Psicoterapeuta, autrice, performer di burlesque e divulgatrice: Giusy Castiglioni è una voce originale nel panorama della salute mentale contemporanea. Con oltre vent’anni di esperienza clinica, ha integrato approcci evidence-based con pratiche somatiche, narrative e simboliche, dando vita a un metodo personale che intreccia corpo, mente e immaginazione. Nel 2024 ha pubblicato il suo secondo libro “Principesse in Guêpière. Da Biancaneve ad Hercules come le favole ci hanno rovinato la vita e come possono salvarcela.”, un’opera che sovverte le fiabe per accompagnarci dentro e oltre i nostri copioni interiori. Il 25 giugno è uscito, su Spotify anche il suo podcast “La psicologa in guêpière”, dove fiaba, psicologia e trasformazione si fondono in un’esperienza di ascolto potente e provocatoria. In questa intervista ci racconta la sua visione audace della psicoterapia e della possibilità di riscrivere la propria storia attraverso il rito e la consapevolezza.
a cura della redazione
Foto di Micaela Zuliani
Giusy, benvenuta su Che! Intervista. Iniziamo dal principio: come nasce il progetto de “La psicologa in guêpière” e cosa significa per te unire psicoterapia e performance?
Di per sé ha qualcosa di magico: nasce dal superamento di una ferita, da un sogno di quando ero bambina e da un incontro.
“La psicologa in guêpière” nasce proprio quando queste strade si incrociano.
Due anni fa ho scritto un romanzo, al momento inedito, che racconta di un percorso di psicoterapia: l’incontro tra la terapeuta e la paziente, tra la parte razionale ed emotiva. Un incontro che trasforma entrambe, perché ogni relazione autentica tocca le ferite e le risorse di chi vi partecipa. In quelle pagine affiorano le luci e le ombre che abitano la vita e l’essere umano, e si mostra come, proprio attraverso il dolore, possa emergere la possibilità di una nuova integrità.
In quel testo affrontavo anche il tema dell’abuso e del burlesque come mezzo per ricontattare il proprio corpo. Il progetto ha preso forma concreta solo grazie a un incontro: quello con Paolo Borzacchiello.
Un incontro nato da un’iniziativa benefica per Save the Children. Paolo aveva messo all’asta il suo tempo a favore della causa, e io ho visto in quella possibilità l’occasione per un confronto con lui, anche per arricchire la mia professionalità. Non mi aspettavo tutto ciò che è accaduto dopo.
Paolo ha visto nel mio modo di lavorare e nella mia storia qualcosa che poteva essere utile ad altri.
Ha creduto in me prima ancora che lo facessi io.
E da quel dialogo è nato il coraggio di uscire dalla mia zona di comfort, anche provocatoriamente, con un profilo che mi presentava come “la psicologa in guêpière”.
La guêpière, in questo, è diventata un oggetto magico.
Io, che ho passato la vita a temere il giudizio degli altri, ho scelto di mettermi a nudo – simbolicamente – per attraversare la mia paura e non farmi più possedere da lei.
Unire psicoterapia e performance significa, per me, rendere visibile ciò che spesso nella vita resta invisibile: il corpo, l’eros, il piacere di guardarsi e di essere guardati senza vergogna, la forza che nasce dalla fragilità.
È dare forma a un messaggio: si può guarire anche danzando tra le proprie crepe, raccontandole senza più vergogna.
Il tuo approccio integra tecniche molto diverse tra loro: dalla TBT all’EMDR, alla teoria polivagale, dalla narrativa simbolica al burlesque. Come riesci a farle dialogare in un percorso terapeutico coerente?
Rimanendo nell’ascolto profondo della persona e della sua domanda.
Negli anni ho costruito una sorta di valigetta degli attrezzi, nata prima di tutto dalla mia esperienza personale: ciò che ha funzionato per me, ciò che mi ha trasformata, è diventato parte del mio modo di accompagnare gli altri.
Quando una persona si rivolge a me, seguo poche ma chiare linee guida:
Primo, non nuocere.
Secondo, costruire una relazione basata sulla collaborazione.
