Rosa Elenia Stravato: tra poesia, teatro e cultura, una voce giovane e poliedrica della letteratura italiana

Rosa Elenia Stravato è una scrittrice, docente e operatrice culturale che si è distinta per la sua capacità di spaziare tra diversi linguaggi artistici. Dalla pubblicazione della sua opera prima Tutti gli amori nella mia testa alla partecipazione a progetti come “L’unico vaccino è l’amore”, Rosa Elenia si muove con naturalezza tra poesia, prosa e teatro, offrendo al pubblico una scrittura autentica e coinvolgente. Il suo impegno culturale è testimoniato dalle numerose collaborazioni con fondazioni e progetti educativi. In questa intervista, ci racconta come le sue esperienze l’hanno formata, i temi che la ispirano e la visione che guida il suo percorso creativo.


Rosa Elenia, hai iniziato il tuo percorso culturale da molto giovane. Qual è stato il momento in cui hai capito che la scrittura sarebbe stata il tuo strumento di espressione principale?
Ma che domandone! È complesso rispondervi in maniera categorica, mi sembra molto la classica querelle “è nato prima l’uovo o la gallina?”. Non c’è stato un momento preciso. Una data, intendo. È stata una condizione naturale per me. Una di quelle cose che fai per darti forma, per dare un senso ai tuoi istanti, accomodare i pensieri. Sin da quando ho iniziato ad avere i primi strumenti per scrivere, parlo già dalla scuola elementare, mi divertivo a creare storie. Ricordo di aver iniziato a scrivere senza uno scopo definito. E mentre le parole si dispiegavano sulla pagina, qualcosa si è acceso dentro di me. Come se, attraverso quel semplice atto, stessi finalmente parlando con qualcuno – qualcuno che non era lì fisicamente, ma che stavo incontrando tra le righe, attraverso le storie e le emozioni che condividevo. E così, un semplice compito assegnato per casa dall’insegnante, ha iniziato ad assumere un’importanza magistrale. Leggere i miei scritti era, per me, un atto importante. E ricordo che, con grande stupore, la prima volta in cui mi sono resa conto di poter “possedere una platea” con le parole, è stato proprio tra i banchi di scuola. Lì, mentre raccontavo di una delle mie primissime grandi perdite. In quel testo, io avevo restituito l’essenza di un uomo al quale ero molto legata. Un uomo buono, che profumava di tabacco e mare. Un uomo dalla pelle olivastra e con un sorriso che raccontava libertà, impegno, autenticità. Un uomo che, in fondo, era il mio confidente ed amico. Nonno Franco. Il silenzio dell’aula mi è rimasto addosso, ricordo ancora l’espressione dell’insegnante e gli occhi lucidi di molti compagni. Forse non è stata tanto la scrittura in sé a colpirmi, quanto il fatto che mi permetteva di incontrare le persone in modo unico, autentico e profondo. Le parole diventavano ponti, strumenti attraverso cui trasmettevo parti di me e, al tempo stesso, raccoglievo frammenti degli altri. Ogni lettore, anche se distante, era connesso a me attraverso quei fili invisibili di storie e emozioni che condividevamo. Ed è stata proprio quella sensazione di comunione – silenziosa ma potente – a farmi capire che la scrittura era il mio mezzo aureo. Attraverso di essa, non solo raccontavo le mie esperienze, ma davo voce a chi, a volte, non riusciva a trovare le proprie parole. Ogni pagina, ogni storia, è diventata un’occasione per creare uno spazio dove io e il lettore potevamo incontrarci, capirci e, in qualche modo, influenzarci reciprocamente. La scrittura è diventata una finestra sul mio mondo e un invito a chiunque volesse attraversarla, trovando riflessi di sé. E così mi sono accomodata nell’idea che non avrei mai più potuto fare a meno di questa connessione, e che scrivere non era solo un atto creativo, ma un atto profondamente umano.

La tua formazione accademica e teatrale ha chiaramente influenzato il tuo stile. In che modo pensi che il teatro abbia arricchito la tua capacità di raccontare storie?
Il teatro ha avuto un impatto profondissimo sul mio stile di scrittura, e questo legame si è consolidato grazie all’incontro con Maria Letizia Compatangelo e alle sue preziosissime lezioni di scrittura scenica. Ricordo che la Compatangelo, durante quelle lezioni, parlasse della scrittura teatrale come un vero e proprio processo vitale. Ogni battuta, ogni gesto, doveva essere carico di significato, in grado di rivelare le complessità umane attraverso una forma essenziale, quasi nuda. Questo mi ha insegnato a scrivere con maggiore precisione e economia, scegliendo le parole con cura, quasi come si scelgono gli attori per un cast. Il mio modo di strutturare i personaggi nei racconti risente follemente della scrittura teatrale: lì vedo, propongo per loro una vita con un preciso arco. Faccio in modo, insomma, che possano essere mezzi per riconoscersi nella diversità come nella somiglianza. C’è da dire che ho scoperto il mondo del teatro da piccolissima, guardando le commedie di Eduardo De Filippo e poi quelle di Vincenzo Salemme. Un fascino, il mio, verso la “parlesia” napoletana che ha alimentato il mio vocabolario.

