Daniela Giordano è attrice, regista e sceneggiatrice. Formata all’Accademia Nazionale d’ Arte Drammatica Silvio D’Amico, ha lavorato con alcuni dei più grandi registi teatrali e cinematografici, distinguendosi per il suo impegno civile e sociale. La sua ricerca artistica l’ha portata a esplorare nuovi linguaggi espressivi, spaziando tra teatro e cinema, con opere che affrontano tematiche complesse e attuali. In questa intervista esclusiva, ripercorriamo la sua carriera e scopriamo i progetti futuri che la vedono protagonista.
Benvenuta Daniela, hai una carriera straordinaria che abbraccia sia il teatro che il cinema. Qual è stato il tuo primo approccio al mondo della recitazione e cosa ti ha spinto a intraprendere questa strada?
Ho iniziato da piccola , giocando. Era solo un gioco a uso di amici e parenti, che mi divertiva. Non saprei dire quando è scattata la molla che ha trasformato un semplice gioco in un bisogno. Certo è che sono stata sempre attratta dalle discipline artistiche. Studiavo danza classica da bambina, poi da adolescente per mia scelta e curiosità, frequentai corsi di Mimo, Clownerie e Commedia dell’Arte in quella splendida fucina di talenti che fu la scuola Mimo Teatro Movimento diretta da Lydia Biondi. Uscivo di notte da casa, all’insaputa dei miei genitori, per unirmi a un gruppo di universitari che facevano teatro nelle cantine romane, tra cui Gianni Clementi che sarebbe diventato un bravo drammaturgo e Massimo Wertmuller che avrebbe fatto l’attore. Studiavo canto lirico, sempre per mia scelta e diletto, poi, a un certo punto finito il liceo, tutto questo mio slancio e fermento ho capito essere la ricerca di risposte a un bisogno più profondo al quale non so dare un nome ma che ti punge fino a ferirti se non viene ascoltato. Mi trovavo ad una svolta. Da una parte la mia famiglia che premeva per un percorso professionale più sicuro e questo mio bisogno di cavalcare a pelo la tigre. Decisi di tentare l’esame per entrare all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Testa o croce. Se supero l’esame farò l’attrice. E così doveva andare.
Hai avuto l’opportunità di lavorare con alcuni dei più grandi registi teatrali e cinematografici. Cosa hai imparato dalle loro direzioni e in che modo queste esperienze hanno influenzato la tua visione artistica?
In questo mestiere, poco si insegna, tutto s’impara, molto si ruba. Nessuno ti darà mai la ricetta e soprattutto ognuno ha la sua cucina, per usare una metafora ma lavorare con i maestri affina il tuo palato, allena il gusto e la capacità di osservazione. Ronconi, Trionfo, Sepe, Besson, Cobelli , Lavia, Binasco.. parlando di teatro, tutti incontri che hanno lasciato un’impressione nel mio modo di vedere le cose, grandi visionari! In ogni singolo dettaglio c’è un universo di conoscenze e di possibilità. A furia di osservare e di ripetere, a un certo punto, la materia si fa lieve e cominci a diventare bravo e restituisci qualcosa che è altro da te e che somiglia a qualcosa che il regista ha immaginato. Impari a dare corpo a visioni, a rendere palpabile un pensiero, a dare dimensioni spazio temporali a delle fantasie. IN questo cinema e teatro sono uguali. Si ruba dai registi ma molto si ruba dai colleghi!! Sono stata molto fortunata nei miei incontri professionali e artistici, sì, e quello che sento di aver maggiormente imparato e fatto mio è la serietà, lo studio e la dedizione necessari per fare questo mestiere che non è mai per se stessi, se non in una piccola parte, ma soprattutto per il pubblico.
Il tuo lavoro è spesso caratterizzato da un forte impegno sociale e civile. Come riesci a coniugare l’arte con l’attivismo e quali sono i temi che ti stanno più a cuore?
