Roberta è una cittadina del mondo, una professionista poliedrica capace di attraversare confini geografici e artistici con la stessa disinvoltura con cui cambia ruolo tra attrice, talent manager, produttrice esecutiva, coach e coordinatrice dell’intimità. Dalle prime esperienze a Cinecittà fino ai set americani sotto la direzione di Francis Ford Coppola, la sua carriera è un intreccio continuo di passione, studio e trasformazione. Ha lavorato tra Napoli, Londra e Los Angeles, portando con sé un bagaglio fatto di metodo, cultura e umanità. In questa intervista esploriamo la visione di una donna che ha fatto del cambiamento la propria vocazione e della scoperta dell’altro il suo mestiere.
a cura della redazione
Intervista a cura di Chiara Gligora
Regia Salvatore Cucinotta
In studio Antonio Capua
Roberta, benvenuta su Che! Intervista. Partiamo dal principio: come descriveresti la tua identità professionale e personale oggi, dopo aver vissuto e lavorato in tre paesi così diversi tra loro?
Mi è sempre piaciuto definirmi una, nessuna e centomila… un’anima gypsy in continua evoluzione sia personalmente che professionalmente. Non mi piace rinchiudermi in una categoria, o forse semplicemente ancora non so quale è.
Dal palco di teatro ai set hollywoodiani, passando per il doppiaggio e il lavoro da stunt: qual è stata l’esperienza più formativa nella tua carriera e perché?
Credo che siano state tutte molto formative, ho incontrato tantissimi insegnanti, attori, registi, mentori, da ognuno ho preso delle cose (anche da non fare, essere, diventare) quindi così su due piedi non saprei dirti quale sia stata la PIÙ formativa ma di sicuro posso dirti che quella che ricordo con più tenerezza è una delle prime.
Ero piccolissima ed ero in scena a teatro. Era, se non la prima volta che recitavo seriamente davanti ad un pubblico, forse la seconda, lo spettacolo iniziava proprio con la mia entrata in scena ed un mio monologo. Dopo la prima battuta ho avuto un vuoto totale, sentivo gli occhi delle persone che mi squadravano come se sapessero che stavo nel panico e sentivo il giudizio preventivo, ovviamente non era così e questo succedeva solo nella mia mente.
Ho chiuso gli occhi, respirato e poi ho improvvisato completamente. Non sapevo neanche cosa stessi dicendo né da dove prendevo quelle parole eppure ha funzionato talmente bene che ho avuto fantastiche recensioni da giornalisti e critici presenti e una richiesta di lavoro da un regista presente tra il pubblico.
Ho scoperto presto il potere del qui e ora, dell’ascolto e del vivere davvero le situazioni immaginarie create nella struttura del personaggio durante le prove.
Spesso racconti l’incontro con Michael Margotta come una svolta decisiva. Cosa ti ha insegnato di tanto potente, da cambiarti anche come persona?
Ero a cinemadamare (la prima edizione) e parlando con un regista mi consiglio’ di lasciare la scuola che frequentavo a Roma per andare da Michael. All’epoca aveva l’actor center sull Ostiense lui, io non parlavo neanche inglese in quel periodo, eppure ci capivamo. E’ uno di quei maestri che amano quello che fanno, che si regalano senza riserve, che ti scavano dentro e mi ha insegnato (tra le varie cose) a guardarmi veramente dentro senza paura, e a togliere “l’accappatoio scenico e personale” in cui mi stavo nascondendo, mi ha insegnato a fidarmi ed affidarmi soprattutto e mi ha fatto capire quanto il conoscersi sia fondamentale per conoscere i personaggi che ci abitano. Mi dispiace solo di essermi dovuta trasferire all’estero prima di finire tutti gli steps del lavoro con lui. Ma lo consiglio sempre a tutti i miei studenti perché è energia, conoscenza, talento, pazienza, amore e tanto altro.
Come si passa, nella tua esperienza, dal voler essere sotto i riflettori al volerli puntare sugli altri, diventando talent manager e produttrice esecutiva?
A me è successo perché il mio ex marito era un bravissimo attore ma lavorava meno di me ed io volevo che brillasse così all’inizio il mio passaggio all’altro lato (come mi piace chiamarlo) è stato estremamente egoistico e poi mi sono innamorata di tutto ciò che da attrice non avevo mai esplorato e sono rimasta a lavorare per Mark Myers a Citizen Skull per 8 anni.
In cosa consiste, concretamente, il lavoro di talent manager? E cosa cercavi in un talento che ti faceva dire “questa persona va seguita”?