Sin dal principio, mi sono chiesta come sarebbe stato diventare la parola detta da un personaggio. È stata la curiosità, la fascinazione per quel mondo di tavole e lucine, che mi ha condotto tra le stanze delle tecniche di scrittura teatrale. Ma lo devo dire, Eduardo è stato un maestro che mi ha guidato con la sua capacità di fondere il tragico e il comico in maniera così naturale e umana. Le sue commedie sono dei microcosmi in cui convivono tutte le sfaccettature della vita: il dolore, la gioia, la malinconia, la speranza. E con gli studi, poi, mi sono indirizzata verso questa arte. Ritengo fondamentale studiare. Non ci si può improvvisare! Bisogna conoscere la tradizione, le sperimentazioni, la storia; bisogna comprendere le ragioni dentro e fuori dal testo per farne parte, per risultare credibili. E così, la scrittura teatrale mi ha insegnato il valore della voce e del silenzio. Ogni battuta non è solo ciò che viene detto, ma tutto quello che viene taciuto, sottinteso, sospeso. Questo mi ha influenzato profondamente, portandomi a creare personaggi che non solo parlano, ma che abitano i loro silenzi in maniera eloquente, e trame in cui ciò che non viene detto è spesso più potente di ciò che appare. Grazie a queste influenze, il mio stile è diventato più attento ai ritmi del dialogo e alla gestualità dei personaggi, come se, anche sulla pagina, potessero muoversi su un palcoscenico invisibile. La mia penna si è arricchita di quella tensione che è tipica del teatro, in cui ogni scena è un momento di svelamento, di conflitto o di riconciliazione, sempre sospesa tra il detto e il non detto. In fondo, la scrittura teatrale mi ha insegnato a guardare alla vita come a una serie di atti, in cui ogni dialogo e ogni azione possono trasformarsi in una rivelazione dell’essenza umana. E questo è diventato il cuore del mio modo di scrivere.

Il tuo libro Il profilo del tempo esplora il tema dell’amore in maniera profonda. Cosa rappresenta per te l’amore come concetto e come riesci a trasmetterlo nei tuoi scritti?
Non si può vivere senza amare. La vita è un atto d’amore lucente, potentissimo. Noi veniamo al mondo e siamo “amore”, che a guardar bene, è il desiderio che muove e alimenta l’universo. Quindi, mi chiedo se si possa scrivere senza amare ed evitare di cadere nei cliché, non lo so.

Per me l’amore è un concetto multiforme, una forza che si estende ben oltre le dinamiche romantiche. È il motore delle relazioni umane, la spinta che ci porta a connetterci, a cercare l’altro e, allo stesso tempo, a cercare noi stessi nell’altro.

Ne “Il profilo del tempo“, ho voluto esplorare l’amore come un filo conduttore tra le esperienze di vita, come quella sottile linea che collega i momenti più felici a quelli più dolorosi, rendendo tutto significativo. Così ho scelto di restituire al lettore i mille volti, le sfumature che questo sentimento altissimo può assumere. C’è l’amor proprio, che è sacrosantissimo, l’amore per la propria famiglia, per i talenti e per le persone che ci fanno sentire vive. E poi c’è la passione, il tormento… La vita!

