“Poeti, Vampiri & Veneri Punk”, il nuovo album dei Panta

Il nuovo disco dei Panta, “Poeti, Vampiri & Veneri Punk”, uscito in digitale il 14 dicembre 2024 e disponibile in vinile e in CD dal 31 gennaio scorso. L’album, distribuito da Goodfellas, è stato registrato tra Roma e i leggendari studi di Abbey Road a Londra, con la produzione di Steve Lyon (The Cure, Depeche Mode, Subsonica) e Paolo Violi.

a cura di Laura Nasoni, giornalista e speaker radio


Ciao ragazzi e benvenuti! Partiamo da voi in quanto band. Il nome “Panta” viene chiaramente dal cognome del frontman Giulio Pantalei. L’idea iniziale era quella di mettere in piedi un progetto solista?
GIULIO: Ciao Laura! In realtà non proprio, il progetto era nato con l’intenzione di mettere in dialogo diverse arti, a partire dalla mia anima duplice, cioè tanto legata alla letteratura quanto alla musica. E anche al cinema, se pensi che i miei due “maestri”, i due incontri che mi hanno cambiato la vita e mi hanno convinto a metter su questo progetto sono stati David Lynch e Carlo e Paolo Verdone, con cui ho suonato per anni e che hanno scritto la prefazione del mio primo libro. L’idea è sempre stata quella di essere un collettivo e non un singolo, però, almeno per quanto riguardava la parte musicale del progetto: una band in cui ciascuno potesse sentirsi libero di dare il proprio apporto creativo, non dei turnisti a cui dire “questo pezzo l’ho scritto io e lo voglio così”. Il nome Panta infatti, che senza dubbio proviene dal mio cognome, l’ho scelto però anche in onore alla rivista omonima, “Panta”, fondata da uno dei miei scrittori preferiti, Pier Vittorio Tondelli, che voleva appunto mescolare più linguaggi possibile in uno spazio libero. Infine, ricordo sempre che Davide fa “Panetta” di cognome, quindi mi fa sempre troppo ridere il fatto che anche lui, veterano del gruppo insieme a me, abbia Panta nel cognome. 

Come vi siete conosciuti e scelti?
DAVIDE: Direi in maniera piuttosto “canonica”: tramite amicizie in comune, collaborazioni e annunci su internet. Io ad esempio appartengo a quest’ultima casistica… Quasi dieci anni fa mandai un messaggio a questa band di nome Panta appena formata che cercava un bassista e da lì è iniziato un sodalizio che mi lega storicamente a questo gruppo da quasi un decennio e praticamente sin dalla fondazione. L’amicizia, in ogni caso, è ciò che ci lega più di ogni altra cosa ed è il motore che ci ha portato a suonare insieme. Bruno, il nostro batterista, era già di casa molto prima che entrasse a far parte dei Panta a tempo pieno avendo svolto più di una volta il ruolo di sostituto alla batteria, mentre Giordano e Giulio avevano già suonato insieme in passato per un amico in comune. Insomma, la musica è sinonimo di famiglia per i Panta!        
GIORDANO: Mi sono unito ai Panta subito dopo il primo disco, voluto da Giulio, che già conoscevo per altre esperienze musicali condivise precedentemente. Ricordo ancora il giorno della proposta, alla quale di primo impatto ho risposto: «ma io non ho neanche una chitarra». Il vero fun fact è infatti che io ho sempre suonato il basso, ma questo dice molto dei criteri con cui compriamo le nostre scelte: lavorare insieme serenamente e sapersi riconoscere umanamente, al mansionario pensiamo dopo.
BRUNO: Ho conosciuto i Panta grazie al nostro bassista, Davide, nel novembre del 2019. All’epoca, io e lui facevamo parte di un gruppo che accompagnava un cantautore, e sin dalle prime prove avevamo capito di avere feeling. Terminata la collaborazione con quest’ultimo, io e Davide abbiamo continuato a restare in contatto, infatti, nell’estate del 2020 mi invitò a fare una prova con i Panta. Ricordo benissimo l’atmosfera di quella prova: sembrava che suonassimo insieme da tanto tempo, perché ogni brano suonava perfetto, compresi brani che non erano stati pubblicati e che io non avevo mai ascoltato. Da quella prova in poi non ci siamo più lasciati, e nel corso del tempo è nata una bella amicizia tra di noi, che ci permette di essere il gruppo, anzi, la famiglia che siamo.                                                                                                                                                                            

