Tommaso Iacoviello è un musicista capace di passare con disinvoltura dal jazz all’orchestra, fino a progetti di inclusione sociale attraverso la musica. Diplomato in tromba all’Istituto “Pietro Mascagni” di Livorno e laureato in Tromba Jazz alla Fondazione Siena Jazz, ha collaborato con importanti orchestre e artisti di fama, tra cui Francesco Renga e Stefano Di Battista. La sua carriera è segnata da esperienze prestigiose, come il Lucca Summer Festival e l’Umbria Jazz Festival, e da un forte impegno in progetti musicali rivolti a contesti di marginalità. In questa intervista ci racconta il suo percorso, le sue ispirazioni e il suo impegno nell’unire la musica alla ricerca artistica e al cambiamento sociale.
a cura di Antonio Capua
Tommaso, ti sei diplomato in tromba nel 2009 e successivamente hai ottenuto una laurea in Tromba Jazz nel 2016. Come è cambiato il tuo approccio allo strumento attraverso questi due percorsi formativi?
Sì, mi sono diplomato in tromba classica all’Istituto ‘Pietro Mascagni’ di Livorno nel 2009, e qualche anno dopo ho deciso di esplorare l’improvvisazione, laureandomi alla Fondazione Siena Jazz nel 2016. Questi due percorsi hanno rappresentato fasi diverse ma complementari del mio viaggio musicale.
Durante gli studi classici, ho avuto la fortuna di incontrare docenti molto aperti come Marco Nesi e Alessio Barsotti, capaci di farmi apprezzare una gamma musicale che spaziava dal barocco all’improvvisazione. Studiare con due grandi trombettisti, Giovanni Falzone e Marco Tamburini, ha arricchito enormemente la mia formazione: oltre a una tecnica solida, mi hanno trasmesso l’apertura mentale necessaria per esplorare diversi linguaggi.
C’è poi un ricordo speciale legato a quegli anni: un compagno di corso mi regalò un CD di Wynton Marsalis, Mr. Jelly Lord. Non avevo mai ascoltato niente di simile, e quel disco mi colpì profondamente, avvicinandomi all’improvvisazione in modo del tutto nuovo e facendomi scoprire una libertà espressiva che non conoscevo.
Quando più tardi scelsi di laurearmi in Tromba Jazz a Siena Jazz, questo desiderio di espressione libera divenne il mio centro. Grazie alle masterclass con insegnanti internazionali, ho potuto sviluppare un approccio flessibile, capace di muoversi tra generi e stili diversi. Oggi mi sento a metà tra questi mondi: alla base c’è sempre la tecnica classica, ma con un’anima che si nutre della libertà dell’improvvisazione.
Hai collaborato con orchestre prestigiose come l’Orchestra Città di Grosseto e l’Orchestra Nazionale del Jazz Nuovi Talenti. Quali sono stati i momenti più significativi di queste esperienze orchestrali?
Le esperienze con l’Orchestra Città di Grosseto e l’Orchestra Nazionale Jazz Nuovi Talenti sono state due momenti molto diversi della mia vita, ma entrambe sono state cruciali per il mio percorso musicale.
Con l’Orchestra di Grosseto ero molto giovane, e fu una delle mie prime esperienze orchestrali. Ricordo con affetto la disponibilità e la voglia di coinvolgere nuovi ragazzi da parte dei due trombettisti dell’orchestra, Orlando Barsotti e Luigi Dalicandro. Grazie a loro, mi sono sentito accolto e motivato, e quell’esperienza mi ha dato una base importante su cui costruire.
L’Orchestra Nazionale Jazz Nuovi Talenti è stata un’opportunità straordinaria che arrivò in un momento diverso e del tutto inaspettato. Avevo fatto l’audizione, ma l’emozione mi aveva giocato un brutto scherzo e non era andata bene. Poi, fortunatamente, un trombettista dell’orchestra non poté più partecipare, e Paolo Damiani mi chiamò per sostituirlo. Quando mi ascoltarono, decisero di tenermi con loro, e così iniziai a suonare in diversi festival, sia nazionali sia internazionali. Questa esperienza mi ha insegnato moltissimo, soprattutto sul valore dell’improvvisazione e della condivisione musicale con grandi talenti del jazz.