L’amore, nei miei scritti, rappresenta spesso un viaggio: è trasformazione, crescita, ma anche sacrificio e vulnerabilità. In “Tutti gli amori nella mia testa” ad esempio, mi ero soffermata su storie possibili. Storie nate alle fermate dei tram, scoccate solo nella mia fantasia. Con il romanzo “Il profilo del tempo, ho scelto di raccontare il gioco del caso. L’architettura che muove, alle volte in maniera disastrosa, le nostre routine.  Mi affascina l’amore, la sua capacità di sfidare il tempo e di modellare le nostre esistenze, proprio come il titolo del mio libro suggerisce: il “profilo del tempo” è una metafora del modo in cui l’amore incide nella nostra memoria, plasmando il passato e influenzando il futuro, quasi come una traccia indelebile. Nel raccontare l’amore, cerco di trasmettere la sua complessità attraverso personaggi che non sono perfetti, ma profondamente umani. Ciò che mi interessa è catturare le sfumature, i dettagli invisibili che spesso connotano le relazioni: gli sguardi non detti, i silenzi che gridano più di mille parole, le paure nascoste dietro un gesto affettuoso. Ciò mi permette di portare alla luce non solo le gioie, ma anche le difficoltà, le contraddizioni e i paradossi che ogni relazione porta con sé. Uno degli aspetti che esploro particolarmente nel romanzo è come l’amore possa essere tanto un legame profondo e liberatorio quanto una prigione invisibile. I personaggi del libro si muovono in uno spazio in cui l’amore diventa una forza sia creatrice che distruttrice, e il loro cammino è segnato dalla necessità di trovare un equilibrio tra il donarsi e il preservarsi. Per restituire tutto questo, lavoro molto sul linguaggio emotivo e visivo, come se stessi creando dei frame cinematografici. Molti lettori mi hanno detto di aver vissuto quei luoghi e indossato i panni di Sara, Edo, Ramona… Vi confesso che è stata una grande soddisfazione!   Cerco di creare immagini che riflettano le dinamiche interne dei personaggi, spesso facendo uso di metafore legate al tempo e alla natura: l’amore come un fiume che scorre implacabile, come una tempesta che purifica o devasta, come un sole che scalda ma può anche bruciare. E così che i dialoghi diventano finestre sulle loro anime. In definitiva, per me l’amore è una forza che definisce il modo in cui viviamo e percepiamo il mondo. Nei miei testi, cerco di mostrare come l’amore non sia mai una cosa sola, ma piuttosto una moltitudine di emozioni e contraddizioni che ci rendono vivi e ci spingono a cambiare, ad accettare l’incertezza del tempo che passa, e a trovare bellezza anche nelle cicatrici che lascia.

Hai collaborato a numerosi progetti culturali, dai podcast al cinema. Come riesci a integrare diverse forme d’arte nel tuo lavoro e quale di queste ti permette di esprimere al meglio la tua creatività?
​Mi diverto molto. Studio, programmo e mi lascio trasportare dall’entusiasmo. Non mi piace stare ferma, aspettare che le cose cambino senza agire. Senza far parte della società. Ritengo che le forme d’arte siano uno strumento potentissimo per restituire l’urgenza dei tempi che cambiano. Siano un veicolo potente per creare punti di comunicazione raffinatissimi. Integrare diverse forme d’arte, quindi, nel mio lavoro è per me una necessità naturale. Un modo per arricchire il mio processo creativo e dare profondità a ciò che scrivo. La scrittura, sebbene sia la mia forma d’espressione principale, trae linfa dalle altre discipline artistiche, che mi aiutano a esplorare nuovi linguaggi e prospettive. Spesso, musica, pittura, cinema e teatro si intrecciano nelle mie narrazioni, diventando parte integrante del mondo che costruisco. Sorvolo sul teatro di cui ho già ampiamente parlato ma il cinema ha, chiaramente, agito in maniera importante sulla mia formazione e influenza la mia scrittura. Mi piace, ad esempio, andare da sola a vedere i film per immergermi in quel silenzio assordante capace di dire cose che, diversamente, non coglieresti.

La musica, ad esempio, è una presenza costante mentre scrivo. Le sue dinamiche, i suoi ritmi, mi guidano nel costruire l’atmosfera di una scena o nel delineare il tono emotivo di un passaggio. A volte, una singola melodia può suggerirmi l’intera struttura narrativa di un capitolo. La musica è un’arte che comunica in modo diretto, capace di evocare emozioni profonde senza bisogno di parole, e cerco di tradurre quella stessa immediatezza nelle mie descrizioni e nei miei dialoghi. Ne “Il profilo del Tempo” la musica è stata il mio deus ex machina. Anche la pittura ha un ruolo cruciale nel mio modo di concepire la scrittura. Mi affascina la capacità dei pittori di catturare l’essenza di un attimo attraverso un’immagine statica. In questo senso, provo a immaginare le mie scene come quadri viventi, con colori, luci e ombre ben definiti. I dettagli visivi, le texture degli ambienti e persino il modo in cui la luce si riflette sui personaggi mi aiutano a rendere la narrazione più viva. L’omaggio a Dalì è nel titolo del romanzo, infatti. Spesso mi capita di ispirarmi a dipinti reali o a opere d’arte visiva per costruire immagini suggestive e ricche di simbolismo. Come ho detto prima, la scrittura scenica ed il teatro sono radicati nel mio modo di costruire personaggi e dialoghi. In conclusione, integrare diverse forme d’arte nella mia scrittura mi permette di esplorare la realtà in modi diversi, amplificando la mia capacità di raccontare storie complesse. Ogni arte mi offre una lente diversa attraverso cui leggere il mondo, e tutte insieme mi permettono di dare sostanza a una visione creativa più completa e multi -sfaccettata.