Il rapporto tra i componenti di una band richiede le stesse capacità di ascolto e pazienza di una relazione di coppia. Qual è il vostro segreto per andare d’accordo e riuscire sempre a comporre i pezzi di un unico puzzle che si chiama Panta?
GIULIO: Quanto è vera questa cosa. C’è voluto del tempo per oliare gli ingranaggi ma ce l’abbiamo fatta in maniera molto naturale: amiamo alla follia i nostri generi musicali di riferimento, suoniamo tutti senza voler essere “posers” del cazzo e ci stimiamo come persone anche al di fuori della band. Siamo diventati veri amici e lo saremmo anche se non suonassimo insieme. Direi che questa è la formula.
DAVIDE: Lasciare che il flusso creativo sia alimentato dalla fiducia e dal rispetto. Quando suoniamo sappiamo esattamente cosa fare ognuno di noi con il nostro strumento ed è per questo che ci fidiamo l’uno dell’altro. Rispettare reciprocamente il proprio ruolo è la base di tutto. So perfettamente che Giulio tirerà fuori dal cilindro un testo bellissimo, che Giordano scriverà un arpeggio di chitarra geniale o che Bruno farà “danzare” le mie linee di basso come nessun altro. Siamo consapevoli di cosa ogni membro può dare alla band e ai brani e questo ci permette di mandare avanti la nostra “relazione” pacificamente. 
BRUNO: Eh… senza sesso è tosta! Scherzi a parte, la nostra relazione funziona perché c’è fiducia e rispetto tra di noi: Giulio scrive testi mai banali e pieni di significati, Giordano sa integrarsi perfettamente con la chitarra, e Davide riesce a creare parti di basso che si incastrano perfettamente con le mie idee ritmiche. Insomma, siamo complementari l’uno con l’altro, e questo continuo flusso creativo ci permette di tirare fuori il meglio di noi.

La domanda che vi avranno fatto più spesso, perché in effetti per chi ama il brit rock desterebbe di sicuro fascino e curiosità: la vostra esperienza negli studi di Abbey Road e negli Battery Studios. Raccontatemi per favore un aneddoto, perché già mi batte il cuore.
DAVIDE: Già il solo fatto di essere stati lì dentro è un enorme aneddoto! Ci sarebbero mille cose da raccontare e nessuna di queste renderebbe comunque mai giustizia quanto vivere di persona tutto quello che è successo. Una cosa però mi è rimasta stampata nella testa: dopo aver registrato la parte di basso di “Arcobaleno Elettrico” agli Abbey Road Studios, esco fuori per fumare una (meritatissima e catartica) sigaretta e con me ricordo ci fosse anche Giulio. Dall’altra parte del cancello un gruppo di persone, in pellegrinaggio ad Abbey Road (come tanti ogni giorno del resto), si sofferma a guardarci e all’improvviso ci scatta qualche foto con il cellulare. Ed ecco che per un attimo, per un istante e soprattutto per qualcuno, siamo state delle fottute rockstar!
GIULIO: Come no, me lo ricordo Dave, spettacolo! Registrare ad Abbey Road, o ancor meglio, avere dei nostri brani prodotti dagli studi di Abbey Road senza sborsare un centesimo, è l’esperienza più incredibile della nostra vita musicale. E per fortuna ne abbiamo fatte tante eh, io e Bruno ad esempio abbiamo di recente suonato allo Stadio Olimpico davanti a 60mila persone, per non parlare di quando abbiamo suonato insieme ad alcuni dei nostri miti come Manuel Agnelli o i Marlene Kuntz. Ma Abbey Road è in cima: ho avuto il privilegio di andare a suonare lì in quattro occasioni diverse, per più o meno giorni. Ogni volta è stata una magia. Il mio aneddoto è il realizzare di essere veramente lì quando, entrato nella canteen interna riservata solo a musicisti e addetti ai lavori, mi sono seduto a mangiare e mi sono accorto che c’era una foto appesa alla parete dei Beatles esattamente in quel punto a mangiare negli anni 60. Per poco svenivo. 
GIORDANO: Credo valga la pena di rievocare un aneddoto apparentemente cupo: ricordo che nelle settimane prima del nostro viaggio mi sentivo travolto da dubbi e insicurezze, stava rischiando di prevalere in me la sindrome dell’impostore, avevo timore di non essere all’altezza e stavo lasciando troppo spazio ai vissuti più spiacevoli della mia vita da musicista fino a quei giorni. È stato fondamentale un confronto con Giulio e successivamente con tutti, in cui è stato ribadito che dovevo essere parte di questa esperienza, ho ricevuto un aiuto decisivo per definire meglio le parti da portare in studio e così una volta giunti a Londra ho potuto godermi per intero quei giorni. Entrando a Abbey Road e al Battery mi sono sentito attraversato dalla Storia (scrivo maiuscolo di proposito), una sensazione che ho provato poche volte in tutta la vita. E ora certamente c’è ancora molto da fare nei prossimi anni, ma so già che andrò in pensione senza rimpianti.
BRUNO: Descrivo questa esperienza come un bellissimo sogno, qualcosa di difficile da spiegare a parole. Per noi, Abbey Road e Battery Studios rappresentano il tempio della musica pop e rock, perché è proprio in quegli studi che i nostri miti musicali hanno creato dischi che hanno fatto la storia.