Questi momenti hanno avuto un impatto profondo su di me, contribuendo a formare la mia identità musicale e il mio approccio all’orchestra e all’improvvisazione.
La tua partecipazione a progetti di inclusione sociale come “Sing your Song” e la collaborazione con Animali Celesti dimostra il tuo impegno nel sociale. Come la musica può influenzare positivamente la vita delle persone in situazioni di marginalità?
Sing your Song è stato un progetto speciale, ideato da Massimo Nunzi, che ci ha portato per sei mesi in un punto luce di Save the Children nella periferia romana. Lì, insieme ai ragazzi del quartiere, abbiamo creato un percorso musicale che si è concluso con una restituzione pubblica al Parco della Musica. Per me è stata un’esperienza profondamente toccante, e ricordo ancora oggi l’emozione che provai, vedendo la trasformazione di quei ragazzi e il loro impegno nel portare sul palco qualcosa di personale e vero.
Credo fermamente che nelle periferie, dove il disagio e la povertà sono spesso più presenti, possano nascere espressioni artistiche di una forza unica. Le difficoltà diventano spesso il terreno dove l’arte si radica più intensamente, creando bellezza e autenticità. Eppure, c’è ancora una grande difficoltà nel finanziare progetti culturali in questi contesti: sembra quasi che si preferisca puntare sui grandi centri urbani, dove la visibilità è maggiore. Mi domando se sia davvero solo una questione di visibilità o se ci sia anche un pregiudizio nel riconoscere il valore dell’arte che nasce ai margini. Eppure, proprio lì, la musica può fare davvero la differenza, diventando un’opportunità di riscatto e un segno tangibile di speranza e cambiamento.
La collaborazione con Animali Celesti, una compagnia di teatro d’arte civile guidata da Alessandro Garzella, è stata per me un’esperienza illuminante. È stato qui che ho iniziato a porre l’attenzione non solo su ciò che volevo essere come artista, ma anche su come mi percepivo, su come apparivo agli altri. Grazie a tecniche di consapevolezza fisica, improvvisazione teatrale e un lavoro sui corpi in movimento, ho scoperto una nuova dimensione di me stesso, una luce che prima non avevo notato.
Questa possibilità si è concretizzata anche grazie al laboratorio condotto da Alessandro Garzella e Ilaria Bellucci, all’interno di alcuni centri diurni in collaborazione con l’ASL. In questi laboratori, ho avuto il privilegio di lavorare con utenti psichiatrici, operatori, attori, musicisti e danzatori. Insieme, abbiamo esplorato il confine tra l’essere e il non essere, tra l’attore e la persona, tra la luce e il buio. È stata un’esperienza che mi ha fatto riflettere profondamente su quanto la musica e il teatro possano essere strumenti di integrazione, cura e riflessione, e come la bellezza possa nascere proprio nei luoghi più inaspettati.
Grazie alla resistenza e alla passione di Animali Celesti, questo laboratorio è stato portato avanti fino ad oggi. Purtroppo, però, nessun aiuto concreto è arrivato per renderlo una cosa di semplice attuazione. Tra verifiche e burocrazia, il laboratorio è costantemente a rischio di interruzione. Questo rende ancora più difficile continuare a offrire opportunità così importanti per tutti i partecipanti.
Queste due esperienze mi hanno insegnato che attraverso l’improvvisazione, il canto, l’ascolto, il movimento e lo sguardo, i partecipanti al laboratorio scoprono di poter raccontare le proprie storie, dando voce a emozioni e pensieri che spesso restano nascosti. È un’esperienza che crea legami e rende possibile un dialogo che va oltre le parole, contribuendo a rompere l’isolamento e a sviluppare un senso di appartenenza.
Nel 2016 hai partecipato ai “Keep an Eye International Jazz Awards” ad Amsterdam con la Fondazione Siena Jazz. Come ti ha arricchito questa esperienza internazionale?