Nella tua carriera hai partecipato a molti concorsi letterari, distinguendoti per originalità e ricercatezza. Come affronti la sfida della competizione e cosa ti spinge a metterti in gioco in contesti così diversi?
La vita è un banco di prova, questo è palese. Ogni giorno affrontiamo piccole e grandi sfide che, del resto, ci danno l’occasione per migliorarci oppure per non cadere nella rete degli errori già commessi. “Mettersi alla prova”, per me, è una modalità di auto-analisi e di ricerca di dialogo con persone che, magari, hanno più strumenti di te per analizzarti. Dunque, non una semplice corsa per emergere o diventare “la migliore”. Ogni competizione la vivo come un’occasione di confronto, un modo per innestare dialoghi costruttivi con altri autori, lettori e giurie che possono offrirmi nuove prospettive sul mio lavoro. Non vivo la competizione come una sfida per affermare una sorta di superiorità creativa ma piuttosto come una chance per ampliare la mia visione e arricchirmi attraverso l’incontro con altre voci. Ciò che mi spinge a mettermi in gioco, in contesti così diversi, è proprio il desiderio di uscire dalla mia zona di comfort, di testare la mia scrittura in spazi e con tematiche nuove, in cui magari non mi sarei mai avventurata di mia iniziativa. Penso che la scrittura abbia bisogno di essere continuamente stimolata, e ogni concorso, con le sue specificità e regole, mi obbliga a cercare dentro di me risorse che non sapevo di avere. È una sfida personale, un modo per scoprire fin dove posso spingermi e quali nuove forme la mia creatività può assumere.

Non credo affatto nella competitiva corsa verso chi è “più potente” o “migliore”, perché la trovo una visione riduttiva e sterile del processo artistico. La scrittura non è una gara a chi arriva primo o a chi ottiene più riconoscimenti; è, piuttosto, un viaggio unico e personale che non può essere misurato con criteri rigidi. Quella mentalità competitiva, in cui prevale il bisogno di primeggiare, la vedo come una scemenza che allontana dall’essenza stessa dell’arte, che è, invece, condivisione, empatia e comunicazione. È il confronto che mi interessa, quello scambio sottile di idee e visioni che arricchisce entrambi. In questo senso, non vedo gli altri partecipanti come avversari, ma come compagni di viaggio, persone che, come me, cercano di esprimere qualcosa di vero attraverso le parole. Per me, partecipare ai concorsi significa mettermi in ascolto, accettare critiche e giudizi con l’umiltà di chi sa che la scrittura è un cammino in continua evoluzione.  Mettersi alla prova è, e sarà sempre, necessario. Ogni volta che partecipo a un concorso, non mi chiedo se sarò “migliore” degli altri, ma cosa posso imparare da questa esperienza e in che modo posso far evolvere il mio stile. La competizione, per me, è una palestra in cui si coltivano forza, disciplina e apertura mentale, senza mai perdere di vista l’obiettivo più importante: crescere come persona e poi come autrice.

Il tuo lavoro nel progetto “L’unico vaccino è l’amore” affronta tematiche di grande attualità. In che modo eventi globali come la pandemia hanno influenzato il tuo processo creativo e la tua visione del mondo?
Questo progetto è stata un’occasione inconsapevole che mi ha condotto a riconsiderare la mia visione del mondo: abbiamo vissuto una condizione collettiva di vulnerabilità, che ci ha ricordato quanto siamo interconnessi, quanto l’amore e l’empatia siano necessari per superare le difficoltà. In un tempo di incertezza, la riscoperta della passione e della vicinanza, anche a distanza, è stata per me la testimonianza più potente del fatto che, davvero, l’unico vaccino per l’anima è l’amore. Ho aderito al progetto “L’unico vaccino è l’amore” in maniera quasi inconsapevole. Durante la pandemia ho dedicato, quotidianamente, una parte della serata a fare esercizi di scrittura. Aprivo il pc e mi davo dei temi su cui scrivere. E così, è nato il racconto: “Torneremo a raccontarci le favole”. Poi, un pomeriggio, ho letto questa “call” per racconti e ho inviato questo testo. Non ci ho pensato molto, l’ho inviato e basta. Come, in fondo, se fosse nato con l’obiettivo di raggiungere, abbracciare il resto del mondo. È una storia di attesa. Una storia che nasce dalla volontà di esplorare la fragilità e la complessità dell’animo umano in un momento di grande sospensione, come quello vissuto durante la pandemia. Eventi globali come il COVID-19 hanno inevitabilmente influenzato il mio processo umano e creativo, portandomi a riflettere su tematiche che, prima di allora, non avevo mai affrontato con tale intensità: l’attesa, la distanza, la riscoperta di ciò che conta davvero quando il tempo sembra fermarsi. Nel mio racconto, l’attesa diventa protagonista. Ho voluto descrivere quell’intervallo di tempo sospeso, quasi irreale, in cui le persone sono state costrette a rimanere distanti, a trovare modi nuovi di amarsi e connettersi. È la storia di come la passione possa nascere, spegnersi e risorgere, nonostante il gelo della separazione, entrando in punta di piedi tra i sospiri, nei silenzi e nelle parole non dette. Scrivendo, ho cercato di catturare l’essenza di quell’amore che si rinnova nella mancanza, nella capacità di aspettare e di amare a distanza.

