“Twins” è il nuovo album dei Ferrinis, una colonna sonora generazionale che si sviluppa come un film a episodi, attraversato da luci al neon, silenzi sospesi e dettagli emotivi che sfuggono alla retorica del “già sentito”.
a cura della redazione
La tracklist si apre con “Il Nostro Film”, dichiarazione d’intenti e cornice ideale: «Ricominciamo a scrivere il nostro film», cantano, e subito ci si ritrova spettatori – o complici – di storie d’amore imperfette, cariche di tentativi, sbagli, ritorni. Le relazioni raccontate non cercano catarsi né lieti fine: sono vissute, attraversate, talvolta sopravvissute. Un’umanità fragile e onesta, ben rappresentata da titoli come “Rollercoaster”, “Poche Ore” e “Aspettavo Questa Notte”, brani che sembrano catturare istanti rubati al tempo, momenti in cui tutto può cambiare o dissolversi.
C’è una forte coerenza linguistica e sonora, che rende Twins un’opera più matura rispetto ai lavori precedenti del duo. Le atmosfere variano – dalla sensualità quasi sinestetica di “Labbra al Curry” alla malinconia disillusa di “Coca e Malibù” – ma restano sempre unite da una scrittura visiva, capace di trasformare sentimenti in immagini, pensieri in sguardi. I Ferrinis non spiegano, mostrano. Con un’efficacia che richiama il realismo delle serie tv di nuova generazione, quelle in cui ogni personaggio potrebbe essere il vicino di casa, l’amico d’infanzia, o noi stessi.
In un panorama discografico dominato da tormentoni usa-e-getta, i Ferrinis scelgono invece il tempo lento della costruzione. Twins non si consuma in una playlist: si ascolta tutto, in sequenza, come si fa con un album vero. È un viaggio emotivo che parte dal disincanto per arrivare a qualcosa di più profondo: la consapevolezza che certe storie, anche se finite, continuano a parlare.
Nel brano conclusivo, “Senza Lieto Fine”, tutto si concentra in una sola frase: «Come una melodia senza lieto fine, mi sa solo consumare». È qui che i Ferrinis chiudono il cerchio con uno struggimento misurato, mai patetico. La malinconia diventa materia d’arte, senza per forza cercare una via d’uscita. È il racconto di una fine che non trova fine. Ed è, forse, proprio questo a renderlo vero.
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