La partecipazione ai Keep an Eye International Jazz Awards di Amsterdam nel 2016 è stata un’esperienza davvero significativa per la mia crescita musicale e personale. Franco Caroni, allora direttore della Fondazione Siena Jazz, mi chiamò insieme ad altri musicisti per partecipare al contest, che quell’anno era dedicato alla musica di Herbie Hancock. Il livello del concorso era altissimo e ricordo con chiarezza che il gruppo del Berklee College era il favorito. Avevano un suono pazzesco e degli arrangiamenti molto ben fatti, e per la preparazione avevano avuto l’opportunità di essere ascoltati da Herbie Hancock in persona, imparando i brani a memoria. Poco prima di salire sul palco, ricevettero anche una telefonata di Hancock che gli augurava un in bocca al lupo.
Anche noi avevamo lavorato sodo per arrivare fino lì, ma non eravamo a quel livello. Un momento che mi è rimasto impresso accadde durante la loro performance, quando il trombettista del Berklee College posò la tromba, tirò fuori un flautino dalla giacca e fece un solo meraviglioso su un vamp di uno dei brani. Non so perché, ma quella scena mi colpì profondamente. Oggi, anche io cerco di contaminare la musica che faccio con piccoli strumenti a percussione o flauti di bamboo, seguendo quella stessa voglia di esplorare e innovare che ho visto in quel momento.
In generale, questa esperienza mi ha arricchito non solo a livello tecnico, ma anche emotivo e culturale. È stata un’occasione per confrontarmi con musicisti provenienti da tutto il mondo e ampliare la mia visione della musica, non solo come una performance, ma come un linguaggio universale che ci connette al di là delle differenze culturali. È stato stimolante vedere quanto l’improvvisazione e la creatività possano emergere in contesti così diversi, e quanto l’arte possa essere un punto di incontro per tutti.
Hai collaborato con artisti di fama come Francesco Renga e Stefano Di Battista. Cosa ti ha insegnato lavorare al fianco di grandi nomi della musica italiana e internazionale?
L’esperienza con Francesco Renga è stata abbastanza difficile, non tanto per lui come artista, ma soprattutto per l’organizzazione del progetto. Il tour riguardava il CD Orchestra e Voce, che portavamo in giro, e l’orchestra era composta da giovani musicisti, molti dei quali appena laureati o laureandi. Le parti per l’orchestra erano state trascritte dal CD, probabilmente perché non si riuscivano a trovare le parti originali. Alcune di queste trascrizioni, però, non corrispondevano affatto. Questo non sarebbe stato un grande problema, se non fosse stato per il fatto che, per motivi che non mi sono mai stati chiari, l’orchestra doveva suonare con una base pre-registrata, con una percentuale di 30-40%. Questo, naturalmente, creava delle disarmonie: mi ricordo le risate con il mio compagno di avventura, che suonava i timpani, quando sentiva colpi che non aveva suonato, semplicemente perché non erano scritti nella parte. Nonostante questi problemi, ho avuto comunque delle esperienze positive: ho legato con molti musicisti di talento e ho avuto la possibilità di fare tournée in giro per teatri italiani, un’opportunità che rimane un patrimonio incredibile. Tuttavia, il ricordo che ho di questa esperienza è legato a un forte disagio. Quando tornai a casa dopo il primo tour, le persone mi facevano i complimenti per aver suonato in una grande produzione e io non sapevo come rispondere. In realtà, non mi sentivo felice, ma mi veniva comunque data tanta felicità dalle parole degli altri.
