Come un imprenditore trasforma il cambiamento in opportunità concrete per persone e aziende.
Visionario, stratega e motivatore. Simone Lamanna è una di quelle figure capaci di unire pensiero analitico e sensibilità umana, tecnologia e mindset, innovazione e consapevolezza. Con un background in ingegneria gestionale e una carriera internazionale, ha fondato realtà come Advertor Solutions e StormWave Technologies, guidando persone e imprese in percorsi concreti di crescita e trasformazione digitale.
Il suo approccio fonde business coaching, marketing ad alta intensità, automazione intelligente e sviluppo personale: un ecosistema di strumenti per chi vuole davvero evolvere.
Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio la sua missione e le strategie che propone a chi vuole costruire un successo sostenibile, autentico e consapevole.
a cura della redazione
Benvenuto su Che! Intervista, Simone. Il tuo percorso unisce ingegneria, business coaching e innovazione tecnologica: qual è il filo rosso che lega tutte queste dimensioni?
Il filo rosso è la mia curiosità per tutto ciò che non si vede a colpo d’occhio ma orienta il risultato finale. Ai tempi durante il mio percorso di studi di ingegneria gestionale mi colpiva per esempio scoprire che la resa di un processo poteva cambiare per un piccolo ingranaggio trascurato. Trasportando questo modo di osservare alle persone, ho capito che dietro un ciclo di vendite che non decolla, un gruppo di lavoro che litiga o una relazione amorosa che è sull’orlo di una “rottura”, c’è spesso un dettaglio “sepolto”: un’idea limitante, un conflitto mai nominato, un passaggio di mano impreciso.
La tecnologia, in questo quadro, è lo strumento che mi consente di rendere stabile la soluzione. Se scovo la variabile nascosta, la trasformo in una procedura chiara, supportata da un programma o da una semplice tabella di controllo. In pratica vado a caccia di ciò che è invisibile, lo porto in luce con dati e parole comprensibili, poi lo metto al servizio di tutti grazie a uno strumento digitale che lavora anche quando noi dormiamo.
Hai fondato aziende come Advertor Solutions e StormWave Technologies. Da cosa nasce la tua spinta imprenditoriale e quali sono stati i primi ostacoli da superare?
La mia spinta nasce dall’insofferenza verso lo spreco di potenziale. Quando sento che un bisogno reale non trova risposta, mi chiedo: «E se esistesse una via diversa, come migliorerebbe la vita delle persone coinvolte?». Con Advertor vedevo imprese che affidavano il proprio destino a slogan creativi ma non tracciavano il percorso che trasformava un curioso in un cliente pagante. Il primo muro è stato culturale: far accettare a professionisti abituati al “colpo di genio” che servono contatori precisi in ogni fase. Portavamo in riunione un foglio semplice, con dieci numeri chiave: costo per contatto, tasso di acquisto, valore medio dell’ordine, tempo di ritorno dell’investimento. Quel foglio, da solo, mostrava dove i soldi si fermavano e dove scivolavano via.
StormWave nasce invece dall’idea di mettere l’intelligenza artificiale a servizio degli investitori che non movimentano cifre da miliardi. Il punto critico era duplice: norme stringenti che chiedono piena trasparenza e, dall’altra parte, la diffidenza di chi teme che un “cervello elettronico” decida al posto suo. Abbiamo risolto integrando le analisi automatiche con una decisione finale sempre umana, illustrata in una relazione firmata. Così l’autorità di controllo ha tracciabilità completa e il cliente sente di avere l’ultima parola.
In tutte e due le imprese ho capito che, quando l’utilità è chiara, gli ostacoli diventano tappe di miglioramento. Ogni obiezione costringe a precisare cosa fai, perché lo fai e come lo dimostri: è un banco di prova che fortifica l’idea invece di demolirla.
In un mondo in continuo cambiamento, qual è il ruolo oggi di un business coach? Come si distingue tra guru improvvisati e vera leadership trasformativa?
Un vero Coach ha il compito di creare uno spazio in cui la verità, anche scomoda, possa emergere senza alibi. Chi fa il mio lavoro non distribuisce incoraggiamenti standard, ma pone domande che smontano le giustificazioni: «Qual è il costo reale – in denaro, motivazione e tempo – del problema che continui a rimandare?», «Che prova concreta hai che la tua supposizione sia corretta?».