Terzo, creare un intervento il più possibile integrato ed efficace, evitando di attivare quel meccanismo che conosco bene: portare in giro il proprio “Calimero” alla ricerca di riconoscimento.
Per questo ho creato dei protocolli che permettono alla persona di lavorare anche in autonomia, e collaboro con altri professionisti quando è utile.
Il mio intento è sempre quello di restituire potere e strumenti, non di creare dipendenza.
Il burlesque, per ora, è un percorso personale che ha avuto per me un valore profondo, e che talvolta propongo anche ad alcune clienti. Sto lavorando alla creazione di workshop dedicati, perché credo che il burlesque possa essere una delle tante vie per tornare a se stesse.
Ma ogni persona ha la propria strada: il mio compito è aiutarla a trovarla.
Il corpo ha un ruolo centrale nel tuo lavoro, tanto nella pratica clinica quanto nell’espressione scenica. Che cosa ci racconta il corpo che la mente spesso non sa dire?
La verità.
C’è un libro di Marchino che lessi molti anni fa, di cui non ricordo tutti i contenuti, ma il cui titolo mi è rimasto impresso e condivido pienamente: Il corpo non mente.
Nel corpo si trova la nostra storia: nelle sensazioni, nelle contratture, nelle tensioni e persino nelle malattie. Lì abitano le nostre difese, i nostri traumi, ma anche la via per sapere dove stiamo bene — e come possiamo tornare a starci. Conoscere i meccanismi mente-corpo, integrarli con il linguaggio e con un modo di parlarsi che sia consapevole, può darci accesso ai nostri veri superpoteri.
Io ho scoperto il mio corpo grazie al metodo Rosen, alla metamedicina, all’EMDR, alla teoria polivagale e, più recentemente, alla Terapia Breve Trasformativa.
Oggi so riconoscere dove sono, cosa sta succedendo nel mio cervello, nel mio sistema nervoso. Questo non significa che sto sempre bene, o che non cado — ma so cosa mi sta accadendo e come posso intervenire.
E, a volte, so anche scegliere consapevolmente di non farlo.
È questo che insegno anche alle persone che si affidano a me: ascoltare il corpo, imparare a fidarsi di lui, e da lì iniziare a ricostruire un modo nuovo di abitarsi.
“Principesse in Guêpière. Da Biancaneve a Hercules: come le fiabe ci hanno rovinato la vita e come possono salvarcela” è un libro che parte dalle fiabe per smascherare i copioni interiori. Come hai scelto le storie da raccontare e che tipo di risonanza hai ricevuto dai lettori?
Sono partita dalle fiabe della mia infanzia.
All’inizio avevo pensato di includere anche alcune serie animate, ma poi ho scelto di concentrarmi esclusivamente sui film Disney e su come le narrazioni — soprattutto quelle femminili — siano cambiate negli anni.
Da lì, insieme al mio editor, Francesco Gungui, abbiamo strutturato un libro che potesse diventare un vero e proprio percorso di consapevolezza.
Ogni fiaba svela un copione interiore, un meccanismo che si ripete, ma anche la possibilità di riscrivere la propria storia in modo più autentico e libero.
La risonanza che ho ricevuto è stata profonda e toccante.
Mi sento grata, sorpresa e commossa ogni volta che una lettrice o un lettore mi scrive per raccontarmi cosa ha scoperto di sé grazie al libro.
Molti mi ringraziano per la chiarezza e la leggerezza con cui affronto temi complessi, e questo per me è il riconoscimento più bello: sapere che le mie parole stanno facendo compagnia, accendendo domande, offrendo nuove possibilità.
Credo che la vera magia delle fiabe stia proprio in questo: farci da specchio, sta a noi diventare i nostri aiutanti magici, trovare una via d’uscita — anche quando pensiamo di esserci persi.
Il trauma è una costante nel tuo lavoro. Qual è, secondo te, l’aspetto più frainteso del trauma nella percezione comune e nel dibattito culturale?
Ci sono due grandi fraintendimenti che incontro spesso, sia nel lavoro clinico che nel discorso culturale sul trauma.
Il primo è l’idea che il trauma sia un evento del passato che “passa”.