Con Stefano Di Battista, invece, la situazione è stata completamente diversa. Ho avuto la fortuna di collaborare con la New Talent Jazz Orchestra di Mario Corvini, che inizialmente era nata come laboratorio a Testaccio, per poi diventare una delle big band più preparate e formate che si possono trovare anche oggi sulla scena. Io facevo parte dell’orchestra fin dall’inizio e ricordo che, per partecipare alle prove, mi spostavo da Cecina a Roma, fermandomi anche a Orbetello per raccogliere Riccardo Tonello, un amico trombonista. Quei viaggi, sia di notte che di giorno, sono stati fondamentali per la mia crescita, e devo tanto a Mario per avermi dato l’opportunità di entrare in questo progetto. Un momento davvero speciale si è verificato durante uno dei concerti alla Casa del Jazz, dove abbiamo avuto Stefano Di Battista come ospite. Durante quel periodo, preparavamo i concerti per un mese con ospiti del calibro di Javier Girotto, Fabrizio Bosso e Daniele Tittarelli. Quando finalmente il concerto era pronto e potevamo salire sul palco, l’emozione era incredibile. Quella della BigBand è stata un’esperienza formativa che ancora oggi ricordo con gioia, che mi ha permesso di conoscere un sacco di musicisti talentuosi di Roma e dintorni. Avevo solo 20 anni, ma quella performance è stata decisiva per la mia crescita professionale. Preparare la sua musica, con arrangiamenti così dettagliati, mi ha insegnato l’importanza della preparazione e della dedizione in un contesto professionale. È stato un punto di svolta, che mi ha fatto comprendere ancora di più cosa significa lavorare ad altissimi livelli.
Dal 2010 al 2017 hai fatto parte dei Magicaboola Brass Band, partecipando a eventi importanti come il Lucca Summer Festival. Cosa ti ha lasciato quest’esperienza e come ha influenzato il tuo stile musicale?
L’esperienza con i Magicaboola Brass Band è stata davvero speciale per me, e rappresenta uno dei momenti più significativi della mia carriera musicale. Quando avevo 17 anni, Alessandro Riccucci mi invitò a fare qualche prova con il gruppo. Andai, e capii subito che c’era qualcosa di magico in quel progetto che faceva assolutamente per me. È stata una delle mie prime esperienze con una marching band, e sin da subito ho percepito l’intensità dell’esperienza di suonare per le strade, un atto forte che non va mai dimenticato.
Ricordo con piacere i viaggi in furgone, le tournée infinite durante le calde giornate di agosto, e la gioia di portare la musica fuori dai contesti tradizionali, direttamente nelle strade, dove la gente ti ascolta in modo spontaneo. In quel periodo ho avuto anche l’opportunità di incontrare molti musicisti della zona di Livorno e Pisa, con alcuni dei quali sono ancora in contatto oggi, diventando colleghi e amici.
Per due o tre anni consecutivi abbiamo avuto la fortuna di partecipare al Lucca Summer Festival, dove facevamo una parata pubblicitaria nel pomeriggio e aprivamo i concerti. Mi ricordo di un anno in cui saltò una data importante all’ultimo minuto e ci chiesero di fare il nostro concerto da palco. Ancora oggi si trovano video di quella performance su YouTube. Alessandro aveva invitato come ospiti un rapper giamaicano, del cui nome non ricordo, e Mauro Ottolini. Sono bei ricordi che mi tengo stretti.
Questa esperienza mi ha influenzato profondamente, insegnandomi la forza della musica come linguaggio universale e immediato. L’approccio alla musica di strada, l’energia della performance dal vivo, e l’improvvisazione collettiva mi hanno permesso di arricchire il mio stile musicale.
Nel 2018 hai iniziato la tua collaborazione con il prestigioso Umbria Jazz Festival. Cosa rappresenta per te questo festival e come ha influenzato il tuo percorso jazzistico?
Ho iniziato a collaborare con Nico Gori in maniera stabile nel 2016 e faccio tuttora parte del suo gruppo, il Nico Gori Swing Tentet. Nico è un amico e un musicista straordinario, uno dei pochi maestri che, pur avendo una carriera consolidata, continua a incentivare i giovani musicisti, spronandoli a migliorarsi e ad affrontare nuove sfide artistiche. Non esistono parole sufficienti per esprimere tutto quello che mi ha insegnato, sia a livello musicale che umano.