Il giornalista Alessandro Salvatore, per “La Gazzetta del Mezzogiorno”, ha definito la protagonista della storia una “Penelope 2.0” e devo dire che mi ha reso molto orgogliosa. Il personaggio di Penelope, come quello di Fedra, hanno esercitato un enorme fascino su di me. Le eroine classiche hanno quel “quid” che non si può spiegare, altrimenti diviene banale. Ti si annidano dentro e ti rendono loro complici. Durante la pandemia, forse, le loro storie si sono accavallavate frettolose con la mia condizione e hanno dato luogo ad ampie riflessioni. Riflessioni, probabilmente, comuni a più esseri umani.  Il gelo di quel periodo non è stato solo fisico ma soprattutto emotivo: il mondo sembrava cristallizzato in un’eterna incertezza, e questo ha reso tutto più vulnerabile e intenso allo stesso tempo. Il mio racconto ha teso riflettere su questa dualità: da una parte il dolore della separazione, dall’altra la riscoperta della vicinanza emotiva, quella che supera lo spazio e il tempo. La distanza fisica si è trasformata in un’opportunità per riscoprire i legami, per trovare nuove forme di intimità, più sottili ma non meno potenti. La pandemia ha reso eloquente la fragilità del nostro mondo, ma ne ha anche evidenziato la resilienza dell’amore e delle relazioni umane. E così ho ceduto, ancora una volta, la mia penna al servizio dell’amore. Ho voluto raccontare come, anche in un periodo in cui tutto era fermo, questo sentimento potesse essere un antidoto al freddo della solitudine. È stato un momento in cui la sospensione è diventata la chiave di lettura per buona parte del mondo, e io ho cercato di tradurre questa esperienza in parole, affrontando il vuoto ma anche la speranza che ne emerge.

Nel tuo percorso hai avuto diverse esperienze come formatrice e docente. Come queste attività educative hanno arricchito il tuo modo di scrivere e di vedere la letteratura?
Il mio lavoro dapprima come formatrice e poi da docente hanno avuto un impatto lucente sul mio modo di scrivere e di vedere la letteratura. L’insegnamento mi ha permesso di osservare la scrittura da un’altra prospettiva, quella di chi è ancora in fase di scoperta, e questo ha arricchito enormemente il mio approccio. Essere a contatto con studenti, spesso con esperienze e punti di vista molto diversi tra loro, mi ha insegnato che la letteratura è un dialogo costante, non solo con sé stessi, ma con chi legge, interpreta e reinventa ciò che hai scritto. Stare accanto agli studenti, veder loro vivere un pezzo di strada che tu hai già battuto, è un privilegio che non può essere vissuto in maniera asettica. Una forma di responsabilità. Sono lontana anni luce da chi definisce l’insegnamento una “vocazione”. No, mi spiace. Non si tratta di una chiamata dall’alto ma di una scelta coscienziosa, meticolosa. Non può, l’insegnamento essere il rifugio di chi non trova altra collocazione lavorativa. È un lavoro stancante ma importantissimo: non si è insegnanti perché si trasmettono nozioni. Non solo. Ma perché si restituisce all’esser umano la sua umanità, la sua libertà di pensiero. Questo è il mio punto di vista e quello che cerco di fare in classe. La cattedra, per me, non è un pulpito ma una palestra di condivisione.  Nel ruolo di formatrice, ho imparato a de-costruire il mio processo creativo per renderlo più accessibile e comprensibile agli altri. Questo mi ha portato a riflettere più a fondo sulle mie scelte stilistiche, sulle strutture narrative che utilizzo e sul significato che voglio trasmettere. Quando spiego ai miei studenti le tecniche narrative o le strategie di scrittura, mi ritrovo a rivedere le basi, a ripensare il modo in cui costruisco una storia, il che mi ha aiutato a essere più consapevole e intenzionale nel mio stesso lavoro. Inoltre, il confronto con i giovani scrittori e scrittrici ha aperto nuovi orizzonti creativi. Ogni volta che leggiamo insieme un testo o discutiamo di un’opera letteraria, nascono riflessioni nuove, a cui magari non avrei mai pensato da sola. Mi accorgo spesso di come le loro domande e interpretazioni mi spingano a guardare la letteratura con occhi nuovi, a vedere dettagli o possibilità che, da autrice, mi sarebbero potuti sfuggire. Questo scambio arricchisce il mio immaginario e mi stimola a sperimentare più audacemente nella mia scrittura. Un altro aspetto fondamentale che ho appreso insegnando è l’importanza della diversità delle voci. Ogni studente ha una storia diversa da raccontare, e questo mi ricorda costantemente quanto sia importante, nella letteratura, rappresentare la complessità del mondo. Questo mi spinge a cercare sempre nuove storie, nuove prospettive, e a esplorare tematiche che non avrei mai considerato altrimenti. La scrittura, dopo tutto, è un modo per entrare in contatto con l’umanità nelle sue molteplici sfaccettature, e l’insegnamento mi ha aiutato a comprendere meglio la necessità di questo approccio inclusivo. Infine, credo che l’aspetto più significativo dell’essere docente sia la responsabilità che si sente nel trasmettere l’amore per la parola. Questo mi ha reso più attenta alla scelta delle mie stesse parole, alla cura con cui costruisco ogni frase. Insegnare mi ha insegnato a scrivere in maniera più consapevole, a non dare nulla per scontato, perché ogni testo è un’opportunità per entrare in contatto con un lettore, con un pensiero, con un mondo nuovo. In sostanza, l’attività educativa ha arricchito il mio lavoro di autrice rendendomi più aperta, attenta e consapevole. Mi ha insegnato che la letteratura non è solo un esercizio solitario, ma un terreno fertile di confronto e crescita reciproca. Mi ha educato a non dare tutto per scontato, a cercare di entrare in empatia anche con chi crediamo distante.