Avete prodotto due dischi ed entrambi in italiano. Visti i contatti ormai presi con la realtà musicale britannica, non avete mai considerato l’idea di scrivere pezzi in inglese?
GIULIO: Domanda molto affascinante. Pensa che le prime canzoni che ho scritto quando avevo 14 o 15 anni erano in inglese, sulla falsariga dei miei miti più grandi. Anche in seguito, con le prime band di cui ho fatto parte facevamo brani originali in inglese. L’italiano per me è stato un punto di arrivo, perché quando ho capito che volevo studiare lettere e che volevo fare anche lo scrittore nella vita, ho sentito che alcuni dei versi che scrivevo in italiano nascevano a posta per essere musicati. Nonostante abbia poi anche vissuto e studiato in Inghilterra, la tentazione di tornare a scrivere in inglese non l’ho mai più avuta e se non mi è tornata neanche dopo l’esperienza ad Abbey Road, direi che almeno per quanto riguarda il progetto Panta l’italiano continuerà ad essere la nostra “tazza di tè”.

L’ultimo album è “Poeti, Vampiri & Veneri Punk”. Cosa rappresenta questa triade?
GIULIO: Sono i destinatari ideali dell’album, ovvero quegli outsiders che vivono un po’ fuori dai ranghi e cercano di cogliere le pulsioni sotterranee presenti in sé e nel mondo che li circonda. I poeti lo fanno attraverso la ricerca di un senso altro, più profondo, dietro alle cose; i vampiri succhiano la vita, soprattutto di notte, come fossero i tiri di una sigaretta; le veneri punk sono delle divinità anche se non lo sanno, anzi forse proprio perché non lo sanno. Inoltre, il verso è un endecasillabo e ha un chiasmo dentro con le iniziali delle parole. Quando è arrivato, così out of the blue, ho sentito subito che risuonava forte, che era il titolo perfetto per l’album.

Come vedete il destino del rock?
DAVIDE: Non parlerei di destino. Il rock si deve solo suonare senza pensare a nulla, solo così potrà avere un futuro. Se ci concentriamo ad esaminare la situazione musicale attuale con le sue miriadi di variabili, dettate da centinaia di fattori, non riusciremo mai a coglierne l’essenza, ovvero l’essere istintivo. Bisogna prendere lo strumento e suonare quello che ci passa per la testa senza alcun schema, a prescindere se là fuori un cantante trap sta facendo tour sold out ovunque e tu sei un perfetto sconosciuto che a stento riesce ad esibirsi davanti a 20 persone. Il cantante trap sarà sempre schiavo di un meccanismo, tu no e sarà quello che ti farà sopravvivere. 
GIORDANO: Dipende innanzitutto da quale definizione diamo al rock: per quanto ci riguarda il rock è parte costitutiva di un movimento di emancipazione, al di là dell’assetto più strettamente tecnico-musicale – non a caso ne esistono una pressoché infinità di varianti. In questo senso, il suo destino è lo stesso dell’emancipazione umana, e quindi dobbiamo incrociare le dita – o meglio: darci da fare. Tutto il “rock” che passa da X Factor o format affini, che viene confezionato come merce con cui ingozzare il pubblico che “si ciuccia” senza filtro critico qualunque spazzatura gli venga propinata, il suo destino non ci interessa.
BRUNO: Fino a quando ci saranno band che lo faranno, a prescindere dalla loro popolarità, il Rock non morirà.
GIULIO: Come dice Carlo, che citavo in apertura, su Viaggi di nozze: “Ma che ve devo dì?! Hanno già detto tutto loro”.