Vanno ormai di pari passo. E’ stata una conquista per me, perché ho dovuto sviluppare altre doti che erano necessarie: la regia, la scrittura e l’organizzazione. Mettermi in gioco completamente, insomma. Parlavo prima di quel bisogno profondo che non ha nome che ti punge fino a ferirti se non gli dai ascolto, ecco, dopo aver iniziato con successo la mia carriera di attrice non mi sentivo completa, sentivo che come artista avevo bisogno di essere nel mezzo delle cose, in mezzo alla sofferenza e all’ingiustizia per cercare di porvi rimedio con quello che so fare. Da lì comincia il mio cammino più autoriale. Puntare il riflettore su una problematica, sulle contraddizioni che piagano la nostra società, la violenza e la prevaricazione su gli esseri umani e l’ambiente, offrendo la possibilità di vedere le cose da un altro punto di vista, magari attraverso l’uso dell’ironia, smettendo di essere piegati a una narrazione che ci vorrebbe rabbiosi e rassegnati all’esistente e senza speranza. Perché a volte un gesto poetico può generare grandi rivoluzioni nel nostro approccio alle situazioni. Mi piace pensare che l’arte e gli artisti abbiano questa come missione. Migliorare il mondo, liberando le persone dalle catene della sofferenza della materia e del potere, e condurle in quel luogo dove è l’immaginazione a plasmare la realtà e non viceversa.
Dal teatro al cinema, hai esplorato molti linguaggi artistici. Come cambia il tuo approccio creativo quando passi dalla regia teatrale a quella cinematografica?
La mia testa è un immenso archivio di immagini che si auto producono e riproducono continuamente. Non riesco a mettere neanche una parola su un foglio se non ho chiara l’immagine. Ogni tanto in questa danza continua, in questo affollamento confuso, qualche immagine prende corpo e diventa l’inizio di una storia. Poi seguono le parole, i sentimenti, le situazioni. Al di là della tecnica di scrittura che chiaramente è diversa per il teatro e per il cinema, posso dire che la scintilla, l’ispirazione è sempre guidata da qualcosa che vedo con chiarezza nella mia testa e che poi cerco di tradurre in parole e azioni. Il cinema in questo senso è molto più appagante per me, perché quelle immagini che mi visitano le posso trasformare in fotogrammi, le posso tirare fuori dalla testa così come sono, senza imprigionarle in parole.
Il tuo cortometraggio “Di chi è la Terra?” ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Qual è stata l’ispirazione dietro questo progetto e cosa speri che il pubblico ne tragga?
“Di chi è la terra?”, prima di diventare un cortometraggio, è stato uno spettacolo teatrale che con successo è stato replicato dal 2014 al 2019. Indagavo le contraddizioni del pensiero green, dello sfruttamento e dell’accaparramento di terre sottratte alle popolazioni locali soprattutto del sud del mondo per coltivare cereali destinati a diventare bio-plastiche e bio-carburanti. Lo spettacolo era costruito sul fil rouge di un rap, scritto con Marco Veruggio e Danila Massimi, con la quale condividevo la scena. E se nello spettacolo i personaggi erano Sacchetto di plastica, Pannocchia e Chicco di grano , nel film, un musical, la riflessione si è spostata sull’acqua. Nel mondo di sopra l’acqua sgorga dai rubinetti lasciati aperti mentre nel mondo di sotto le fontane sono aride e asciutte. Cultura green sopra, cultura della sopravvivenza sotto. I due mondi sembrano separati e lontani ma le tubature uniscono tutto. Siamo tutti collegati, questo è il messaggio. Ogni nostra scelta o abitudine crea conseguenze. Il cortometraggio è stato selezionato in oltre 40 festival e premiato in tutto il mondo. La cosa più sorprendente è però la durata della vita di questo cortometraggio uscito nel 2018 e ancora adesso in concorso in un festival in Canada., dopo sei anni di circuitazione festivaliera!! Penso di aver con seria ironia offerto la possibilità a tutti di prestare più attenzione alle proprie abitudini e forse qualcuno le ha anche cambiate.
Hai fondato il Centro di Ricerca Teatrale ScenaMadre e sei stata direttrice artistica del Festad’Africa Festival. Quali sono state le sfide e le soddisfazioni maggiori in queste esperienze?
