Sleepwalker’s Station, band musicale indie world folk

Sleepwalker’s Station sono una band indie world folk che fonde stili musicali provenienti da diverse culture, creando un viaggio sonoro unico attraverso il mondo. Con canzoni in cinque lingue e quattro dialetti, la band unisce influenze indie e folk a sonorità tradizionali come il flamenco, il tango e la musica delle Alpi. In tour dal 2011, hanno suonato in oltre 1.200 concerti in Europa, Asia, Australia e America, partecipando a festival di fama mondiale come Glastonbury e SXSW, offrendo un’esperienza musicale avvolgente e straordinaria.


La vostra musica è un vero e proprio viaggio intorno al mondo, con influenze provenienti da diverse culture e stili musicali. Come riuscite a fondere indie, folk e generi tradizionali come flamenco e tango mantenendo un’identità sonora così unica e coerente?
I componenti del gruppo provengono da tutta l’Europa – Spagna, Francia, Italia, Germania però a da regioni culturalmente molto caratteristici come L’Andalusia, Catalogna, Baviera e Trentino. Partiamo già da un patrimonio linguistico-culturale molto ampio, in più ho vissuto in diversi paesi par diversi anni, assorbendo la cultura musicale locale.

Utilizzate 5 lingue e 4 dialetti nei vostri brani, una caratteristica piuttosto rara nel panorama musicale contemporaneo. Qual è il processo di scelta della lingua per una determinata canzone, e come influisce questa scelta sul messaggio che volete trasmettere?
Spesso i brani raccontano una storia legata ad un posto, una città come ad esempio Sevilla, Winter in Berlin, Tucumán, Rue du Bourg. E spesso sono anche stati scritti in questi posti.
Assunta l’ho scritta per mia nonna che mi parlava sempre in dialetto Trentino e quindi ho scelto questo dialetto. De molino y gigantes che è stata una collaborazione con dei gitani di Jerez dove è nato il flamenco doveva per forza essere in andaluso. Al meno in gran parte. Tucumán doveva essere in castellano originalmente però quando avevo chiesto al violinista e al suo fratello fisarmonicista di cantare nel ritornello lo fecero -però in catalano. E alla fine mi era sembrata anche una bella idea di avere il Castellano e il Catalano nella stessa canzone.

Nei vostri testi raccontate storie di personaggi leggendari come Don Chisciotte e Ulisse, ma anche di figure letterarie come l’Alchimista di Coelho. Qual è il ruolo della narrazione nelle vostre canzoni e come scegliete i temi da esplorare?
Il Chisciotte, Ulisse e l’Alchimista hanno tutti una cosa in comune. Viaggiano – alla ricerca di qualcosa. Casa, l’avventura o un tesoro. Ma non importa perché la loro storia è il cammino e quello che succede durante il loro viaggio.

Siete in tour dal 2011, con oltre 1.000 concerti in Europa e America. Quali sono state le esperienze di tour più significative che hanno influenzato la vostra evoluzione musicale e artistica?
Suonare tanto in Spagna ci ha portato a introdurre sempre più elementi di musica spagnola sia tradizionale che indie. Come tour l’esperienza più significativa è sicuramente stato il tour di 27 date attraverso gli Stati Uniti, da New York fino in California – del quale a regista spagnola Ana Zanoletty (che era stata in tour con la band) ha fatto anche una specie di Road movie di nome “Lorca on the Road”. Il film fu premiato in diversi Film Festival come il BIFF (Barcelona International Film Festival).

Avete suonato in alcuni dei festival più importanti al mondo, come Glastonbury e SXSW. Come si differenziano questi grandi palchi da quelli più intimi e quali sfide o emozioni uniche portano con sé queste esperienze?
Glastonbury è un mondo magico, incantato, tutto suo, dove tutte le persone sono li solo per la musica. Per me non paragonabile ai cosiddetti Show case festival come SXSW, il MEI o Live at Heart dove si tratta di farsi vedere e conoscere più persone del mondo dell’industria musicale possibile.

