Susanna Trippa, laureata in Lettere moderne e Storia dell’Arte, è una scrittrice versatile e appassionata. Dalla sua casa in Valcavallina, ha creato opere che spaziano dai racconti magici alle narrazioni autobiografiche. Il suo ultimo libro, “Una storia che consola“, nasce durante il lock-down del 2020, offrendo una riflessione intima e toccante sul passato e sul presente. Scopriamo di più sul suo percorso e le sue ispirazioni.
Benvenuta Susanna, hai iniziato la tua carriera come insegnante e nel settore pubblicitario prima di dedicarti alla scrittura. Come ha influenzato questo percorso il tuo stile narrativo e la tua visione come scrittrice?
Sono nata a Bologna e là ho vissuto finché, da ragazza, l’ho come guardata in un cannocchiale all’incontrario, mentre l’abbandonavo perché la Vita mi portava a Bergamo, con il moroso di allora – marito per tanti anni a venire – dove sarebbe iniziata la stagione del lavoro, addirittura due in breve tempo, e dei figli.
Insomma, era arrivata per me l’epoca della vita in cui si produce, in cui molto ci si radica nella materia, perché ci vuole anche questo. Ma poi qualcosa si ruppe… e arrivò la scrittura a tenermi per mano, insieme alla casa in collina dove andai ad abitare più di vent’anni fa, e dove tuttora vivo. CasaLuet in Val Cavallina, sempre in provincia di Bergamo, che ha dato il nome al mio primo libro I racconti di CasaLuet.
Sono convinta che nella vita tutto serva a formarci, a fare di noi strato su strato quello che siamo, però vivo di più quegli anni precedenti – e bellissimi – come un costruire nella materia e dopo, quando ho iniziato a scrivere, l’aprirsi di un portale – quello della scrittura – solo mio, in cui immergermi.
Vivere in Valcavallina, immersa nella natura con la tua famiglia e i tuoi animali, sembra un’ispirazione costante. In che modo questo ambiente ha influenzato la tua scrittura e la tua creatività?
Sì, direi che abitare a CasaLuet è stato determinante per quest’avventura della scrittura. Stranamente, arrivando qua mi è parso di arrivare a casa… forse mi è parso di trovare qui la Susanna più autentica? Forse… Sì, l’influenza della Natura, degli animali è davvero molto forte. Aiuta ad arrivare all’essenza.
Il tuo primo libro, “I racconti di CasaLuet”, è una raccolta di racconti pieni di sogni e magia. Cosa ti ha ispirato a scrivere queste storie e quale messaggio speravi di trasmettere ai lettori?
Sarò ripetitiva ma, come già detto, il luogo è stato davvero l’ispiratore principale di queste storie, che sono differenti tra loro, e lontane per spazio e tempo ma in cui è palpabile il messaggio che una invisibile Anima del Mondo sottenda ogni avvenimento. La parte finale Conchiglie, cozze e vongole – che in realtà è quella scritta per prima – mi accorgo che esplora in modo onirico i luoghi dell’interiorità.
“Pane e cinema” ha vinto il primo premio AlberoAndronico “Cinecittà – l’occhio del cinema sulla città”. Cosa rappresenta questo riconoscimento per te e come ha influenzato la tua carriera?
Oh… beh… niente di eclatante è seguito a questo riconoscimento, si tratta però di un racconto che amo molto, piaciuto anche al regista Pupi Avati – come del resto il mio autobiografico Come cambia lo sguardo – per cui ebbe parole di apprezzamento e soprattutto la grande gentilezza di leggerlo. Quel suo occhio benevolo sul mio lavoro rappresentò una grande gioia per me e uno stimolo a continuare a scrivere e a proporre i miei libri. Pane e cinema è anche emblematico del mio amore per il cinema.
Nel 2015 hai pubblicato il romanzo epico/fantasy “Il viaggio di una stella”. Puoi parlarci del processo creativo dietro questo libro e cosa speri che i lettori traggano dalla sua lettura?