Quali sono i vostri artisti di riferimento?
GIULIO: Eh eh, una lista infinita ma provo a fare una selezione. I Beatles e Bowie sono l’alfa e l’omega per me. Da qui, come dei cerchi concentrici, è nato l’amore per Smiths, Oasis, Radiohead, Cure, Nirvana, Joy Division, New Order, U2, Suede, Verve. Il genere con cui anagraficamente sono cresciuto, che mi porterò per sempre dentro, è poi l’Indie Rock: Arctic Monkeys, Strokes, Interpol, Franz Ferdinand, i primi Editors, Kasabian, Yeah Yeah Yeahs, Bloc Party. Sto in fissa da sempre e per sempre. Così come, venendo all’Italia, con gruppi come CCCP, Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena, Baustelle e il cantautorato storico. Infine, come faccio a non citare la componente più “classica” che è essenziale per me come musicista (e non solo): Pink Floyd, Doors, The Who, Hendrix, Stones, Cream e Led Zeppelin. Quanto è bello il Rock’n’Roll, fuck!
GIORDANO: Ci sarebbe da scrivere un poema ma proviamo a sintetizzare. Per me le esperienze di ascolto capovolgenti sono state principalmente Frank Zappa e gli Skiantos. Con il primo, che si ascoltava in casa già da quando ero molto piccolo, ho scoperto le potenzialità infinite della musica. Così come si dice sempre che usiamo solo una parte del nostro cervello, anche nella musica prima di ascoltare Zappa mi sembrava di ascoltare sempre le stesse cose, scoprendo che invece al di là della canzoncina e delle sue regolette c’è l’universo intero. E lo stesso ho capito con gli Skiantos, che hanno cercato di denunciare le contraddizioni più patetiche della forma canzone. Per colpa o merito di Freak Antoni, non riesco a ascoltare un pezzo stile Sanremo senza trovarlo ridicolo.
DAVIDE: La mia band preferita sono i Led Zeppelin, punto. Se oggi suono uno strumento e sono un musicista è grazie solo a loro. Per me sono la rock band per eccellenza; nessuno come loro. Amo i Pink Floyd alla follia, gli Iron Maiden, i Doors, i The Cure, i Joy Division e in generale tutta la corrente darkwave anni 80 che mi ha influenzato tantissimo sul modo di suonare il basso ma amo paradossalmente anche la scena hard rock anni 80 ed artisti come i Def Leppard, gli Skid Row, i Whitesnake e i Journey, solo per citarne alcuni. E infine c’è la Synthwave, una corrente di musica elettronica sempre più in espansione in cui sintetizzatori e batterie riverberate la fanno da padrone. Per un appassionato di musica e cultura anni Ottanta come me è un’oasi felice ma anche un genere che esploro come compositore da circa due anni attraverso il mio progetto solista Arkavoid.
BRUNO: Essendo nato e cresciuto in una famiglia di musicisti, ho avuto modo di ascoltare svariati generi musicali, ma i miei preferiti restano i Beatles e Led Zeppelin, perché hanno avuto una storia musicale talmente grande ed influente che li rende attuali oggi. Amo ascoltare i Doors, Nirvana, Green Day, gli italianissimi Pooh, che negli anni 70 hanno prodotto dischi per me unici, e tantissimi altri artisti.

Rispetto ad altri artisti e pezzi di storia della musica, ditemi una canzone che vi salva la vita nei momenti bui; una canzone che cantereste sotto la doccia; una canzone che dedichereste ad una venere punk?
GIULIO: Bello, come dicevano gli Smiths, “the songs that saved your life”! Dunque per la prima ti direi D’ You Know What I Mean? degli Oasis, per la seconda Public Pervert degli Interpol, per la terza I Wanna Be Yours così con un colpo solo omaggiamo gli Arctic e il mio amato John Cooper Clarke.
DAVIDE: Quicksand Jesus degli Skid Row da urlare a squarciagola sotto la doccia, in macchina e ovunque sia possibile, strappandosi letteralmente le corde vocali, infine Friday I’m in Love dei The Cure, che associo sempre alla mia sola e unica venere punk.
BRUNO: Come Together dei Beatles per la doccia, Crepuscolari per la venere punk e Risveglio per i momenti bui o malinconici.
GIORDANO: Momenti bui: l’Internazionale comunista e Ma chi ha detto che non c’è di Gianfranco Manfredi. Doccia: Everybody’s talkin’ di Fred Neil. Venere punk: Non è nel cuore di Eugenio Finardi.

Dove possiamo venire a vedervi live prossimamente? E riguardo altri progetti o brani, cosa bolle in pentola?
GIULIO: Come avrai capito i Panta sono ormai un progetto con diverse arti e diverse anime all’interno. Io ho appena pubblicato il mio nuovo libro con Einaudi, che come si suol dire è il “libro della vita”, il sogno massimo che avessi come autore. Sto partendo per delle presentazioni in lungo e in largo, sempre chitarra alla mano naturalmente, a partire da Spazio Sette il 12 febbraio. Il 21 sarò a Fiumicino, il 22 all’Orion di Ciampino con l’Oasis Mania Night, il 23 a Treviso. Torneremo finalmente tutti insieme coi Panta il 19 marzo al Monk. Sarà un concerto speciale.

Grazie di cuore.
Panta: Grazie a te per le super domande, alla prossima!

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