Intervista a Francesca Palamidessi sul nuovo EP tra conflitto interiore, linguaggi ibridi e libertà artistica
Concepito come un unico flusso frammentato, “Wisteria” è un EP che sfida le convenzioni dell’ascolto, invita all’introspezione e scava in profondità nelle tensioni tra desiderio e realtà. In questa intervista, esploriamo insieme a Francesca Palamidessi le radici artistiche e personali di un lavoro che parla il linguaggio del dubbio, della trasformazione e dell’identità. Dalla voce usata come materia viva, al cortometraggio che accompagna l’opera, “Wisteria” si rivela come un viaggio sonoro che non cerca risposte facili, ma pone domande necessarie.
a cura della redazione
foto di Roberto Parisi
Francesca, benvenuta su Che! Intervista. “Wisteria” è finalmente disponibile dal 14 marzo: come ti senti all’idea che questo lavoro così intimo e stratificato sia ora nei cuori di chi ti ascolta?
E’ sempre molto emozionante pubblicare un disco, terrificante e liberatorio allo stesso tempo. Sono felice di poter usare la mia voce artistica per raccontare qualcosa di mio.
Il titolo dell’EP richiama il glicine, ma anche il conflitto interiore racchiuso nella parola giapponese “Kattō”: quando e come hai capito che questo sarebbe stato il simbolo perfetto per raccontare il tuo progetto?
Verso la fine della sua stesura, quando tutto ha iniziato ad avere senso compiuto. Scrivo d’istinto e spesso mi rendo conto di cosa sto facendo solo a cose fatte. All’inizio volevo chiamarlo “I saw my life branching out”, ma insieme a Raffaele Lauretti di Pluma Dischi (la mia etichetta) abbiamo pensato a questa parola che con così poco, dice così tante cose.
Hai definito “Wisteria” una creazione multimediale spontanea: cosa ha innescato questo flusso creativo? C’è stato un evento, una riflessione o un’urgenza particolare da cui è partito tutto?
Beh no, il flusso creativo cerco di tenerlo sempre attivo, lo alimento in modo che questo fuoco non si spenga mai (o quasi). Era semplicemente tempo di pensare ad una nuova pubblicazione. Poi, mentre scrivevo e producevo i primi frammenti, ho letto “La Campana di Vetro” di Sylvia Plath e sono rimasta molto colpita da alcuni passaggi che mi hanno portata a restringere il campo a livello tematico e a concentrarmi sul tema della scelta.
In ogni frammento musicale si percepisce un cambio di pelle, sia stilistico che emotivo: che ruolo ha avuto la tua esperienza con la voce nel cucire insieme queste trasformazioni?
La voce è il mio primo strumento, ed è anche quello che fa da collante ad un mondo sonoro altrimenti molto frammentato e a tratti quasi irrequieto. E’ grazie alla mia voce che ho potuto fare esperienze nella musica di generi diversi, musica di mondi totalmente distanti l’uno dall’altro. Ho un rapporto strano con la mia voce, di odio/amore, ho un cervello da strumentista ma mi ritrovo sempre a cantare. Insomma forse è la mia zona di conflitto; a proposito di cambi di pelle, mi limita, rispetto alle infinite possibilità del mondo sonoro, a rimanere profondamente me stessa.
La tracklist forma una frase: “I saw my life branching out before me because I couldn’t make up my mind”. Come sei entrata in contatto con questo passo de La campana di vetro, e perché ha risuonato così profondamente con te?
E’ stato un caso, mi si è letteralmente palesato sotto gli occhi mentre cercavo cose su internet. Eppure è capitato proprio nel momento giusto, quello in cui stavo riflettendo parecchio proprio sul tema affrontato da quell’estratto. Sono cose su cui rifletto molto da sempre, perché vivo un costante conflitto tra la mia anima istintiva (che è quella che apprezzo di più) e quella più spaventata, che si rifugia nel ragionamento perché ha paura dell’ignoto.
L’uso di diverse lingue nei testi — italiano, inglese, francese — sembra voler comunicare anche il disorientamento e la molteplicità delle identità. Come hai scelto quali voci usare e che effetto volevi ottenere nell’ascoltatore?
Ho seguito l’istinto, scrivendo come se stessi facendo un discorso interiore piuttosto che verso l’esterno. L’effetto che cercavo è quindi quello di ricreare le “voci della testa”, spesso confuse, contrastanti, ma anche vicine, proprie.
Il videoclip dell’EP è un vero cortometraggio: che tipo di narrazione visiva accompagna il progetto e che relazione hai voluto stabilire tra musica e immagine?
Ho scelto per questo video una narrazione visiva che avesse la stessa pasta di quella sonora: ciò si traduce in un montaggio molto veloce, in un sovraccarico di scenari, inquadrature, insomma ho pensato la regia con lo stesso processo creativo con cui scrivo musica. Come se stessi producendo una canzone. Nel video è ritratto un personaggio femminile in diversi scenari di vita, complementari a quelli dei frammenti audio.
In “Wisteria” si sente forte il desiderio di non omologarsi, anche musicalmente. In un’epoca in cui il successo è spesso associato alla ripetibilità, come vivi il tuo rapporto con la sperimentazione e il rischio creativo?
Non ho un desiderio attivo di non omologarmi, ma ho il desiderio di scrivere musica con la massima spontaneità e soprattutto di non farmi dire cosa fare da nessuno. In questo senso credo quindi che la sperimentazione sia innata in me. Ho un buon rapporto con il rischio creativo perché sono estremamente abituata ad esso, anzi, semmai a volte mi giudico per non aver rischiato ancora di più. Credo che la ripetibilità funzioni solo per chi è naturalmente incline alla ripetizione, e il fatto che il successo vi sia legato non è una legge assoluta, anzi, penso che nel mio caso sarà la mia unicità (o perlomeno, la mia spontaneità musicale) a portarmi le più grandi soddisfazioni.
Questo lavoro tocca molte fasi della vita di una donna, dalla giovinezza all’età adulta: quanto di autobiografico c’è in questo percorso e quanto invece è simbolico o collettivo?
E’ assolutamente autobiografico, non mi sognerei mai di fare un disco su qualcosa che non ho vissuto sulla mia pelle, ma più che altro è un lavoro che è ricco di spunti di riflessione, non vuole portare l’esperienza di un singolo ma mettere alcuni temi sul piatto, e vuole quindi porre dei quesiti sulla vita.
“Wisteria” pone domande sull’identità, la scelta, la libertà. Cosa speri che resti a chi lo ascolta per intero, in ordine, come fosse un viaggio o un rito?
Spero di poter far immergere l’ascoltatore in una dimensione in cui si è stimolati a guardarsi dentro, ad essere ricettivi. Sono 11 minuti in cui accadono moltissime cose, ed è quindi un lavoro che va ascoltato con concentrazione. E’ un modo per fermarsi, chiudere le porte del fuori e aprire quelle del dentro. Spero anche di fornire un esempio di creatività e di libertà a chi incrocia il mio percorso, l’ho creato e pubblicato con coraggio e coraggio vorre infondere in chi ascolta.
Grazie Francesca e complimenti per la tua carriera artistica!
Per saperne di più visita:
Facebook | Instagram | Spotify
Sostieni Che! Intervista con una donazione
Richiedi un’intervista esclusiva!