Il viaggio di una stella è una storia ambientata presso gli antichi Inca e che quindi mi ha impegnato molto per la documentazione, però è un qualcosa che già da un po’ “mi chiamava” e così, alla fine, ho dovuto scriverla. Era il 1995, quando lessi di Juanita la “Vergine di Ghiaccio” … i resti di una quasi bambina, ritrovati dall’antropologo John Reinhard a ovest del Titicaca, sulla cima del vulcano Ampàto, a 6380 metri d’altezza. Si trattava di una delle tante vittime sacrificali che il freddo e il ghiaccio avevano miracolosamente preservato, per ben 550 anni, fino a noi. L’immagine della fanciulla mummificata – schiena incurvata, braccia e gambe incrociate – consegnata così agli dei da un deciso colpo alla nuca… catturò la mia attenzione e il mio cuore.
Lei mi condusse, come per mano, ad osservare… a tentare di comprendere. Ancorata alle mie giornate, m’induceva ad immaginare le sue, di allora e di prima. Lei cosa provava? Gli altri cosa provavano? E perché… perché… perché?
Il messaggio per i lettori è ancora quello di ritrovare una dimensione spirituale che ci aiuti a sentirci in armonia dentro di noi, e quindi anche all’esterno, riannodando i fili con l’insegnamento di mistici del passato, confermati ora dalla scienza quantistica.
“Come cambia lo sguardo – Gli inganni del Sessantotto” è un romanzo autobiografico. Quali sono state le sfide e le soddisfazioni nel raccontare la tua storia personale e quella di un’epoca così significativa?
Come cambia lo sguardo è nato scandagliando dentro di me, lasciando con calma che i cassettini dei ricordi si aprissero e rilasciassero sulla sabbia i loro fumi del passato come fa la risacca. Ognuno di noi lo può fare. Ho guardato indietro e mi sono vista da quando ero bimbetta, nei primi anni Cinquanta, fino al Sessantotto e ai bui Anni di Piombo.
All’inizio pare di non ricordare, e invece la memoria fa riemergere episodi, sensazioni, persone che parevano del tutto dimenticati. Ricordare – dal latino Re-cor-da-re che significa “riportare al cuore” – perché, come scrisse Rudolf Steiner, “Dietro i ricordi sta il nostro Sé”. I miei si sono presentati, li ho trascritti in modo spontaneo, quasi in una sorta di scrittura “automatica”. Già lì mi accorsi che, in quel percorso di formazione – da bambina a donna, e soprattutto attraversando fasi storiche tanto diverse – lo sguardo cambiava, e tanto! Recentemente, una scrittura nascosta tra le righe mi ha chiamato con forza a verificare che lo sguardo era di nuovo cambiato: a quel punto sono nate le Riflessioni iniziali, in cui ho cercato di evidenziare i collegamenti – innegabili direi – tra quel passato, il Sessantotto in particolare, e il momento presente.
Nel fare tale percorso si cresce in consapevolezza, si osserva che la propria vita è stata come tante ma anche unica. È bello scoprirlo. La sfida è stata quella di non essere ideologica e di raccontare con semplicità quanto è accaduto e soprattutto le mie sensazioni. Tale semplicità è stata apprezzata dal regista Pupi Avati, di cui ho già parlato, e dallo scrittore Roberto Pazzi, che scoprì con entusiasmo il mio racconto autobiografico.
Sei molto attiva sui social media come Instagram, Twitter, Facebook, YouTube e LinkedIn. Quanto ritieni importante la presenza online per un’autrice oggi e come interagisci con i tuoi lettori attraverso queste piattaforme?
Sì, sono abbastanza attiva sui social anche se non li amo particolarmente. Sono un mezzo per mantenere un filo di comunicazione con il lettore, ma peccano di superficialità. Tutto viene consumato in fretta. D’altra parte, il vero mezzo di comunicazione con il lettore resta il libro in sé.
“Una storia che consola” è il tuo nuovo romanzo, scritto durante il lock-down del 2020. Puoi raccontarci come è nato questo progetto e quali emozioni hai voluto esplorare attraverso la narrazione epistolare?