Grazie alla sua rete di contatti e amicizie, siamo riusciti a entrare nel circuito di Umbria Jazz. Nico, con la sua determinazione, ha proposto il nostro tentetto per un concerto all’Arena Santa Giuliana, un’opportunità che per chi conosce l’ambiente non è semplice da ottenere. Eppure, grazie alla sua proposta, abbiamo avuto la possibilità di esibirci in quel contesto prestigioso. L’esperienza è stata fantastica, un’esperienza in cui abbiamo potuto presentare il gruppo nella sua veste più autentica. La nostra performance ha suscitato l’interesse degli organizzatori, che ci hanno richiamato l’anno successivo per partecipare all’Umbria Jazz Weekend a Terni. Questo successo non solo ha rafforzato la nostra fiducia, ma ci ha dato anche una visibilità importante, consolidando ulteriormente il nostro percorso artistico.
Nel 2021, il disco “Totem” dell’ensemble di Ferdinando Romano è stato selezionato tra i migliori dischi italiani da Musica Jazz. Cosa ti ha colpito maggiormente di questo progetto e cosa rappresenta per la tua carriera?
Il progetto “Totem” dell’ensemble di Ferdinando Romano è stato una delle esperienze musicali più stimolanti e significative della mia carriera. La cosa che mi ha colpito maggiormente di questo disco è stata la fusione di linguaggi musicali diversi, che mescolano il jazz tradizionale con elementi di sperimentazione e improvvisazione, senza mai perdere di vista l’intensità e l’emotività che la musica deve trasmettere. La direzione artistica di Ferdinando, che è sempre stata molto attenta alla creazione di un suono collettivo, ha fatto sì che ogni musicista dell’ensemble avesse spazio per esprimere la propria unicità, ma al contempo si lavorasse per costruire un’atmosfera unitaria.
Ferdinando è un amico e credo che si sia innamorato del suono del mio Flicorno, tanto da volermi in tutti i modi nel disco, anche se come trombettista ospite c’era Ralph Alessi. Suonare accanto a lui è un’esperienza unica: è la persona più calma e con nervi saldi che io conosca. Ha fatto un bellissimo lavoro, sia a livello artistico che nell’organizzazione del progetto. Con “Totem” abbiamo suonato davvero tanto, sia in Italia che all’estero, e ogni concerto è stato un’opportunità di crescita e di condivisione. Ricordo con particolare emozione un concerto a Berlino, tra voli presi e quelli persi, i concerti a Parigi con ospiti speciali, e il Festival Jazz di Edimburgo. Esperienze pazzesche, che mi hanno permesso di suonare con colleghi e amici di una generosità musicale e umana veramente fuori dal comune.
Questo progetto è stato quindi non solo un’opportunità di visibilità, ma anche un momento di grande arricchimento personale e professionale.
Nel tuo percorso hai spesso unito la musica alla ricerca artistica e all’inclusione sociale. Qual è la tua visione sul potenziale della musica come strumento di cambiamento sociale?
La mia visione sulla musica come strumento di cambiamento sociale è radicata nella convinzione che la musica abbia un potere universale e trasformativo, capace di toccare le persone al di là delle parole e delle barriere culturali. La musica ha una forza unica nel creare connessioni, nel rompere isolamenti e nel costruire ponti tra individui e comunità che potrebbero non avere altre occasioni di interazione. Quando unita alla ricerca artistica e all’inclusione sociale, la musica diventa non solo un’espressione personale, ma anche una forma di resistenza e di solidarietà.
Nella mia esperienza personale ho avuto la fortuna di conoscere tantissimi ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 15 anni, con patologie e disagi diversi. Il suono e l’improvvisazione sono stati sempre un ponte aperto di comunicazione per loro e per me. Ricordo un ragazzo con una forma di autismo grave, letteralmente fissato con il pianoforte. Nella scuola in cui era, andava sempre alla ricerca dei due pianoforti verticali che si trovavano nell’edificio. Quando li ritrovava, metteva l’orecchio alle corde e suonava le note più gravi. Un piacere per lui, un disagio per la scuola e gli altri alunni. Hanno cominciato a chiudere le porte dove erano questi strumenti ed aprirle solo quando strettamente necessario. Non ti dico come si applicava per ritrovare le chiavi di quelle stanze, come riusciva a comunicare la sua voglia di entrarci e poi come si rilassava subito dopo quando riusciva a prendere la sua tastiera elettronica, mero sostituto del vero pianoforte. Mi ricordo le ore passate da solo con lui al pianoforte e io sulla tromba, che mi porto nel cuore. Se non è comunicazione questa, cosa lo è?