Hai scritto monologhi teatrali e racconti, ognuno con la sua particolare intensità. Qual è il processo che segui per immergerti in una narrazione più intima e profonda, come nei monologhi?
Il monologo è stato il mio primo esercizio quando frequentavo la scuola di scrittura in Rai, a via Teulada, a Roma.  È stato, fondamentalmente, il mio biglietto da visita. Mi ci ero, chiaramente, allenata parecchio. Diciamo che è stato un esercizio reiterato che ha saputo darmi gioie e dolori.

È una modalità di scrittura complessa. È una prova di scrittura che richiede non solo empatia ma anche un’intensa attenzione ai dettagli emotivi, ai silenzi, e a ciò che viene taciuto. Si tratta di dare voce a una solitudine, anche quando quel personaggio sembra parlare con qualcun altro. Devo dire che l’esercitarsi a scrivere monologhi ha influito, in buona parte, sul mio stile.

Un monologo richiede di entrare nella psiche di un personaggio con una profondità assoluta, creando una connessione diretta tra lui e il pubblico. il mio processo di scrittura per i monologhi si fonda su un ascolto profondo del personaggio, sulla creazione di una tensione emotiva intensa, e sulla capacità di far parlare anche i silenzi. È un percorso che mi porta sempre a confrontarmi con la vulnerabilità, mia e dei miei personaggi, e questo rende ogni monologo un’esperienza unica e coinvolgente. Il mio processo inizia sempre con l’esplorazione del cuore del personaggio. Prima di iniziare a scrivere, cerco di comprendere chi sia veramente: cosa desidera, cosa teme, qual è la sua verità più profonda. In questo momento iniziale, passo molto tempo a riflettere non solo sul suo vissuto, ma anche su come quel vissuto si rifletta nel presente del monologo.

Mi chiedo: cosa lo spinge a parlare proprio ora? Cosa c’è in gioco per lui o lei?

Ogni parola, ogni pausa, deve servire a rivelare qualcosa di essenziale. Una volta entrata nella mente del personaggio, mi immergo in un lavoro di ascolto. Il monologo è una forma di confessione, anche se non sempre esplicita. Cerco di ascoltare quella voce interiore, di capire il ritmo con cui pensa, il modo in cui le emozioni affiorano e si mescolano con le parole. A volte inizio semplicemente a scrivere senza una struttura definita, lasciando che il personaggio “parli” liberamente. Spesso, questo mi porta a scoprire aspetti della sua personalità che non avevo previsto. Altro elemento cruciale è la sensazione di urgenza. Nei monologhi, ogni parola deve avere un peso, perché il personaggio è da solo di fronte al pubblico, e ogni pensiero espresso può essere rivelatore. Cerco sempre di creare una tensione interna, una sorta di lotta tra quello che il personaggio vuole dire e quello che invece esita a confessare. Questa tensione rende il monologo vivo, autentico. Mi piace lavorare su queste sfumature, facendo emergere le contraddizioni, le paure nascoste, i desideri inconfessati. La narrazione nei monologhi si sviluppa anche attraverso il silenzio. A differenza dei racconti, dove posso giocare con le descrizioni e i dialoghi tra più personaggi, nel monologo ogni pausa, ogni momento di riflessione diventa un dialogo interiore che il pubblico deve intuire. Scrivo spesso pensando a come il personaggio si muoverebbe sul palco, a come i suoi gesti, i suoi sguardi, possano dire tanto quanto le parole stesse. Per ricreare questa intimità, mi immergo nella psicologia del personaggio, esplorando anche i suoi conflitti più sottili, quelli che magari non emergono subito, ma che pulsano sotto la superficie. È in questi spazi che riesco a trovare la profondità necessaria per un monologo: nei non detti, nei pensieri che restano sospesi. Infine, cerco di mantenere una connessione emotiva diretta con la storia. Scrivere un monologo richiede di mettersi a nudo tanto quanto il personaggio che si sta creando. Per questo, mi avvicino al testo con una grande onestà, cercando di non nascondere nulla, né a me stessa né al pubblico. Questo rende l’esperienza di scrittura profondamente intima e, allo stesso tempo, universale.