L’affermazione della mia libertà artistica e diventare promotrice di un cambiamento culturale .Teatro, Cinema, Eventi. Ho parlato di quello che ritenevo necessario dire, ho lottato per realizzare questa libertà. La libertà è una conquista continua. E ci sono sempre riuscita. Ho portato all’estero i miei spettacoli e ho portato in Italia artisti da ogni dove. Festad’Africa Festival è stata un’esperienza che ha veramente avvicinato il mondo, soprattutto quella parte di mondo che non siamo abituati a considerare se non come problematiche di guerre o immigrazione. Non sappiamo niente delle culture, dei fermenti, delle proposte, della vitalità, di quanta ricerca e quante suggestioni culturali siano in essere in quelle regioni. Nelle 15 edizioni del festival ho portato in Italia grandi compagnie di danza, di teatro, di musica, cinema, arte, attivisti per i diritti umani. Parlo di grandi numeri, centinaia di artisti. Tante le collaborazioni anche con Istituzioni sia nazionali che internazionali. E importanti riconoscimenti anche dalla Presidenza della Repubblica. Il festival è stata l’occasione di conoscere e di confrontarsi attraverso i linguaggi artistici e quello che il pubblico non ha fatto fatica a comprendere è che l’arte è arte e il suo linguaggio è universale, si abbattono in un attimo pregiudizi e luoghi comuni. I muri si sbriciolano e non è questo, forse, il vero senso di “vivere in pace e sicurezza”?
Il tuo nuovo cortometraggio “SWITCH” è stato recentemente presentato. Puoi parlarci di questa nuova opera e dei temi che affronta?
Anche “SWITCH” sta avendo una brillante carriera di premi e riconoscimenti nei festival nazionali e internazionali. Questo mi lusinga, perché penso che quello che volevo dire è arrivato ed è intellegibile in India come in Canada, dove ha vinto come Miglior cortometraggio. Ho usato l’immaginazione, le atmosfere, il colore, la leggerezza, per raccontare il momento in cui si può decidere di emanciparsi dalla violenza nascosta o dichiarata che spesso attraversa l’universo femminile. Una rivoluzione contagiosa. Il valore della letteratura e dell’empatia. Quel filo nascosto che lega le une alle altre è una chiave in grado di aprire tutte le porte anche quelle delle prigioni. Ho potuto contare su due attrici straordinarie, Daniela Margherita e Lena Sebasti, entrambe premiate per la loro interpretazione e su un maestro della Fotografia, Gianni Mammolotti. Il cinema è sempre un gioco di squadra.
Sei stata membro di giurie internazionali prestigiose come il Cairo International Festival for Experimental Theatre e il Damascus Film Festival. Come hai vissuto queste esperienze e cosa ti ha colpito maggiormente del panorama teatrale e cinematografico internazionale?
E’ stata una grandissima opportunità. Ci accontentiamo del nostro piccolo mondo ma c’è tanta altra roba fuori dalle nostre certezze. E’ stato vitalizzante e commovente vedere le compagnie che venivano da paesi in guerra a presentare i loro spettacoli, attori e attrici che sotto le bombe hanno continuato a tenere aperti i teatri con un immenso rischio anche per la loro stessa vita, pur di lasciare accesa la luce della speranza. Vedere spettacoli e drammaturgie dall’Iraq, Marocco, Algeria, Giordania, Arabia Saudita, Libia, Egitto, al di là delle scelte registiche o in alcuni casi dei limiti delle messe in scena, è la chiave per aprire la mente e sentirsi davvero e profondamente interconnessi, perché tutti gli artisti di qualsiasi latitudine rispondono alla stessa esigenza di migliorare il mondo. E se è valido per il teatro , lo è ancora di più per la cinematografia. Ho visto film che non vedrete mai perché non troveranno mai nessuna distribuzione. Film davvero straordinari. Questo accadeva 14 anni fa, prima delle primavere arabe e di tutta la catastrofe di guerre, che hanno stravolto quei paesi. Damasco era una città meravigliosa e la Siria un luogo di raffinatissima cultura. C’è un detto che dice “ I libri si scrivono in Egitto, si stampano in Siria e si leggono in Iraq”, la cultura è sinergica e non conosce confini.