Il vostro ultimo album, Manitoba, coinvolge ben 20 musicisti provenienti da tutta Europa. Come è nata questa collaborazione internazionale e in che modo ha arricchito il vostro processo creativo e il risultato finale dell’album?
Dopo il successo del nostro album Lorca nel 2018, dove per la prima volta abbiamo inciso brani in varie lingue e vari dialetti – cosa molto apprezzata, sia dal nostro pubblico come anche nelle recensioni (Rolling Stone magazine, folker.de , rock.it) – abbiamo deciso di seguire questo percorso. Così che a marzo dell’anno scorso siamo andati allo studio di registrazione in Portogallo per incidere i primi brani.
Il trombettista era volato da Berlino, il violinista da Francoforte, il batterista da Bologna e il basista da Siviglia. Io ero già in tour in Galizia e ho preso l’autobus per Lisbona. Le tracce che mancavano le abbiamo inciso successivamente in diversi luoghi come Monaco e uno studio nelle montagne del Harz nel centro della Germania. Come ospiti abbiamo chiesto diversi musicisti e musiciste come Íris Thorarins (voce) dall’Islanda, Zora Schiffer(voce) di Berlino, Theresa Thut (clarinetto) dalla Svizzera, Elena Seeger (trombone), Wolfgang Schlick (tuba) e tanti altri.
Il fatto di suonare in tanti paesi diversi ci fa conoscere tanti musicisti in giro per il mondo con i quali poi nascono collaborazioni come su Manitoba.

La vostra musica viene descritta come “complessa ma leggera all’orecchio”. Come bilanciate la complessità compositiva con l’accessibilità sonora per il pubblico, mantenendo allo stesso tempo una forte coesione musicale tra i membri della band?
La complessità sta più nella dinamica che è l’elemento essenziale nella nostra musica. Vive della dinamica e dell’ascolto da parte dei musicisti stessi. I componenti del gruppo sono sempre stati scelti in base alla “chimica” personale e la capacità di ascoltare gli altri musicisti mentre si suona. Ossia per me le due cose essenziali per suonare bene assieme è andare d’accordo personalmente e musicalmente -una combinazione abbastanza rara e difficile da incontrare. Per me questo è anche più importante che “essere bravi a suonare” – che poi nella musica è un parametro poco evidente se non consideriamo soltanto la “tecnica”.

La varietà degli strumenti utilizzati nei vostri brani è una delle vostre firme distintive. Come scegliete gli strumenti per ciascun pezzo e in che modo arricchiscono l’esperienza sonora globale?
Quando scriviamo un brano in francese ispirato dalla musica di Jacques Brel o Edith Piaf ad esempio, vorremo dargli anche un po’ quest’aria da chanson. La musica che ci ispira ha un certo impatto anche sulla scelta dei strumenti nell’arrangiamento. Nella prima formazione della band avevamo già un violoncello come strumento principale perché ci piaceva fin dall’inizio sperimentare con diverse sonorità.

Vivere un vostro concerto dal vivo è paragonato a un viaggio in giro per il mondo. Qual è l’approccio che adottate nei live per creare questa sensazione di esplorazione e di avventura musicale per il pubblico?
Molti brani parlano del viaggio, viaggiare, di incontri. Credo che la nostra musica riesca a fare viaggiare ai nostri ascoltatori. Di uscire dalla loro routine quotidiana. Alla gente piace quello. È come un piccolo viaggio, passando dalla Borgogna all’Andalusia, dalle Ande alle Alpi, da Berlino d’inverno al caldo estivo di Siviglia… in un’ora e mezza.

Quali sono i vostri prossimi progetti? State già lavorando a nuovo materiale o avete in programma collaborazioni o concerti che vi entusiasmano particolarmente e che i vostri fan dovrebbero aspettarsi con impazienza?
Tra due settimane partiamo per un tour in Giappone. Nella vita di un musicista il Giappone credo che sia uno di quei paesi dove uno deve averci suonato almeno una volta. Siamo veramente molto emozionati! In più saremo in tour con un musicista inglese con il quale abbiamo creato uno show di nome “in 80min around the world” ispirato dal romanzo di Jules Verne “Il giro del mondo in 80giorni”. L’idea è di portare l’ascoltatore in giro per il mondo in 80min attraverso i nostri brani.

Grazie ragazzi per la vostra intervista! Teneteci aggiornati!
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