La tua poesia “29 ottobre” ti ha permesso di ottenere una menzione speciale al premio Tiburtino. Come nasce in te la necessità di trasformare emozioni personali in poesia?
Una piacevolissima sorpresa. È così che ricordo quel momento.
Ho una passione spropositata per le poesie di Ungaretti, per quelle della Merini e mi piace imbattermi in poeti sconosciuti, emergenti e chi ne ha più ne metta. La poesia, come diceva Beningni, “è dentro”! La poesia per me è sempre stata uno strumento privilegiato per trasformare le emozioni personali in qualcosa di universale, in grado di parlare non solo di me, ma anche di chiunque si trovi a leggere. “29 ottobre” nasce da un bisogno profondo di mettere ordine nel caos emotivo, di dare una forma a sentimenti che altrimenti resterebbero confusi, non detti, e forse incompleti. Quando ho scritto quella poesia, mi trovavo in un momento di grande introspezione, in cui il passare del tempo e la memoria si intrecciavano in modo particolare. Avevo la necessità di fissare un’emozione precisa, quella che si prova quando un ricordo si fa vivo in un giorno comune, il 29 ottobre, che, per qualche motivo, assume una risonanza intima e personale. Non è stato un processo semplice, perché scrivere poesia significa rendere l’indicibile tangibile, dare corpo a emozioni che sfuggono alle definizioni chiare.

La necessità di trasformare le emozioni in poesia nasce dal desiderio di trovare un linguaggio che possa attraversare il cuore in modo diretto. Spesso, ci sono sentimenti che non riescono a trovare spazio nelle parole quotidiane, ma la poesia mi permette di scavare più a fondo, di avvicinarmi a quelle verità nascoste che normalmente resterebbero in ombra. Nel caso di “29 ottobre”, quel giorno è diventato un simbolo di un tempo sospeso, di una promessa fortissima; un attimo in cui si sente il peso della memoria e l’urgenza del presente. La poesia mi permette di giocare con il ritmo, con le immagini, con i suoni, e tutto questo mi permette di dare respiro alle emozioni, di lasciare che fluiscano liberamente e trovino il loro spazio sulla pagina. È un processo quasi fisico, in cui sento il bisogno di tradurre ciò che provo in versi, perché solo così riesco a mettere in ordine quei frammenti sparsi di pensieri ed emozioni. La poesia diventa un modo per chiarificare a me stessa ciò che sento, e al tempo stesso per comunicare qualcosa di autentico agli altri. Nella poesia premiata, ho teso raccontare il desiderio di preservare quei momenti fugaci che ci segnano senza preavviso. La necessità di trasformare queste emozioni in poesia è nata proprio da lì, dal bisogno di dare voce a un’intimità che, pur personale, potesse risuonare anche in chi legge, permettendo a ciascuno di riconoscersi in quelle parole. La menzione speciale al premio Tiburtino è stata una conferma importante per me, perché ha significato che quella mia necessità di esprimere qualcosa di così intimo aveva trovato una risonanza anche al di fuori di me stessa. Quando le emozioni personali riescono a diventare poesia, avviene un miracolo di comunicazione: ciò che è nato da una mia esperienza individuale riesce a toccare le corde emotive degli altri, ed è in questo scambio che la poesia si realizza davvero.

Quali temi o storie senti il bisogno di esplorare nei tuoi prossimi lavori, e in che modo il tuo percorso finora ha modellato la tua voce narrativa?
Avere qualcosa da dire non deve essere un esercizio per imbrattare carte e darsi un tono; deve corrispondere ad una scelta ponderata. È per questo che cercherò sempre di lavorare, scrivere di qualcosa di cui sento urgenza. Nei miei prossimi lavori, ritengo di dover esplorare temi legati alla necessità di fare buona informazione, dar valore alla comunicazione, al bisogno di dar voce alle questioni socio-ambientali e alla consapevolezza del nostro legame con la Terra.

La scrittura, chiaramente, è un processo di crescita e deve modellarsi ai tempi che si vivono. Non svendersi, attenzione, ma avere cura di dire le cose come stanno. Anche se possono suonare stonate nel marasma del qualunquismo e delle logiche di potere.