Chi vive un disturbo da stress post-traumatico (PTSD) non è semplicemente una persona che ricorda un dolore: lo sta ancora vivendo, nel corpo e nel sistema nervoso. Il cervello rimane in modalità difesa, iperattivato o dissociato, e finché non si esce da quello stato, è impossibile aprire davvero nuove prospettive. Il trauma, in questo senso, è un presente congelato, che si ripete in ogni relazione, in ogni scelta, in ogni reazione sproporzionata.
Il secondo fraintendimento riguarda la gravità del trauma: si tende a valutarla in base alla “misura” dell’evento, quando in realtà la ferita dipende molto di più da come viene vissuto.
Un evento oggettivamente piccolo può avere conseguenze profonde se avviene in un contesto affettivo fragile, se manca una figura di supporto, se si innesta su una storia di attaccamento insicuro. La gravità non è nell’evento in sé, ma nell’impatto che ha sull’intero sistema mente-corpo-relazione.
Negli ultimi anni, anche la scienza ha confermato quello che clinicamente abbiamo sempre osservato: il trauma modifica le cellule.
Numerosi studi sull’epigenetica dimostrano che esperienze traumatiche gravi possono alterare l’espressione genica attraverso la metilazione del DNA. Queste modifiche influenzano il funzionamento del sistema immunitario, ormonale e nervoso — e, in alcuni casi, possono persino essere trasmesse alle generazioni successive.
Studi recenti hanno mostrato che nei bambini nati da famiglie colpite da guerra o violenza, i marcatori di stress cellulare sono già presenti alla nascita. Questo non significa che siamo condannati: significa che anche il corpo chiede una cura. E può riceverla.
Per questo il lavoro sul trauma non può essere solo narrativo o cognitivo.
Serve un approccio integrato che tenga conto del corpo, del sistema nervoso, delle emozioni primitive, della memoria implicita.
Solo così possiamo smettere di sopravvivere e ricominciare a vivere.
Nei tuoi percorsi proponi anche pratiche sciamaniche e rituali trasformativi. Quanto è importante recuperare una dimensione ancestrale e simbolica nella terapia contemporanea?
Per me è fondamentale.
Al di là del fatto che si creda o meno a queste pratiche sul piano “spirituale”, ciò che conta davvero è che funzionano.
Parlano a una parte di noi che la mente razionale non raggiunge: quella bambina, ancestrale, intuitiva, che ha bisogno anche di un po’ di magia per guarire.
La terapia, a volte, può diventare troppo verbale, troppo “cognitiva”, mentre molte ferite si annidano in luoghi non verbali: nel corpo, nell’immaginario, nel simbolico.
I rituali — che siano di chiusura, di saluto, di rinascita o di trasformazione — parlano a questi luoghi profondi.
Permettono alla persona di compiere un passaggio, di mettere un confine, di liberare ciò che è rimasto intrappolato.
È come se aiutassero l’anima a “capire” ciò che la mente già sa.
Io personalmente credo che esistano energie più grandi, invisibili ma presenti, che ci accompagnano nei vari momenti della nostra vita.
Quando accompagno una persona attraverso un rituale lo faccio con intenzione, con rispetto, con consapevolezza — e mai in modo invasivo.
E ciò che trovo incredibile è che anche i clienti più razionali, quelli più diffidenti all’inizio, finiscono per sentire che quei gesti simbolici hanno un effetto concreto.
Qualcosa cambia: dentro, nel corpo, nel modo di stare al mondo.
Recuperare una dimensione simbolica nella terapia contemporanea non significa tornare indietro, ma integrare.
Significa riconoscere che la guarigione non è solo un processo clinico, ma anche un atto creativo, spirituale, umano.
Siamo fatti di carne, di pensiero, ma anche di mito, di immagini, di sogni.
E quando questi piani si incontrano, la trasformazione diventa davvero possibile.
Con il tuo nuovo podcast apri un nuovo canale di comunicazione. Che tipo di ascoltatore immagini per “La psicologa in guêpière” e quale esperienza vuoi offrire a chi ti segue?