Dopo la fase di “specchio”, però, serve la strada concreta: fissare un obiettivo misurabile, scegliere due o tre indicatori facilmente consultabili e trasformare la scoperta in gesti settimanali. Se in un mese il cliente non vede un passo avanti tangibile – più profitto, meno confusione, ore finalmente libere per vivere – stiamo sbagliando. Il segno distintivo sta qui: il professionista serio lavora per rendersi inutile, perché punta a far crescere l’autonomia; il venditore di soluzioni miracolose coltiva la dipendenza.
Parli spesso di “consapevolezza orientata ai risultati”: cosa significa davvero nella pratica per chi gestisce un’azienda o vuole migliorare sé stesso?
Immagina due bussole che porti sempre in tasca. La prima segna il tuo stato interiore: quanta energia senti al mattino, quanta chiarezza hai sulle priorità, come sono le relazioni di lavoro e familiari. La seconda indica lo stato esterno: fatturato, liquidità, carico di ore in agenda. Ogni giorno le due lancette possono divergere di qualche grado. Se l’azienda corre e tu ti svuoti, il motore si grippa; se tu stai benissimo ma i conti piangono, arriverà comunque la frustrazione.
Consapevolezza orientata ai risultati significa accorgersi subito di questi gradi di scarto e intervenire in tempo. Non è filosofia astratta: si tratta di chiedersi con regolarità «le mie scelte di oggi migliorano o peggiorano sia la mia vitalità che i miei numeri?» e correggere rotta finché le due frecce tornano a puntare nella stessa direzione.
L’intelligenza artificiale e l’automazione sono due pilastri dei tuoi servizi. Come possono le tecnologie intelligenti diventare alleate vere nella semplificazione e crescita di un business?
Il punto di partenza non è la “novità che fa notizia”, ma la noia quotidiana. Chiedo sempre: «Quale attività ripetitiva ti toglie più tempo o più entusiasmo?». Se in cinque minuti il cliente non trova la risposta, sospendiamo: l’automazione non risolve un problema che non senti. Quando invece individuiamo il collo di bottiglia – una relazione mensile da compilare, una lista di contatti da valutare, un primo filtro alle richieste dei clienti – allora sì, costruiamo una prova di trenta giorni.
Prendo il caso di un’azienda di servizi: raccoglieva dati da quattro programmi diversi per preparare un rapporto che serviva solo a dimostrare al cliente che il progetto procedeva. Passava mezza giornata di lavoro esperto. Abbiamo collegato i quattro archivi a un unico foglio di calcolo che si aggiorna da solo. In un mese il tempo totale per rapporto è sceso da quattro ore a venti minuti. A quel punto le ore salvate non si buttano via: le trasformiamo in telefonate di approfondimento, nell’ascolto di esigenze nuove, in un pomeriggio libero che restituisce lucidità. Così la macchina fa la parte ripetitiva e l’essere umano torna a occuparsi di ciò che richiede intuito, empatia e creatività.
Tra le tue aree di intervento c’è anche la crescita personale e la gestione delle relazioni. Perché è così importante lavorare su sé stessi per ottenere risultati anche nel lavoro?
Perché l’azienda è lo specchio, ingrandito, di chi la governa. Un dirigente che vive nell’ansia comunica prezzi difensivi, firma contratti soffocanti e crea un clima di allarme che travasa in ogni reparto. Quando nel percorso di accompagnamento riusciamo a trasformare, per esempio, la convinzione «se chiedo il giusto onorario perderò i clienti» in «il mio valore merita un prezzo congruo», il cambiamento esterno è rapido: i ricavi salgono, spariscono i clienti che puntavano allo sconto, aumenta persino la qualità del tempo libero, perché non si rincorre più un volume di lavoro insostenibile. Lavorare su sé stessi è l’intervento con la leva maggiore: sposti un pensiero e si muovono bilanci, persone, progetti.
Il tuo metodo punta molto sulla personalizzazione: come costruisci un percorso su misura per una realtà aziendale o per un singolo cliente in crisi?
