcosa sul processo di scrittura e sulle ispirazioni che ti hanno guidato?
L’ispirazione è stata una semplice domanda: come può accadere qualcosa di simile? E per qualcosa di simile intendo la scena più violenta dell’intero libro, a un centinaio di pagine dall’inizio. È qualcosa che è successo a me, e ho passato il resto della mia vita a domandarmi, appunto, come era possibile che un ragazzo spesso brillante e ben educato potesse spingersi tanto vicino all’abisso. Una possibile risposta la trovai tra le pagine de Il lupo della steppa di Hermann Hesse, e ho passato i diciannove anni successivi a tentare di capire come poterlo mettere in parole. Qualcuno di noi è il risultato di questo cocciuto tentativo.
Hai studiato alla Scuola Holden, fondata da Alessandro Baricco. Quanto ha influito questa esperienza sulla tua formazione e sul tuo modo di raccontare storie?
Semplice: se non fosse per quella scuola e quegli anni, io come scrittore semplicemente, almeno in qusta veste, non esisterei. Per i docenti che ho incontrato, per l’età che avevo, e per i compagni che mi sono trovato intorno. Ho imparato a leggere, in quegli anni, e il senso della faticosa abnegazione a una propria inclinazione, e ad andare avanti a lavorare quando sembra che qualcosa sia finito. Ho imparato che scrivere è anche dolore, dolore fisico e mentale, come ogni pratica che porti da qualche parte, nella vita, e che bisogna tenere duro e andare avanti. Anche, forse, che la fatica è maggiore delle soddisfazioni, ma che è giusto che sia così.
Il rapporto tra autore e personaggi è sempre intrigante: come nascono i tuoi protagonisti e quanto ti rispecchi in loro?
Ho sempre avuto la sensazione che i miei personaggi esistessero a prescindere da me. C’è chi paragona la scrittura all’architettura: disegnare e costruire edifici che stiano in piedi e sappiano ospitare persone. È un’idea molto bella, e ne vedo i riflessi tutti i giorni. Ma per me scrivere ha sempre assomigliato più all’archeologia. Quando funziona mi fa sentire come se estraessi una statuetta piena di incrostazioni dal fondo del mare, e a me non resta che levare gli eccessi e pulirla. Nel caso di Qualcuno di noi è stato più complesso: la gran parte del libro ha direttamente a che fare con la mia vita, quindi ho passato anni a lavorare con la memoria, che ho imparato essere una forma di immaginazione molto più ostica della fantasia.
La letteratura è in continua evoluzione, con nuove tendenze e forme di narrazione. Quali sono le tue riflessioni sul futuro della narrativa e sul ruolo dello scrittore oggi?
Oddio, non sono sicuro di avere stumenti adatti a rispondere a una domanda tanto ampia. Anche perché molte di queste nuove forme di narrazione mi sfuggono: finisco per passare buona parte del mio tempo a ristudiare testi che amo, che mi fa sentire sempre di più come una sorta di polveroso custode di testi antichi. Diciamo che ciò che mi preoccupa di più è che stiano sparendo i lettori, persone cioè che sono disposte a dedicare ore delle proprie settimane a scorrere gli occhi su dei segnetti neri, che attraverso quei segnetti frugano nelle vite di qualche personaggio e entrano in una sorta di vibrazione con le menti da cui sono uscite. Questa strana sinapsi a distanza a me ha salvato la vita, produce bellezza, complessità, e qualche volta mi preoccupo che possa pian piano dissolversi. Poi mi dico che facciamo questa cosa da appena qualche migliaio di anni, che l’universo conosciuto di anni ne ha quasi quattordici miliardi ,e che andrà avanti sereno anche se smettiamo di farla.
Infine, quali sono i tuoi prossimi progetti? C’è già un’idea per il tuo prossimo romanzo?
Non ne ho la più pallida idea. Di tanto in tanto, negli anni che ho impiegato a scrivere questo libro, avevo bisogno di distrarmi e mi sono messo a buttare giù altro. Per provare a riprendere il filo sto da qualche settimana ricopiando questi testi al computer (purtroppo scrivo a mano): sono molto strani.
Grazie Pietro per il tuo tempo! Complimenti per la tua carriera e per il tuo lavoro!
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