All’inizio immagino che gli ascoltatori saranno soprattutto le persone che già mi seguono su Instagram, ma il podcast è pensato per chiunque senta il desiderio di conoscersi un po’ di più.
È per chi ha voglia di capire meglio come funziona il proprio mondo interno, di esplorare i meccanismi psicologici con curiosità e non con giudizio.
Il mio obiettivo è offrire strumenti concreti, ma anche uno spazio accogliente, dove smettere di chiedersi se si è giusti o sbagliati e iniziare, invece, ad avvicinarsi a sé con curiosità.
Solo da lì può partire un vero cambiamento.
Ogni puntata nasce da una domanda.
È uno stile che amo perché la domanda — come nell’arte maieutica — apre, non chiude.
Invita a cercare, a mettersi in gioco, a non vivere passivamente.
In fondo, è proprio attraverso le buone domande che si può iniziare a riscrivere la propria storia.
Con questo podcast vorrei offrire un’esperienza che sia insieme intima, stimolante e trasformativa.
Una voce che accompagna, una luce piccola ma calda, per chi sta attraversando una fase di cambiamento o semplicemente vuole tornare a sentirsi un po’ più “a C.A.S.A.” (Se vuoi sapere per cosa sta questo acronimo ascolta la seconda puntata del podcast Sai ascoltare il tuo corpo?) dentro di sé.
Il tuo stile comunicativo è diretto, creativo, spesso ironico. Quanto conta il linguaggio – e anche l’autoironia – nel creare alleanza e fiducia terapeutica?
Per me conta tantissimo.
Nella mia stanza si piange, eccome se si piange.
I fazzolettini, scherzo sempre, sono scelti con cura e compresi nel prezzo.
Ma si ride anche. Un riso spontaneo, mai forzato, che nasce dall’intimità raggiunta, dalla profondità che si crea quando si è davvero insieme.
L’autoironia, per me, è la capacità di portare luce nelle nostre ombre, di amarci anche — e soprattutto — per come siamo, imperfetti, disordinati, fragili.
Vi racconto due aneddoti, entrambi legati (ahimè) a un mio storico difetto: la puntualità.
Il primo riguarda una mia paziente che aveva già alle spalle una decina di percorsi terapeutici.
Un giorno, mentre stavo lavorando al mio libro, le ho chiesto: “Secondo te, che cosa ha funzionato davvero nella nostra terapia?”
Lei ha sorriso e mi ha ricordato un episodio all’inizio del nostro percorso: ero entrata in sala d’attesa, l’avevo guardata e le avevo detto candidamente: “Avevamo appuntamento? Me ne sono completamente dimenticata.”
Lei, in quel momento, ha pensato: Questa è più spanata di me. Se ce l’ha fatta lei, ce la posso fare anch’io.
E io, quando me l’ha raccontato, ho sorriso. Perché è vero: condivido spesso con i miei pazienti anche le mie fatiche, le mie difficoltà, la mia vita imperfetta. E questo, credo, li fa sentire meno soli.
Il secondo aneddoto riguarda un mio paziente che lavora nella selezione del personale.
Naturalmente, con lui riuscivo ad arrivare regolarmente con dieci minuti di ritardo.
Un giorno mi ha guardato serio e mi ha detto: “Sa, dottoressa, nel mio lavoro se una persona arriva sempre in ritardo non la licenzio subito. Prima dico al datore di lavoro che deve aiutarla ad arrivare puntuale. Poi, eventualmente, si valuta.”
Io l’ho guardato e gli ho risposto: “Perfetto. Allora vorrà dire che abbiamo ancora tanto tempo per lavorare insieme.”
E lui si è messo a ridere.
Anche questo è parte della terapia: riconoscere che ci sono aspetti di noi che conosciamo, sappiamo essere da migliorare, ma facciamo fatica a cambiare.
Eppure, anche questo può diventare materiale terapeutico, terreno di alleanza, occasione di autoironia e di umanità condivisa.
Forse ha influito anche il fatto che ho lavorato per anni con i bambini.
Da loro ho imparato che il piacere e il divertimento sono una parte fondamentale della guarigione.