Questo racconto nasce dentro di me pian piano. Non era la prima volta che vedevo e aprivo quel pacchetto, legato dal nastrino consumato. Quel pacchetto di lettere, biglietti e cartoline con disegni e foto dell’epoca, era la traccia del lungo fidanzamento dei miei genitori, avvenuto dal 1934 al 1940, a Bologna – mia città d’origine – in piena epoca fascista. Mi ero sempre ripromessa di guardarlo con tutta l’attenzione che meritava, e poi l’occasione è arrivata durante la primavera del 2020 quando qui in Lombardia, dove abito, imperversava il covid e nelle nostre vite si era creata una strana parentesi temporale.
Mi sono immersa così in quello scambio epistolare dei miei genitori, nelle loro foto di quel periodo e, di conseguenza, anche nell’epoca storica che era lo sfondo di quegli avvenimenti, fino ad arrivare allo scoppio della seconda guerra mondiale, al loro viverla in città e “da sfollati” quando ormai, con l’arrivo di mio fratello, erano diventati una famiglia.
Devo essere sincera: ho avuto anche il dubbio se facessi bene a scandagliare così le vite dei miei genitori – che non sono più di questa terra – ma poi li ho sentiti benevoli verso quel mio raccontare, e ho proseguito. Ho trovato così una storia che mi ha consolato per vari motivi. Il titolo Una storia che consola è nato da una sensazione che si è formata per gradi. Man mano che procedevo, avvertivo la responsabilità di fare un serio lavoro di ricerca per illustrare gli avvenimenti pubblici e il sapore dell’epoca che faceva da sfondo al dialogo epistolare dei miei genitori. E soprattutto la responsabilità di trascrivere le loro parole individuandone correttamente i pensieri e i sentimenti. Intanto mi rendevo conto che tutto questo serviva a conoscerli di più, e a fare anche un confronto tra il passato e il presente, accorgendomi che le problematiche di oggi e di ieri potevano avere punti in comune.
Dubbi e domande sorgevano non solo per il passato ma anche per il presente.
Alla fine, ho voluto onorare quella “schiera di uomini e donne che fanno avanzare il mondo in barba ai soprusi dei potenti… in quel loro percorso c’è tutta la commovente buona volontà di noi umani, che nel nostro cammino tentiamo e ritentiamo.”
Le lettere, biglietti, cartoline e vecchie foto trovate durante il lock-down ti hanno portato a immergerti nel passato dei tuoi genitori. Quanto è stato emozionante per te scoprire queste storie e condividerle con i lettori?
Sì, è stato emozionante, e soprattutto man mano mi rendevo conto che quel percorso di vita poteva anche lanciare un messaggio a tutti noi per il momento presente e per quello futuro. Per i giovani poi… poter osservare quel modo di comunicare per lettera, così differente da quello dei social, raffrontarlo e di certo imparare qualcosa da quell’esempio.
La pandemia ha influenzato la tua scrittura e il tuo modo di vedere il mondo? In che modo “Una storia che consola” riflette le tue riflessioni e sentimenti durante questo periodo?
Quel periodo mi ha sicuramente fatto crescere in consapevolezza, rendendomi conto purtroppo delle miriadi di inganni sparsi sul nostro cammino, e ho cercato di applicare sempre di più un vero metodo storico, che per sua natura deve essere distante dagli abbagli delle ideologie. Ora riesco a decodificare sempre di più quanto accade e i messaggi ingannevoli del presente. La maggior parte delle persone crede ancora acriticamente a quanto viene loro detto, ma sempre maggiore è il numero di chi cresce in consapevolezza. Credo molto all’importanza di spargere qualche semino in tale direzione. Una storia che consola mi ha fatto riflettere su somiglianze tra passato e presente e a sperare che siano uomini e donne di buona volontà a salvare il mondo, come scrivo nell’ultima pagina. E questa è anche la spiegazione del titolo.
Grazie Susanna per la tua interessante intervista. Continua a seguirci