Federica De Paolis è scrittrice, dialoghista cinematografica e autrice televisiva, ha saputo spaziare con successo tra letteratura e cinema, vincendo importanti premi come il Premio DeA Planeta e il Premio Internazionale di Letteratura Città di Como. Con una formazione in Lettere all’Università La Sapienza e un esordio nella narrativa nel 2006, De Paolis ha pubblicato numerosi romanzi tradotti in diverse lingue, esplorando temi complessi e profondi. Il suo ultimo romanzo, “Da parte di madre”, è finalista al Premio Viareggio Rèpaci. In questa intervista esclusiva, ci racconta il suo percorso artistico, le sue aspirazioni e i progetti futuri.
a cura di Salvatore Cucinotta
Benvenuta Federica, la tua carriera spazia dalla narrativa alla sceneggiatura e al doppiaggio cinematografico. Come sei riuscita a bilanciare queste diverse sfere creative e in che modo ciascuna di esse ha arricchito la tua scrittura?
Sono state due grandissime palestre, molto diverse. Si tratta sempre di parole ma la loro funzionalità è assolutamente distinta. La scrittura letteraria è composta principalmente dalla creatività, il lavoro della dialoghista è soprattutto tecnico, anche se c’è da dire che scrivere i dialoghi mi ha insegnato “l’arte del parlato” che si è imposta con grande vivacità nei miei libri. Si tratta di una scrittura che si avvicina alla lingua che usiamo per esprimerci che è completamente diversa da quella della prosa che utilizziamo per raccontare. Comunque, per trovare un minimo comune multiplo, sono lavori artigianali che si migliorano nel tempo. Più scrivi, più la scrittura cresce.
Hai esordito nel mondo della narrativa nel 2006 con il romanzo “Lasciami andare”. Come è cambiato il tuo approccio alla scrittura da allora e quali sono le principali lezioni che hai appreso nel corso degli anni?
Il primo romanzo era veramente dettato dall’istinto, eppure avevo già chiaro che bisogna essere fedeli a una trama. Il modo di scrivere si è affinato, ho imparato molto leggendo, insegnando, lavorando con gli editor. Ho anche centrato maggiormente ciò che mi interessa, la famiglia come tema centrale, e mi sono concentrata su questo.
Nel 2020 hai vinto il Premio DeA Planeta con il romanzo “Le imperfette”, partecipando sotto pseudonimo. Come mai hai scelto di utilizzare il nome di tua madre e cosa ha significato per te ricevere questo riconoscimento?
Ho usato il nome di mia madre come una specie di rito scaramantico, speravo mi portasse fortuna, mia madre è mancata vent’anni fa. E cosi è stato. Il premio è stata una sorpresa, e un’immensa soddisfazione. Per altro l’ho vinto nel periodo del Covid (quando eravamo tutti chiesi nelle nostre case) e abbiamo lavorato all’uscita del libro in quella condizione assurda. Però ho veramente sentito che i libri hanno un potere altro, io ero murata nel mio studio e la mia storia invece stava prendendo il volo.
Il tuo romanzo “Notturno salentino” ha vinto il Premio Internazionale di Letteratura Città di Como nella categoria “Miglior thriller”. Cosa ti ha ispirato a scrivere questa storia e quali aspetti del Salento ti hanno affascinato al punto da ambientarvi il romanzo?
Ho una casa in Salento, è un luogo che amo visceralmente e che credo di conoscere molto bene. Volevo raccontare gli ulivi, la macchia mediterranea, la mentalità locale, la terra rossa, è stato un teatro di posa perfetto per ambientare una storia noir. La protagonista è una donna che si ritrova un uomo morto nella sua tenuta, un fabbro. Molti sono i presunti colpevoli, inclusa lei che viene tenuta d’occhio dalla polizia. È quindi coinvolta in una ricerca per scagionarsi, ma il romanzo è soprattutto un viaggio dentro la sua vita e il disvelamento di realtà che appaiono molto diverse da come sono.