Quando il cambiamento avviene anche attraverso il gioco, l’ironia, il sorriso, allora è più profondo, più spontaneo, più duraturo.
Viviamo in una cultura che medicalizza o banalizza il disagio. Tu invece proponi una strada “altra”. Cosa serve, oggi più che mai, per aiutare le persone a diventare protagoniste del proprio cambiamento?
Credo che serva, prima di tutto, imparare a sentirsi.
A vedersi, a stare con ciò che c’è, a riconoscere il proprio ritmo interno.
È fondamentale trovare un equilibrio consapevole tra il ricorso a un intervento farmacologico — che in alcuni casi è non solo utile, ma assolutamente necessario — e la capacità di dare spazio al dolore, al lutto, al disagio come esperienze da attraversare, non solo da eliminare.
Non tutto ciò che ci fa soffrire va immediatamente zittito, curato o “normalizzato”.
A volte la sofferenza ha bisogno di tempo, ascolto, significato.
La vera cura nasce dal riconoscere quando sono necessari strumenti medici e quando, invece, è importante accompagnare la persona a mettersi in contatto con sé, con ciò che il sintomo sta cercando di raccontare.
Viviamo in una società che ha un’etichetta per tutto.
Ogni tanto, anche per gioco, provo le app che spopolano sui social, quelle che ti propongono test di autovalutazione rapidi… e alla fine scopro che ho tutto, tranne l’Alzheimer!
Subito dopo arriva la proposta di un percorso mirato, ben confezionato, con solide basi scientifiche…
Che però, nella maggior parte dei casi, viene abbandonato dopo poche settimane.
Gli strumenti, oggi, sono tanti e spesso validi — ma devono essere proposti con intelligenza clinica, concordati con la persona, monitorati nel tempo e adattati al suo percorso, alla sua storia, al suo momento di vita.
Perché ciò che funziona davvero non è lo strumento in sé, ma il modo in cui viene integrato nella relazione terapeutica e nella realtà unica della persona che lo riceve.
Ci stiamo disabituando a vivere il tempo del cambiamento.
Alla possibilità che il sintomo non sia solo un errore da correggere, ma anche una via d’accesso alla nostra verità, alla nostra storia, a ciò che chiede ascolto.
Possiamo guardare il sintomo con curiosità, ascoltarlo.
Perché non sempre possiamo guarire tutto, ma possiamo sempre imparare qualcosa.
E nel comprenderci meglio, nasce la possibilità di trasformarci.
La cura, oggi più che mai, è ridare dignità al tempo, alla complessità e all’esperienza irripetibile di ogni essere umano.
Tra libri, workshop, podcast e nuove collaborazioni: quale sogno professionale hai ancora nel cassetto e che direzione ti piacerebbe intraprendere da qui in avanti?
Ho fatto tanto. E, a dirla tutta, più di quanto mi aspettassi.
Ho intrecciato il mio lavoro clinico con la scrittura, la creatività, il desiderio di condividere anche al di fuori della stanza di terapia. E questo, per me, è già un traguardo importante.
Ma se penso a cosa mi piacerebbe ancora realizzare, scrivere resta in cima alla lista.
Continuare a dare voce a storie, libri, racconti… magari qualcosa di nuovo, che mescoli ancora una volta psicologia e narrazione.
Un altro sogno? Tenere un TED Talk. Portare la mia esperienza e il mio messaggio a un pubblico più ampio, raccontare come si possa trasformare il dolore in possibilità, la vulnerabilità in risorsa.
Infine, rispondendo a questa intervista, mi è venuta voglia di creare un workshop dedicato ai professionisti, ai terapeuti.
Un luogo dove poter dire che anche noi siamo strumenti di cura, e che la nostra vita – le nostre fragilità, i nostri inciampi, la nostra ricerca di equilibrio – può diventare parte integrante della valigetta degli attrezzi.
Perché non esistono solo le tecniche. Esistiamo anche noi.
E il nostro percorso è, a volte, il più grande strumento che abbiamo per accompagnare gli altri.
Grazie Giusy per il tempo e le tue spiegazioni e complimenti per la tua carriera!
Per saperne di più visita:
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