Potrei dirti il modo in cui l’attore X formulava l’email, il suo materiale, la sua faccia, la mentalità, l’approccio al lavoro. Ma la verità è che sì, certo tutte queste cose erano fondamentali ma poi, a vincere, era una sensazione che quell’attore mi dava a pelle, era una sensazione. Io paragono spesso il rapporto attore- manager ad un rapporto di coppia. Non sai perché scegli una persona ma la scegli perché qualcosa dentro di te ti spinge a farlo.
A volte mi sono sbagliata eh (proprio come in amore appunto) e ho puntato su cavalli un po’ zoppi perché speravo davvero che ciò che avevo visto nel loro potenziale fosse ciò che vedevano anche loro stessi, ma il più delle volte c’ho visto giusto ed è stato molto soddisfacente.
Parlo al passato perché ora non ricopro più questo ruolo ma sono intimacy coordinator ed acting coach a tempo pieno, e ti posso dire che continuo ad “innamorarmi” artisticamente e ad avere innumerevoli soddisfazioni e a volte anche qualche delusione ma fa parte del gioco.
Il ruolo dell’intimacy coordinator è ancora poco conosciuto in Italia. Qual è la sua importanza e come cambia l’atmosfera di un set quando è presente questa figura?
Hai ragione che è una figura ancora poco conosciuta ma piano piano stiamo crescendo, ci sono giovani registi anche alle loro opere prime che ci contattano, il che fa ben sperare. E’ una figura che si occupa dei consensi, di coreografie, mitiga rischi possibili e “protegge” attori e troupe.
I protocolli a volte, nella mia esperienza, possono essere un po’ difficili da gestire all’inizio per le produzioni soprattutto nell’ottica del set chiuso ma i cambiamenti sembrano sempre estremi e complessi al principio, poi piano piano si prende forma.
Insegni recitazione in contesti molto diversi: workshop per professionisti, lezioni per chi è agli inizi, esperienze in Italia e all’estero. Che cosa cambia e che cosa invece resta universale nell’arte dell’attore?
Mi è stato insegnato che tutti possiamo recitare ed io ci credo perché di base recitare è mentire in modo credibile e ogni essere umano quando vuole qualcosa nella vita ed ha un forte “perché” mente e quindi recita, il punto è si recita per se stessi o si vuole far diventare un lavoro?
Quindi la vera differenza in me e nel mio approccio e’in base a chi ho davanti.
Se chi ho davanti vuole solo divertirsi e’ un conto e non ti nascondo che in quel caso spesso la divisione delle strade avviene in modo naturale, altrimenti se c’è impegno, fame, talento e giusto mindset allora la didattica e la metodologia cambiano e anche il sudore e le lacrime (sia degli allievi che mie a volte). Pretendo molto dai miei studenti o almeno da quelli che ripongono in questo il loro futuro.
Sei anche una consulente di armocromia, una passione che sembra molto distante dal cinema. Come si integra questo lato estetico nel tuo lavoro con attori e attrici?
Tutti mi chiedono come si collegano questi mondi e la domanda che di risposta faccio io e’ “hai fatto caso a quanto sia diverso quando un colore ti esalta?” Attori sconosciuti (o meno, ma partiamo dagli sconosciuti) hanno come biglietto da visita le foto, quando indossano colori che li invecchiano o che li spengono non solo non si rendono giustizia ma si inseriscono in un’età scenica che può portare fuori strada gli agenti e i casting.
Anche per i provini, soprattutto self tapes, la scelta del giusto colore del background e della maglia può aiutare.
Hai lavorato in produzioni importanti, anche al fianco di registi iconici. Qual è la lezione più preziosa che hai imparato “dietro le quinte”?
Quando ci sono dinamiche di potere ed ego spropositati il lavoro non è soddisfacente e non è di qualità.
Il nostro è un lavoro di squadra e quindi circondarsi del giusto team e’ fondamentale, delegare a chi sa più di te anche.
Se ti fidi delle persone che hai scelto accanto, o che comunque ti circondano hai la possibilità di ascoltare la tua troupe e il lavoro diventa davvero di gruppo.
Non ti definisci né italiana, né americana, né inglese. Cosa significa per te “sentirsi a casa” e in che modo questa apertura culturale arricchisce il tuo sguardo sul mondo dello spettacolo?
Credo che si possa e debba sempre imparare dagli altri (che siano persone o paesi) e quindi provo a mischiare un po’ le carte quando posso portando un po’ di estero in Italia e viceversa. Poi casa in sé per me credo siano più aerei e treni che luoghi fissi. Ah e ovviamente la mia gatta!
Grazie Roberta per la tua testimonianza e complimenti per tutto!
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