Nel mio percorso poi ho avuto l’opportunità di lavorare in contesti di disagio e marginalità, grazie soprattutto ad Animali Celesti Teatro d’Arte Civile. In questi ambienti, ho visto come la musica può restituire dignità, forza e speranza a chi si trova in situazioni di difficoltà.
Queste esperienze mi hanno insegnato che la musica ha un enorme potenziale terapeutico e sociale. Non è solo un atto artistico, ma un atto che può generare cambiamento, creare inclusione e sensibilizzare le persone su tematiche importanti. La musica ha la capacità di aprire spazi di dialogo e comprensione, favorendo l’integrazione e il superamento di pregiudizi. È una lingua universale che tutti possono comprendere, indipendentemente dalla provenienza, dalla condizione sociale o dalle difficoltà personali.
In un mondo che spesso sembra diviso, credo fermamente che la musica possa essere uno strumento potente per costruire comunità più inclusive e più consapevoli. Questo è il mio approccio e il mio impegno come artista: continuare a esplorare il potenziale della musica non solo come linguaggio espressivo, ma come forza di cambiamento sociale.
Collabori con Stefano Battaglia nel suo laboratorio di ricerca permanente presso la Fondazione Siena Jazz. Quali sono le scoperte più interessanti che hai fatto attraverso questo progetto di ricerca musicale?
Collaboro forse non è la parola giusta. Ho conosciuto Stefano Battaglia quando frequentavo i corsi di Siena Jazz ed ho potuto odorare un qualcosa che a me interessa molto, cioè la grammatica musicale come vocabolario di espressione del proprio sé musicale in relazione a gli altri. La visione di Stefano sulla musica come un continuo processo di esplorazione e di crescita mi ha aperto nuove prospettive sul modo di concepire la composizione e l’improvvisazione. Il laboratorio, che si fonda su un approccio collettivo e aperto alla sperimentazione, mi ha permesso di esplorare diversi aspetti della musica, dai diversi linguaggi all’interazione tra gli strumenti, fino alla relazione tra la tradizione e l’innovazione.
Una delle scoperte più interessanti di questo progetto è stata la consapevolezza della musica come spazio in cui il linguaggio non si limita a essere un insieme di note, ma diventa una vera e propria conversazione tra i musicisti. L’improvvisazione, che è uno degli elementi centrali in questo laboratorio, non è solo una questione tecnica o di virtuosismo, ma diventa un atto di comunicazione profonda e di ascolto reciproco. Questo approccio ha influito molto sulla mia visione della musica, insegnandomi a essere più aperto alle idee degli altri musicisti e a costruire qualcosa di più grande insieme, piuttosto che concentrarmi solo sulla mia parte.
Un’altra importante scoperta riguarda l’esplorazione dei suoni e delle texture più sottili. Grazie a Stefano e alla sua metodologia, ho imparato a lavorare su un’idea musicale non solo a livello melodico o armonico, ma anche cercando di creare suoni nuovi attraverso il timbro, l’uso di tecniche extended, e l’interazione con altri strumenti in modo più sottile e organico. Questo ha ampliato enormemente il mio vocabolario musicale, permettendomi di spaziare in territori meno convenzionali e di sviluppare una maggiore sensibilità per l’elemento sonoro in sé.
Ho avuto anche la fortuna di registrare con lui in vari gruppi, dal trio alla grande ensemble, con dei dischi che sono in prossima uscita e che reputo un meraviglioso coronamento degli anni di ricerca passati dentro quelle aule.
Grazie Tommaso per questa intervista e complimenti per tutto!
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