Il tuo ultimo romanzo “Da parte di madre” è finalista al Premio Viareggio Rèpaci. Quali temi hai voluto esplorare in quest’opera e quanto c’è di autobiografico nella storia che racconti?
“Da parte di madre” è un memoir, la prima storia autobiografica che scrivo. Racconta il rapporto con mia madre, durato trent’anni. È anche un ritratto generazionale, la storia si svolge prevalentemente negli 80/90. Parlo di una relazione madre figlia simbiotica, a volte rovesciato, è il legame di due donne che si sono trovate sole e sono cresciute assieme. Una lettera d’amore. Nonostante racconti le asperità del rapporto madre figlia non esprimo nessun giudizio. Da parte di madre, significa anche questo. Aver cercato di raccontare una storia accogliendo il suo punto di vista: è una figura complessa. È un libro che sta avendo un grande consenso, dove molte persone si ritrovano, mi ringraziano, si identificano. Una soddisfazione immensa.
Insegni alla scuola di scrittura creativa “Molly Bloom” e all’Istituto Europeo di Design. Cosa ti spinge a dedicarti alla formazione e quali sono i consigli principali che offri ai tuoi studenti di scrittura creativa e sceneggiatura?
Insegnare è un arricchimento enorme. Insegnando si impara. Si impara moltissimo. Il consiglio è quello di leggere, leggere per noi è il più grande esercizio possibile. Poi ripeto ossessivamente di scrivere e correggersi, cercare l’occhio critico sui nostri lavori. Cercare di non parlare di sé alle prime prove, perché si rischiano dei lavori ombelicali. Non dimenticare mai il lettore, non dare mai nulla per scontato.
Con il documentario “De la famille et d’un amour immodéré”, presentato al Torino Film Festival, hai esplorato la cinematografia di Robert Guédiguian. Cosa ti ha colpito di più del suo lavoro e quali sono i temi che senti più vicini al tuo modo di narrare?
Guédiguian è un grandissimo regista e un uomo straordinario, lavora da più di trent’anni con gli stessi attori, la sua famiglia marsigliese. Indaga l’amore, la relazione ma anche la lotta di classe, è ancora prossimo alla nouvelle vague, un certo tipo di cinema indipendente che lui continua a tenere in vita, con uno sguardo che si rinnova di continuo. È stato un immenso privilegio poter lavorare con lui, ed entrare in contatto con i suoi attori e l’Agate la sua casa di produzione. Anche per lui la famiglia è al centro del suo sguardo, e quindi per me è stato un maestro fondamentale.
Sei stata definita un'”artigiana delle parole”. Come interpreti questo appellativo e quanto è importante, secondo te, il lavoro di precisione e rifinitura nella scrittura letteraria e cinematografica?
Io ho un metodo: scrivo una frase, un’immagine, una descrizione nel modo più semplice. L’importante è che traghetti un significato. Poi la lavoro. Cerco delle parole autentiche per descrivere qualcosa di banale, un tramonto per esempio. Il sole non potrà essere arancione, perché è un’immagine troppo abusata. Forse sarà color tuorlo oppure un mandarino in mezzo al cielo. Avanti così, finché non trovo una descrizione molto personale che mi soddisfi.
Guardando al futuro, quali sono i tuoi prossimi progetti? Ci sono nuove storie o adattamenti su cui stai lavorando che puoi anticiparci?
Sono ancora in tour per “Da parte di madre”, sto mettendo insieme i pezzi, vorrei tornare su una storia familiare di fiction. C’è una frase di Christa Wolf che recita “Una famiglia è un‘accolita di persone di età e di sesso diversi tese ad occultare rigorosamente imbarazzanti segreti comuni”. Io cerco, più o meno, di raccontare sempre questo. Sempre meglio. Scrivendo si impara. Si cresce.
Grazie Federica per averci dedicato un pò del tuo tempo per questa interessante intervista.
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