Inizio con un incontro che chiamo “momento di verità”. Faccio domande che non permettono di girare intorno al problema e le risposte spesso fanno luce su un obiettivo diverso da quello dichiarato all’inizio.
Poi passo alla fotografia: raccolgo numeri di bilancio, osservazioni sul clima di squadra, feedback dei clienti, convinzioni radicate, gesti quotidiani, gestione di un conflitto, ecc. Metto ogni dato su un tavolo metaforico per distinguere due zone: da una parte le risorse già presenti ma poco sfruttate (competenze, contatti, passioni), dall’altra gli ostacoli veri (paure, abitudini, colli di bottiglia tecnici). A quel punto scriviamo un piano di azioni piccole, settimanali, ciascuna con un indicatore semplice – ad esempio percentuale di margine, numero di potenziali clienti realmente interessati, livello di energia al risveglio, lettere dei propri bisogni al Partner, ecc.
Ci incontriamo una volta a settimana. In quei 60 minuti celebriamo i progressi, analizziamo ciò che non gira e correggiamo subito. Il mio ruolo, come professionista iscritto all’Associazione Coaching Italia, è garantire metodo, riservatezza e rispetto del codice etico. Il timone, tuttavia, resta sempre nelle mani del cliente: se non sente la rotta come propria, la cambierà appena mi volto.
Qual è, secondo te, l’errore più comune che le aziende commettono oggi nel campo del marketing e della comunicazione digitale?
Scambiare il frastuono per fiducia. Ottenere migliaia di visualizzazioni è relativamente facile: basta un contenuto “chiassoso”. Diverso è trasformare quell’occhiata fugace in un rapporto solido. A chi mi chiede “come sto andando?” rispondo con una domanda: «Quante delle persone che ti seguono parlerebbero bene di te se tu non fossi nella stanza?». Lo chiamo patrimonio di relazione. Se questo patrimonio non cresce mentre le visualizzazioni esplodono, allora stai lanciando fuochi d’artificio: splendidi per un attimo, ma incapaci di riscaldare nel tempo.
In un contesto saturo di stimoli, come si costruisce un brand davvero virale e autentico? Cosa non deve mai mancare?
Servono tre pilastri. Il primo è una storia vera, basata su un conflitto realmente vissuto: la gente distingue in pochi secondi la narrazione autentica dal racconto inventato per suonare “vicini”. Il secondo è la prova concreta: dati prima e dopo, clienti che mettono la faccia, testimonianze verificabili. Il terzo è la coerenza con il linguaggio di ogni canale: un articolo, un video breve e una lettera agli iscritti richiedono tempi, toni e formati diversi, ma devono mantenere lo stesso temperamento. Quando questi tre pilastri si sorreggono a vicenda, la diffusione rapida non logora l’identità, la amplifica. È il motivo per cui «Ciò che non dicono» può parlare di tematiche delicate senza perdere chiarezza: racconto esperienze autentiche, mostro casi controllabili e uso un tono diretto, qualunque sia il mezzo.
Se dovessi lasciare un messaggio a chi oggi si sente bloccato, confuso o in cerca di svolta, quale sarebbe la prima cosa da dirgli per iniziare il cambiamento?
Non partire da un progetto immenso: comincia da un gesto piccolissimo che riduca dell’uno, due, dieci per cento qualcosa che ti svuota. Può essere la navigazione sul telefono dopo cena, una riunione senza ordine del giorno, il “sì” con cui cerchi di non deludere nessuno. Taglia un pezzetto oggi stesso. Poi, fra una settimana, prendi nota di come ti senti: energia, concentrazione, umore. A livello biologico il cervello riceve un segnale forte: “posso davvero spostare l’ago”. Quella micro-vittoria libera dopamina, che alimenta la motivazione e rende naturale il passo successivo. Così nasce una spirale virtuosa: piccola prova, piccola ricompensa, voglia di riprovare. Alla lunga diventa identità nuova, e il cambiamento, a quel punto, è praticamente inevitabile.
Grazie Simone per il tuo tempo e complimenti per la tua carriera!
Per saperne di più visita:
Instagram | ciochenondicono.simonelamanna.com
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