Negli anni hai interpretato ruoli complessi e intensi, sia in teatro che in televisione. C’è un ruolo in particolare che ti è rimasto nel cuore e che ha segnato la tua carriera?
Beh, sicuramente il ruolo che mi ha dato popolarità, si dice così, giusto?, è stato interpretare Agnese Borsellino nel tv movie “Borsellino” diretta da Gianluca Tavarelli. Di quella esperienza ricordo la cura, il rispetto, l’umiltà con i quali abbiamo approcciato il racconto di quella pagina così buia della nostra storia recente. E poi, amore e gratitudine. Credo che i sentimenti restino impressi nei fotogrammi, molto più delle immagini. E credo che questa onestà e umiltà nel aver realizzato il film sia la ragione per cui da vent’anni il film viene replicato ogni anniversario della strage, sempre con grandi ascolti. Abbiamo lasciato qualcosa soprattutto per le nuove generazioni che imparano oggi la storia del nostro Paese.
Guardando al futuro, quali sono i tuoi progetti e le tue ambizioni sia come attrice che come regista? C’è qualcosa di nuovo che stai esplorando o che desideri portare sul grande schermo?
Debutto i primi di ottobre, in prima nazionale, al Campania Teatro Festival con una novità italiana ,“ Nina Zarecnaja”, scritta e diretta da Mauro Santopietro. Con me in scena Luigi Diberti, Laura Mazzi e Sonia Barbadoro. Una riflessione profonda sull’essere artista, sulla fatica, sull’incertezza, sulla vocazione che rende tutto sopportabile e il rapporto con la società. E’ un testo molto poetico e molto concreto. “ Mi serve carne. Anche fasulla. Mi serve vedermi allo specchio diversa. Altra da me. Falsa anche. Piuttosto che vera, preferisco apparire come gli altri vogliono che io sia, perché il silenzio mi ferisce..” dice alla fine Nina,il mio personaggio, un’attrice che mette in scena le contraddizioni di un’esistenza interamente consegnata all’arte. E’ interessante riflettere sul ruolo dell’artista nella nostra società. Al di là di tutto quello che ci siamo detti, passione, missione, slancio vitale, coraggio, quando calano le luci della ribalta e si piomba nella realtà del quotidiano, la vita di un’attrice o di un attore in Italia è molto faticosa, considerati “uno che non gli va di lavorare”, agitatori di coscienze. Va bene quando facciamo divertire ma quando si spengono le luci, diventiamo ingombranti. Sarà per questo che in Italia non c’è neanche il riconoscimento giuridico della nostra professione. E’ inquietante, no?
E, comunque, andiamo sempre avanti. Nel futuro prossimo c’è il mio primo lungometraggio. Ci sto lavorando già da un paio d’anni. E’ la storia di un grande riscatto umano, ispirato alla vita del poeta Davide Cerullo, e un nuovo progetto cinematografico in primavera con il regista Di Lallo.
E insieme al mio lavoro e ai miei progetti, c’è l’impegno per i diritti degli artisti che porto avanti con il direttivo dell’associazione di categoria UNITA – Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo, di cui faccio parte. Tanto tempo ed energie dedicate a cercare di far colmare quel vuoto legislativo e quel deficit di attenzione che permane insieme al pregiudizio che noi in fondo non siamo lavoratori.
Amo il mio mestiere. E’ così vasto. E’ come viaggiare nello spazio in tutte le dimensioni. C’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire. Non mi sono ancora stancata di giocare, questa è la verità. Anzi, più il tempo passa, più ci prendo gusto e più mi sento motivata in quello che faccio. Continuerò. Continuerò, fino a che non saprò dare un nome a quel bisogno profondo che ti punge se non viene ascoltato.
Grazie Daniela per la tua intervista, complimenti per la tua carriera artistica e professionale.
Tienici aggiornati! Continua a seguirci su Che! Intervista.