Uno dei temi che mi preme particolarmente è l’importanza della comunicazione assertiva in un’epoca in cui il dialogo sembra frammentato, dominato dall’aggressività o dall’indifferenza. Ritengo che la capacità di ascoltare e di esprimersi con autenticità e rispetto sia un elemento centrale per una società che vuole crescere, e vorrei esplorare nelle mie storie personaggi che, attraverso le loro parole e azioni, incarnano questo tipo di comunicazione. Spesso, si sottovaluta quanto la parola possa essere uno strumento di cambiamento: in un racconto, un dialogo ben costruito può rivelare non solo il carattere di un personaggio, ma anche un’intera visione del mondo. Vorrei che la mia scrittura contribuisse a risvegliare una riflessione su come comunichiamo tra di noi, sul potere della parola come mezzo per costruire ponti, anziché muri.

Accanto a ciò, sento una forte urgenza di affrontare le questioni socio-ambientali, che oggi sono più attuali che mai. La crisi climatica e le disuguaglianze sociali sono temi che mi toccano profondamente, e credo che la scrittura possa essere uno strumento per raccontare le storie di chi vive queste problematiche in prima persona. Vorrei portare avanti un lavoro che dia voce a chi è rimasto ai margini, a chi lotta per un futuro più sostenibile, e al contempo denunciare la fragilità del nostro ecosistema e la necessità di agire. La letteratura, con la sua capacità di emozionare e coinvolgere, può dare forma a queste storie in modo da renderle universali, creando empatia e consapevolezza in chi legge. Io sono di Martina Franca, una ridente cittadina, a qualche chilometro da Taranto. L’ho tolta anche io, in passato, quella polverina rossastra dai bordi dei miei balconi. Ho sentito il peso del giudizio, delle logiche affrettate e dei giochetti di potere. L’ex colonia preziosissima della Magna Grecia, condannata ad un destino che si ripete da troppo tempo e per cui, ognuno di noi dovrebbe battersi. È una questione che, costantemente, porto in classe. Perché mi sembra che sia scaduto il tempo del “è sempre stato così”, “non ci sono alternative”. Bhè! Mi piace credere che l’alternativa possa essere vissuta e agita dal singolo che crea comunità libere e pensanti.

Attualmente, sto lavorando a un nuovo progetto che ho scelto di ambientare in Puglia.  In questo racconto, tornare alla propria terra non rappresenta un ripiego, come spesso viene percepito, ma una scelta consapevole, una rinascita. Voglio descrivere questo ritorno come una volontà di riscoprire le radici, di riconnettersi a un passato che può offrire chiavi di lettura per costruire un futuro migliore. Tornare alla propria terra, per me, ha significato rinnovare un legame profondo con la natura e con la comunità, un atto di resistenza e di speranza che mi ha permesso di dare forma a un destino diverso. Un destino in cui cerco di mettere al servizio le mie competenze per gli altri.

 Il mio percorso – fino ad ora – ha modellato la mia voce narrativa rendendola più attenta ai dettagli emotivi e più consapevole del potere della parola come strumento di cambiamento. Ho imparato che la scrittura può essere una lente attraverso cui osservare e comprendere il mondo, e sento che ora è arrivato il momento di utilizzarla per affrontare temi che non possono più essere ignorati. Vorrei che i miei prossimi scritti continuassero a scuotere, stimolare riflessioni profonde su questioni che riguardano tutti noi, sia come individui che come collettività. In questo nuovo progetto, dunque, il ritorno alla mia Terra sarà il simbolo di una scelta di vita, un invito a guardare al passato non con nostalgia, ma con la volontà di costruire un futuro diverso, più radicato e consapevole. È una storia che parla di resilienza, di cambiamento, amore e di rinascita, temi che oggi più che mai sento il bisogno di esplorare.

Scrivere è un’esercizio finissimo di politica, di educazione, una rivoluzione.

Le parole, si è detto molte volte, hanno una capacità assoluta di restituire all’umanità la propria consapevolezza. Hanno un peso. Non possono essere gettate a caso nell’oralità, figuriamoci per iscritto! Gli intellettuali hanno dato luce al mondo, è questo quello che dovrebbero continuare a fare. No? Chiarisco, non mi ritengo un’intellettuale ma ho cara la consapevolezza di chi lo è. Questa tensione per il “politicamente corretto”, francamente, mi sembra l’esigenza dei codardi per mascherare bigottismo e paure troglodite. Una sorta di scusa per giustificare l’involuzione a cui ci stiamo consegnando. Mi piace pensare, ed esercito l’arte della scrittura con questo intento, che la scrittura sia un atto di militanza, una voce sicura e fiera che esprime un progetto. Dona sostanza ad un’idea. Dunque, se si sceglie di scrivere bisogna avere cura delle parole che si scelgono. Bisogna essere franchi! Prendere posizione ma aprirsi al confronto.

Perché, in fondo, uno dei mille scopi della letteratura è non lasciare appassire la vita nel nome del libero pensiero di ogni essere umano.

Grazie Rosa Elenia per la tua appassionata ed appassionante intervista.
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